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Il Dittamondo (2-06)

Post n°800 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO VI

Crudel via piú che col parlar non spargo 
vidi Nerone e del mio gran tesoro; 
quanto a sé, niuno fu giá mai piú largo. 
Reti fe’ far da pescar tutte d’oro 
e altri strani e nuovi adornamenti 5 
e ’l Culiseo, che fu sí gran lavoro, 
belle pinture e ricchi vestimenti; 
e tanto in suoi diletti spese e mise, 
che fe’ tornare il cento a men di venti. 
Ma poi che morte da me lo divise, 10 
di Galba Sergio fui, del qual si disse 
che per viltá se stesso il tristo uccise. 
Sette mesi signor con meco visse; 
apresso Otto seguio, che tre, non piú, 
governò il mio, prima che morisse. 15 
Vitellio Lucio dopo costui fu, 
che men di nove, per quel ch’io udío, 
la morte affretta e qui non fu piú. 
Vespasian diece anni tenne il mio, 
lo qual con Tito suo fe’ la vendetta 20 
sopra i Giudei del Figliuolo di Dio. 
Costui d’amare e servir si diletta 
sempre li suoi suggetti e tal fu in armi, 
che piú province mise in mia distretta. 
Qui voglio del figliuol suo gloriarmi 25 
che, poi che ’l suo buon padre venne meno, 
sempre pensò di valermi e d’atarmi. 
Dotato posso dir che fu a pieno 
d’ogni nobil costume e in opra tale, 
che ben fu degno di guidar tal freno. 30 
Ai suoi nemici rendeo ben per male; 
da lui niun si partí giá mai tristo, 
tanto era grazioso e liberale. 
Per mobile tenea e per acquisto 
quanto donava o presentava altrui, 35 
né mai turbato non l’avresti visto. 
Quel dí dicea che si perdea per lui, 
che del suo non donava o facea grazia; 
due anni e mesi il mio tenne costui. 
Domiziano apresso sí mi strazia 40 
da sedici anni, che suo fratel fue, 
benché in men d’uno me ne vidi sazia. 
Sí gravi funno a me l’opere sue, 
qual di Nerone o di Gaio Gallicola: 
certo fu ’l terzo dietro a questi due. 
Vero è che se in mal far la lor matricola 
seguio, e cosí poi similemente 
la vita lor crudelmente pericola. 
E, secondo ch’ancor m’è ne la mente, 
cosí il cristiano costui perseguio 50 
come Nerone dispietatamente. 
Il Panteon dentro dal grembo mio 
allor fu fatto in nome d’una dia, 
la qual si disse madre d’ogni dio. 
Di questa cosí bella profezia 55 
non m’accorsi io allora, ma or ne godo, 
ché veggio che s’intese di Maria. 
Nerva fu poi e di costui mi lodo 
perché a lui spiacque ciò che fatto avea 
Domiziano e seguí altro modo. 60 
Cosí a passo a passo giú cadea 
e su montava, come veder puoi, 
secondo quei signori i quali avea. 
Ma tosto finí meco gli dí suoi: 
dico ch’essendo entrato ne’ due anni, 65 
da quattro mesi visse meco poi. 
Costui da esilio ritornò Giovanni, 
intendi il Vangelista; or puoi udire 
del Santo il tempo, se tu non t’inganni. 
Seguita ora ch’io ti debba dire 70 
del buon Traiano, il qual con gran vittoria 
di vèr ponente vidi giá redire. 
E se far deggio lume a la sua gloria, 
in India, in Persia, in Egitto fe’ tanto, 
che degno sempre fie di gran memoria. 75 
E possoli per ver dar questo vanto: 
che ’n fino a lui niun, dal primo Augusto, 
mi tenne con piú bene e con men pianto. 
Se vuo’ saper qual fu dal capo al busto, 
spia, quando piangea la vedovella, 80 
quanto vèr lei fu temperato e giusto. 
E leggi ancor, se non sai, la novella 
perché Gregorio non fu da poi sano, 
che, pregandone Dio, per lui favella. 
In questo tempo divenne cristiano 85 
con la sua donna e coi figliuoli Eustazio, 
per un miracol molto bello e strano: 
ché, cacciando una cerva, tra lo spazio 
de le sue corna vide in croce Cristo, 
per cui sostenne poi martirio e strazio. 90 
E morto meco Ignazio, ancor fu visto 
lá, dove sparte furon le sue membra, 
iscritto d’or per tutto Cristo Cristo. 
Ohimè lassa, quando mi rimembra 
di sí giusto signore e del riposo, 95 
come la vita d’or trista mi sembra! 
O sommo Bene, o Padre glorioso, 
verrá giá mai a cui di me incresca, 
ch’i’ esca d’esto limbo doloroso? 
Certo io non spero in la gente tedesca, 100 
in greco né in francesco, ché ciascuno, 
com’è fatto signor, sol per sé pesca. 
Or dunque in cui io spero? In niuno, 
che sia qual Romol fu, Camillo o Scipio, 
de’ miei, che porti fede al ben comuno, 105
col qual possa rifare il bel principio?

 
 
 
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