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Il Dittamondo (4-26)

Post n°1062 pubblicato il 16 Gennaio 2015 da valerio.sampieri

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXVI

Tanto mi dilettava il ragionare 
accorto e bello de la scorta mia, 
ch’andando in fretta non mi parea andare. 
Noi trovammo un fiume per la via, 
sopra il qual prese campo il re Artú 5 
con la sua grande e ricca compagnia: 
io dico quando aspra battaglia fu 
da Ariohan a quel di Leonois: 
credo che ’l sai, però non dico piú. 
Poi trovammo la fonte in Sorelois, 10 
dove fu l’altra non meno aspra e grave 
tra Danain e Guron le Cortois. 
Noi andavamo per terra e per mare 
cosí fuggendo li diletti e l’ozia, 
com li cerca colui ch’è pigro e grave. 15 
Al fin, per aver copia de la Scozia, 
passammo lá e fu breve il cammino, 
però che l’una presso a l’altra è sozia. 
Molto è il paese alpestro e pellegrino 
e la gente v’è ruvida e salvatica, 20 
aspera e fiera a ogni suo vicino: 
vero è ch’egli han mutato vezzo e pratica 
per bontá d’Adoardo, ch’è or vivo, 
che gli ha frustati piú su che la natica. 
La gente, de la qual or qui ti scrivo, 25 
e carne e pesce e latte han per vivanda: 
e di questo è il paese molto divo. 
Similemente passammo in Irlanda 
la qual fra noi è degna di fama 
per le nobili sarge che ci manda. 30 
Ibernia ora qui ci aspetta e chiama 
e, benché ’l navicar lá sia con rischio, 
la ragion fu qui vinta da la brama. 
Diversi venti con mugghi e con fischio 
soffiavan per quel mare, andando a piaggia, 35 
lo qual di scogli e di gran sassi è mischio. 
Questa gente, benché mostri selvaggia 
e, per li monti, la contrada acerba, 
non di meno ella è dolce a chi l’assaggia. 
Quivi son gran pasture e piene d’erba 40 
e la terra sí buona, che Cerera 
niente a l’arte sua mostrar si serba. 
Quivi par sempre, come in primavera, 
un’aire temperata che gli appaghi, 
con chiare fonti e con belle rivera. 45 
Quivi vid’io di piú natura laghi 
e un fra gli altri che sí mi contenta, 
ch’ancor diletto n’han gli occhi miei vaghi. 
Dico, se un legno vi ficchi, doventa 
in breve ferro quanto ne sta in terra 
e pietra ciò che l’acqua bagna e tenta. 
La parte sopra, che sol l’aire serra, 
da la natura sua non cambia verso, 
ma tal qual vi si mette se ne afferra. 
Un altro ve ne vidi assai diverso: 55 
che, qual vi pon di cornio una verghetta, 
frassin diventa quella ed e converso. 
Ancora vi trovammo un’isoletta, 
lá dove l’uomo mai morir non puote, 
ma, quando in transir sta, fuor se ne getta. 60 
E sonvi ancora caverne rimote 
dove niun corpo si corrompe mai, 
sí temperata l’aire vi percote. 
Carne e frutti diversi vi trovai, 
c’hanno per cibo, e il latte per poto, 65 
del quale senza fallo n’hanno assai. 
Cosí cercando il paese rimoto 
e dimandando, ci fu dato indizio 
d’un monister molto santo e divoto. 
Lá ci traemmo e lá fu il nostro ospizio. 70 
Poi que’ buon frati al pozzo ci menaro, 
lo qual dá fama al beato Patrizio. 
Quivi mi disse il mio consiglio caro: 
"Che farem noi? Vuo’ tu passar qua dentro, 
che d’ogni novitá cerchi esser chiaro?" 75 
"Senza il consiglio, rispuos’io, non ci entro 
di questi frati, ché troppo m’è scuro 
pensar cercar lo ’nferno in fino al centro". 
E l’un rispuose a me: "Se netto e puro, 
costante e pien di fede non ti senti, 80 
se v’entri, del tornar non t’assicuro". 
E io: "Se puoi, fa che mi contenti: 
fama di molti per lo mondo vola, 
che son tornati da questi tormenti". 
Ed ello: "Di Patrizio e di Nicola 85 
è manifesto, senza dubbio alcuno, 
che scesono e tornâr per questa gola. 
De gli altri ti so dir che di cento uno, 
che porti di ciò fama, qui non passa: 
e io per certo non ne so niuno". 90 
"Solin, diss’io, questo pensier lassa 
e non volere il tuo Signor tentare; 
tristo sarò s’alcun qui mi trapassa; 
basti a noi quel di sopra cercare". 
"Tu dici ben", diss’ello. E qui da’ frati 95 
preso commiato, li lasciammo stare. 
Cosí passammo monti, ville e prati 
e trovammo le genti, che vi stanno, 
piú ch’ad altro lavoro al cacciar dati. 
Perle, gagate e assai metalli v’hanno 100 
e sassagos, la cui natura è propia 
che, poste al sole, l’arco del ciel fanno. 
L’isola, per lunghezza, vi si copia 
di cento venti miglia e ’l nome ad essa 
quel d’Ibero oceano li s’appropia. 105 
Un’isoletta in questo mare è messa: 
Tanatos, ch’è nemica de’ serpenti; 
poi son l’Ebude assai lungi da essa. 
Propio alcun non voglion queste genti; 
usano latte, pesce e hanno re 110 
ch’a legge i tien con pover vestimenti. 
De le isole Arcade diece n’è 
abitate e qui fui con Solino; 
passammo poi a Tile, ch’al fin è
dico del mondo, per questo cammino. 115

 
 
 
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