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Della Casa (app.3)

Post n°1211 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

8.

Io nol vo' più celar com'io soleva,
Dio 'l sa, se m'offendeva un tanto scorno,
Lungo è stato il soggiorno; or sia più presto
Spento 'l fetor che quell'arpia spargeva,
Che d'or in or cresceva d'ogn'intorno.
Venuto è pur il giorno, ov'altri è desto;
Ch'omai faccia del resto è giusta cosa
La fera obbrobbiosa; e al mondo aggrada,
Ch'a terra cada; sì gli è odiosa.
Altera e disdegnosa
Ne vien sopra di lei vindice spada.
Tropp'errat'ha la strada per l'addietro;
Ond'anch'è onesto, se or se stessa perde,
E se restando al verde
Manca ogni speme sua come di vetro.

L'accostarsi a San Pietro, or non più vo'.
Giovar più non gli può, ch'io m'intend'io;
Temp'è che gli paghi il fio, e forza è berlo;
Ogni voce è feretro, or basta mo,
Se gli varrà io nol so campagna o rio
Contro l'ira di Dio , fosso , arco, o merlo:
Ma come ognun, vederlo ancor io voglio,
E fracassarsi in scoglio fuor de l' onde,
Se 'l ver risponde a quel di ch' io mi doglio;
L'ardir, l' enorme orgoglio,
Tiranno empio crudel che in te s'asconde,
Il termin che 'l confonde, ti richiama:
E per se stesso ogni saper ti fugge,
Ed ogni buon si strugge,
Che 'l precipizio tuo dì e notte brama.

Già cresce fama a fama il tuo nemico.
Tu sai ben quel ch'io dico; or lasci andare;
Ch'anco l'è per mostrar a le tue spese,
E segual chi non ama il gioco antico.
Di già maturo è il fico, e come pare,
Temp' è da vendicare tante offese,
E far nel mio paese buona stanza,
Che di questa speranza è visso altrui.
Se ben io fui e son con gli altri in danza,
Talchè non più ci avanza
Che'l sangue, e quel forz'era darlo a lui.
Seco or nosco è colui, che seco regge
Quel ch' anco i rei, quanto gli piace, alberga.
E con l'irata verga
Torran di guardia al lupo il pover gregge.

Facilmente chi legge ben m'intende:
Chi'l braccio troppo stende il suo mal piglia;
Ed invan s assottiglia e si scavezza,
Chi de l'ingiusto legge farsi attende.
Con ruina discende a grosse miglia
Chi in aere s'appiglia, e Dio non prezza.
Una tarda dolcezza è più soave;
Più dolce è quella chiave ch' al fin sciolse;
Ma tardar volse poi che messo un core
Di catena aspra e grave
In quella libertà ch'altri gli tolse;
S' alcun già mai si dolse, o ancor si dole,
Or sarà men l'altrui col suo dolore
Quest' empio, non signore,
Che dov' egli è, è peggio ch'ei non suole.

Con fatti e con parole accorte e saggie
Veggio or chi ne sottragge ogni gran cura,
Ed a prigion sì oscura un presto lume:
Fiorir gigli e viole per le piaggie,
E due fere selvaggie intra le mura.
Correr senza paura, e d' altre spume
Gioir il vicin fiume in pace volto;
Poi che'l gran lezzo accolto, qual ei fia
De l'empia tiranna, via sarà tolto:
Veggio con chiaro volto
A le due fiere agevolar la via
Benigna l'una e pia ne'costui danni;
E quella che 'l leon s' amica e segue,
Non voler pace o tregue,
Fin che con lui la brutta bestia azzanni.

Vestita d'altri panni,
Canzon, s'egli cercasse di me orma,
Daglien sol questa norma: ancor ei nacque,
Come al ciel piacque, sotto la tua insegna,
Ch' or d'uman sangue pregna, non più salda;
Né che'n ogni atto rio piantata e retta
In piè star debba, aspetta;
Ma che 'n breve ti sia di foco falda.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 346



9.

Vivo mio scoglio, e felce alpestre e dura,
le cui chiare faville il cor m'hanno arso,
freddo marmo, d'amor, di pietà scarso,
vago, quanto più può formar natura:

Aspra COLONNA, il cui bel sasso indura
l'onda del pianto da questi occhi sparso,
ove repente hora è fuggito, e sparso
tuo lume altero, e chi mel toglie, e fura?

O' verdi poggi, ò selve ombrose, e folte,
le dolci luci di begli occhi rei,
che 'l duol soave fanno, e 'l pianger lieto,

a' voi concesse, à me lasso son tolte,
et puro fele hor pasce i pensier miei,
e 'l cor' doglioso in nulla parte ho queto.

Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 63



10.

A pandolfo Rucellai, a Murano

Non lasciate quel baccellon nell' orto,
Perchè la nebbia gli farebbe danno;
Fate che dica a' suoi, se lo rifanno,
Ch' abbia l' occhio a tenerlo un po' più corto.

E dite a messer Stefan, ch' egli ha il torto
A inviluppar 'n un pelliccion di panno
Quel suo fardel, che i raffi gliel terranno,
E pagheranno la gabella e 'l porto.

Benché questo pensier tocca a Anniballe,
Che deverebbe far ch' il suo maestro
Non portassi il sacchetto in su le spalle:

Al qual direte, che rompa il balestro
Con che ei suol uccellare alle farfalle,
Perch' ei ne deve aver pieno il canestro.

E se vi verrà destro,
Con ambedue le man dite a Marina,
Che mastr' Anton la chiama ogni mattina.

Ed alla barbierina
Potrete dir, se 'l vostro amor gli aggrada,
Che la vi può tosar, ma non vi rada.

Tutta questa contrada
Abbiam chiamato per farvi un sonetto,
Noi di Venezia, e non c' è Benedetto.

E vogliam con effetto
Farvi veder, che senza Raffaello
Non eri buon per torci quell' agnello;

Il qual muor di martello,
E molto prega, e molto si riscalda ,
Che maestr' Anton non baci la castalda.

Ed Enrico ha la falda,
Che lo assalisce, e non già da caleffo,
L' amor di una magnifica nel ceffo.

(Poesie Italiane inedite di Dugento Autori, pag. 196)

Note:

Estratta dal codice 658 magliabecchiano
Il sonetto del Casa sta in un codice magliabechiano, in folio, scritto di mano del calligrafo Ghirardello, che fiorì intorno il mezzo del cinquecento; e sta sotto nome di "Monsignor Giovanni dalla Casa di Venezia a Pandolfo Rucellai a Murano", indicando ancora dove il sonetto fu composto, e dove e a chi mandato .

(Trucchi, pag. 174)

 
 
 
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