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« Via de la PenitenzaEr seconno diluvio »

Il Trecentonovelle 81-83

Post n°1381 pubblicato il 19 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXXXI

Uno Sanese, stando da casa i Rossi in Firenze, avendo prestato danari a uno di loro, va dov'e' giuoca e colui, veggendolo, e avendo vinto, comincia a biastemare, e 'l Sanese dice che non gli de' dar nulla.

Nel tempo che molti gentiluomini, avendo perduta la signoria di Siena, furono confinati molti di loro chi qua e chi là, fu confinato tra gli altri uno Nastoccio o Minoccio de' Saracini, il quale tolse una casa a pigione da casa i Rossi; e là dimorando, era usante, come sono li Sanesi, ed era giucatore di tavole bonissimo. Aveva prestato costui a un Borghese de' Rossi circa fiorini dieci, ed era passato ben due mesi che riavere non gli potea. Ora questo Sanese, essendo da alcuni vicini invitato di bere, dice l'uno:
- Io ho fatto venire un fiasco di vino di villa, andianne a bere.
Dice il Sanese:
- Per lo santo sangue di Dio, che non potrebbe esser buono Iddio, se fusse in fiasco; e ancora si laverebbe prima un ventre che un bicchiere casereccio: andiàncene alla taverna, ché è qui presso un buon vino al Canto a' quattro paoni.
La brigata, udendo li piacevoli motti del Sanese, non seppono disdire. Andarono a bere con lui alla taverna; e avendo quasi beúto quello che piacea loro, venne un suo compagno a dirli che colui che gli dovea dare dieci fiorini giucava a tavole da casa i Gucciardini, e che avea vinto ben trenta fiorini. Udendo il Sanese questo, disse a' compagni:
- Deh, andiamo di quassú dal pozzo Toscanegli, e torneremo in giú verso il ponte, ché m'è detto che 'l tale giuoca, e ha vinto; forse mi renderà dieci fiorini.
Mossonsi, dicendo:
- Fa' la via a tuo senno, e noi seguiremo.
E cosí andando, come costui si venne appressando, e Borghese, veggendolo, comincia adirarsi e percuotere le tavole, come se mai non avesse vinto; e come il Sanese gli fu presso, piú mostrava Borghese l'ira, volgendo il viso al cielo, e biastemando tutta la corte del paradiso.
Giunto il Sanese, e veggendo gli atti dolorosi di Borghese, e immaginando che ciò facea ad arte, per non aver materia di pagare, dice a Borghese:
- Ciòe, non biastemare, tu non mi dee dare cavelle.
Borghese col busso delle tavole, e col furore, fece orecchi di mercatante, onde il Sanese s'andò con Dio, con intenzione di non addomandarli e di non averli mai.
Avvenne da ivi a certi dí che Borghese, giucando e avendo perduto, volea accattare denari, ed essendovi il Sanese, lo richiese di prestanza, dicendo:
- Io ti debbo dare dieci fiorini; prestamene cinque, e fieno quindici.
Il Sanese risponde:
- A me non déi tu dar cavelle.
Dice Borghese:
- Come? Io ti debbo pur dar dieci fiorini; al corpo e al sangue, che io te gli darò domane.
Il Sanese dice:
- Io ti dico che non debbo avere da te nulla.
E colui pur rimettesi. E 'l Sanese mai non disse altro, che:
- A me non déi tu dare cavelle.
E cosí si rimase la cosa; e non credo che mai gli riavesse; ché se quel gentiluomo de' Rossi avesse aúto conoscimento, se non gli dovesse mai aver renduti al Sanese, gli dovea rendere, per la piacevolezza delle parole usate verso lui.


NOVELLA LXXXII

Uno Genovese quasi uomo di corte per una festa che si fa a Melano, giugne dinanzi a messer Bernabò, il quale, volendo vedere come sostiene al bere, il fa provare con un gran bevitore suo famiglio; e 'l Genovese il vince.

Quando messer Marco Visconti primogenito di messer Bernabò menò la donna sua che avea nome madonna Isabetta della casa di Baviera, o di quelle maggiori della Magna, capitò a questa corte, com'è d'usanza, uno Genovese piacevolissimo, ed era come uno uomo di corte, bevitore era grandissimo e mai il vino non gli facea noia. Avvenne che costui andò a vicitare messer Bernabò, e stando dinanzi a lui inginocchioni, e dicendo sue novelle, e messer Bernabò, considerando, come colui che conoscea gli uomini all'alito, il lasciò star piú d'un'ora, che mai non disse che si levasse. Alla per fine, dolendo al Genovese le ginocchia, da sé stesso si levò, dicendo:
- Signor mio, io non posso piú stare inginocchioni.
Il signore guarda costui, e dice:
- Tu déi essere uno obbriaco.
Dice il Genovese:
- Io non sono obbriaco, Signore; ma beo volentieri.
Dice messer Bernabò:
- Se tu bei cosí volentieri, vuo' tu bere a prova con un mio famiglio?
Dice il Genovese:
- Utinam, Domine.
Dice messer Bernabò:
- Aspetta un poco -; e fa chiamare il bevitore suo.
Il qual, subito fu dinanzi a lui, dice il signore:
- Vien za; vuo' tu fare a prova di bere con costui?
E quegli risponde:
- Signore, volentiera.
- Or mo via, - dice il signore, - qualunche vincerà, io gli farò un dono com'io crederrò che lo meriti; e colui che perderà, converrà che bea dodici tratti della mia malvasía.
- Sia con Dio, - dissono i bevitori.
Allora il signore dice a' servi:
- Andà addurre uno boccale d'Orlando.
E vanno, e recono uno quarto di un vino bianco, o di Creti, o donde che si fosse, che era sí grande che pochi uomini erano che n'avessono beúto tre volte che non rimanesseno ammazzati. E perché questo vino era cosí grande, e cosí vincea ciascuno, e però il signore il chiamava Orlando. Ora, apparecchiato il vino, e molti bicchieri lavati, dice il signore:
- Pigliàve per la mano, e cominciate a ballare.
E quelli cosí fanno. E 'l signore gli chiama, e dice:
- Date bere a ciascuno tre muiuoli.
E cosí feciono; poi gli facea ballare. Il Genovese ballava molto piú destro.
Chiamatigli la seconda volta, dice:
- Date sei bicchieri a bere a ciascuno.
E cosí beono: poi fa loro ripigliare il ballo.
Il Genovese salta, che parea un beccherello. Il bevitore di messer Bernabò comincia a innaspare da piede. Sono chiamati la terza volta, e dato nove bicchieri per uno; ripigliano il terzo ballo. Il Genovese fa scambietti, lanciandosi in alto piú destro che se fosse stato una lontra; il bevitore del signore non si poteva azzicare, e andava a onde, come se fosse in fortuna. La quarta volta beve il Genovese dodici bicchieri; quel del signore, che era nell'altro mondo, appena gli poté bere; pur gli bevve, sforzandosi quanto poteo.
Ed entrando nel quarto ballo, nel quale il Genovese facea cose maravigliose, l'altro ogni passo era per cadere, e nella fine cadde in terra disteso. Com'elli cadde, il Genovese a cavalcioni li salí addosso; e pregò il signore che lo dovesse far cavaliere in sul corpo di quello obbriaco; e 'l signore disse che lo meritava bene, e fecelo cavaliere in su l'ubbriaco.
Fatto cavaliere, il Genovese guarda il signore, e dice:
- Con vostra licenza, volete voi che io facci lui cavaliere bagnato sí come merita?
Dice il signore:
- Fa' ciò che tu vuogli.
Il Genovese mette mano alle brache, e scompisciò l'obbriaco con piú orina che non avea beúto malvagía, che ne avea bevuto trenta bicchieri; e scompisciato che l'ebbe, col mazzapicchio gli dié tale in su la gota che s'udí come se fussi stata una gran gotata, e disse:
- Questa è la gotata ch'io ti do; e voglio che per mio amore tu abbi nome messer Cattivo.
E cosí fu sempre chiamato.
Quando messer Bernabò ebbe assai di queste cose riso, fece portare il corpo di messer Cattivo dal cortile, dov'erano le stalle de' cavalli suoi, e feciolo gittar su un monte di letame, dicendo:
- Tu l'hai fatto cavalier pisciato, e io lo farò cavalier sconcacado; e te, che meriti d'avere onore, voglio che sia a mia provvisione per quello che tu domanderai (e fa venire due bellissime robbe, e donògliele), e come tu hai battezzato lui messer Cattivo, e io voglio battezzar te messer Vinci Orlando.
E cosí fu sempre chiamato.
A cui vien fatta una cosa o bella o laida, dinanzi a un signore, quando è ben disposto, li vien ben fatto, come venne a questo Genovese: ma a molti è incontrato già il contrario, perché l'animo d'un signore parrà talora cheto, e tra sé medesimo combatte con diverse genti e in diverse parti. Piú sicuro saria, a chi 'l può fare, di non s'impacciare, e non sarà impacciato.


NOVELLA LXXXIII

A Tommaso Baronci, essendo de' Priori, sono fatte da' Priori tre piacevoli beffe.

Essendo de' Priori ne' loro tempi Marco del Rosso degli Strozzi, e Tommaso Federighi, e Tommaso Baronci, e altri, avvenne, come spesso interviene, che volendo pigliare il detto Marco e Tommaso Federighi alcuno piacere d'alcuno de' compagni, ebbono procurato Tommaso Baronci esser quello di cui gran piacere si potea pigliare. Essendo il detto Tommaso Baronci Proposto, uno suo paio di scarpette co' becchetti grosse (essendo andato al letto) gli arrovesciorono una sera; e la mattina, levandosi, e sonando in fretta a' collegi, mettendosi le dette scarpette al buio, essendo sollecitato, n'andò nella udienza; e là postosi a sedere, statovi gran pezza, tanto che tutti i collegi v'erano, Marco guardando a' pie' di Tommaso, disse:
- Che è questo Proposto? Vuo' tu andare a cacciare con coteste scarpette?
Quelli guatale e dice:
- Come! che mala ventura è questa? Elle non paiono le mia, benché io non le veggo bene, se io non ho gli occhiali.
E cavossi gli occhiali da lato, e misseseli, e con essi si chinava quanto potea, facendosi verso la finestra; ciascun guatava che scarpette son quelle.
Dicea Tommaso:
- Elle non sono le mie, ch'ell'aveano i becchetti, e queste non l'hanno.
Alla per fine se n'andò alla camera sua, e là se le cavò, e guata e riguata; il Toso famiglio, che v'era presente, disse:
- Tommaso, queste scarpette sono state arrovesciate -; e mostrògli i becchetti, ch'erano dentro.
Dice Tommaso:
- Toso, tu di' vero; che serebbe stato questo?
Quel rispose:
- Io non so; il meglio che ci sia è dirizzarle.
E tra egli e 'l Toso ebbono che fare, anzi che l'avessino addirizzate, ben insino a terza; e pur si passò Tommaso senza darsi piú briga. Marco e Tommaso il dí medesimo feciono un altro giuoco, che gli fororono l'orinale, dove, stando in sul letto ritto, orinava la notte, e riposonlo nel luogo suo; e la sera a cena, essendo su la mensa di molti capponi arrosto, Tommaso Baronci, come Proposto, diede uno cappone al Toso, e disse:
- Va', mettilo nella cassa mia; e domattina il porterai alla Lapa, - cioè alla moglie.
Toso cosí fece. Marco, e Tommaso Federighi, veduto questo, quando ebbono cenato, segretamente feciono pigliare una gatta di quelle della casa, e tolto il cappone, che era nella cassa, vi missono la gatta, e dentro ve la serrarono. E cosí disposto e l'orinale e la gatta, aspettarono il tempo che la detta loro faccenda ordinata venisse a quel fine che desideravono.
Andatisi al letto tutti li signori, su la mezza notte e Tommaso si rizza sul letto, pigliando l'orinale, facendo quello che era usato. Marco, che era desto, dice:
- O Proposto, tu ci desti ogni notte con questo tuo orinare.
Tommaso stillava su per lo letto, e fece orecchi da mercatante, e appiccando l'orinale s'avvide ogni cosa esser ita su per lo letto, e colicandosi, appena trovò un poco d'asciutto. Levandosi la mattina, venendo il Toso ad aiutarlo vestire, dice Tommaso:
- Toso mio, io sono vituperato, e non so che mi fare; la cotal cosa m'è intervenuta; l'orinale mostra che sia rotto; istanotte, orinandovi entro, com'io soglio, tutta l'orina è ita per lo letto, e se i miei compagni veggono, diranno v'abbia pisciato.
Disse il Toso:
- Io v'ho detto piú volte che sarebbe meglio uscire un poco fuore del letto, però che 'l vetro scoppia molte volte, e spezialmente per l'orina, e ciò che v'è dentro s'esce di fuori.
Dice Tommaso:
- Ben la pisceremo! o perché terre' io l'orinale, s'io dovesse uscir del letto?
Dice il Toso:
- E' mi pare che ci sia pisciato troppo: - e stende il copertoio - ecco, io porterò le lenzuola a casa vostra, e dirò che me ne dia un altro paio.
Dice Tommaso:
- Non fare; se la Lapa le vedesse cosí conce, io non arei poi pace con lei; ma fa' com'io ti dirò: portera'le a casa tua, e da'le a qualche feminetta, che le lavi in acqua fresca e asciughile, e non dire di cui siano, e poi le porterai a casa, ma fa' che oggi siano asciutte, e poi le porterai, e allora vorrò che porti il cappone.
E Toso cosí fece, che portò le lenzuola, e fecele lavare, e subito le pose ad asciugare, e asciutte che furono, el Toso le rapportò a Tommaso, il quale el commendò della sollecitudine che aveva aúta, di far fare un bucato senza fuoco, e disse:
- Vie' qua, andiamo per quel cappone, che la Lapa è una donna diversa, e s'ella dicesse nulla delle lenzuola, veggendo il cappone, si rattempererà un poco.
E cosí ragionando Tommaso col Toso, giunsono alla camera, e Tommaso aprendo la cassa, dov'era il cappone, e la gatta schizza fuori, e dàgli nel petto; il quale impaurito lascia cadere il coperchio, e fuggesi fuori tutto smarrito, che quasi era per perdersi affatto. Marco, e l'altro Tommaso, passeggiavano di rincontro per vedere a che la novella dovesse riuscire, e giunti dov'era Tommaso, dicono:
- Che avesti, che tu fuggisti fuor della camera?
Dice Tommaso:
- Io credo che fusse il nimico di Dio; e serà stato quello che m'arrovesciò le scarpette.
Disse il Toso:
- A me parve egli una gatta.
Disse Tommaso:
- Ben, che fu gatto maschio: e' mi parve tre cotanti che una gatta.
Disse il Toso:
- Andiamo alla cassa, e datemi il cappone, ch'io il porti.
E tornano ad aprirla; e apertala, sul tagliere non era alcuna cosa.
Dice Tommaso:
- Oimè! che 'l Toso arà detto il vero, ch'ella s'ha manicato il cappone.
Dice Marco e 'l compagno:
- Onde v'entrò la gatta? ha la cassa gattaiuola?
E 'l Baroncio trae fuora le masserizie, e guatando dice:
- Io non ci veggo né gattaiuola, né buca.
Dice Tommaso Federighi:
- E' m'avvenne una volta, ch'io fui de' signori, com'ora, simil caso; e brievemente, quando io mandai il famiglio col tagliere, che 'l mettesse nella cassa, una gatta v'era entro a dormire: e' non se n'avvedde, e mangiossi quello ch'era sul tagliere, e poi se n'uscí in questa forma che questa.
- Mala ventura, che cosí nuova fortuna non m'avvenne mai piú, e credo che da ieri in qua sia dí ozíaco per me. Or ecco, io non credo mai compiere questo officio che io ritorni alla Lapa mia, che con lei non ho mai paura; e qui ci starò oggimai con gran temenza, però che io credo che tra queste camere sia qualche mala cosa.
Vo' dite pur: gatta, gatta: arrovesciommi la gatta le scarpette, e anco altro, che fu peggio?
Dice Marco:
- E' può ben essere: a cotesto vagliono molte orazioni e paternostri; abbine consiglio con questi maestri in teologia.
E mandò tre dí per certi teologhi, li quali li dierono consiglio ch'egli orasse e dicesse paternostri otto dí dalle quattro ore insino a mattutino; e questo consiglio fu fattura de' due compagni.
Il detto Tommaso, come invilito dalla paura, cosí fece che otto notti quasi non dormí, armandosi con molti paternostri, acciò che 'l nimico non entrasse piú nella cassa, e scemato quaranta libbre, finí l'officio, e tornossi alla Lapa, nelle cui braccia prese gran sicurtà, dicendole che non volea mai piú esser de' Priori, però che 'l demonio era in quelle camere, e a lui avea fatto le cose scritte di sopra, raccontandogliele a una a una: e con questa credenza stette finché visse, che fu poco.
Per le simplicità di molti si muovono spesso de' savi a fare cose da trastulli, per passar tempo; ché benché gli uomini siano signori, perché spesso hanno malinconie, pare che non si disdica fare simili cose per sollazzare la mente.

 
 
 
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