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« I scacchiEr ventinove »

Ortografia del Romanesco nel 1800

L'introduzione a "Tutti i sonetti romaneschi" di Giuseppe Gioachino Belli contiene un interessante "saggio" sull'ortografia del dialetto romanesco, preceduto da alcune considerazioni di carattere generale, di cui presento un estratto.

"Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di questi meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali. Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli. Alcuni termini di senso generale e di frequente ricorso vi suppliscono a molto.

Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo piuttosto che quel rione, ed anzi una che un’altra special condizione d’uomini della nostra città. Ogni quartiere di Roma, ogni individuo fra’ suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio dramma: dove comparirà sì il bottegaio che il servo, e il nudo pitocco farà di sé mostra fra la credula femminetta e il fiero guidatore di carra. Così, accozzando insieme le vari classi dell’intiero popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più strane contraddizioni. Dati i popolani nostri per indole al sarcasmo, all’epigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti modi di un genio manesco, non parlano a lungo in discorso regolare ed espositivo. Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed efficace: una frequenza di equivoci ed anfibologie, risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini, siccome conviene alla loro inclinazione e capacità.

Di qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche. Distinti quadretti, e non fra loro congiunti fuorché dal filo occulto della macchina, aggiungeranno assai meglio al fine principale, salvando insieme i lettori dal tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee. Ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina la fine."

Quella che segue è invece la parte più propriamente dedicata all'ortografia.

"Parliamo intanto delle consonanti.

La b tra due vocali si raddoppia, come abbito (abito), la bbella (la bella), debbitore (debitore) ecc. La b dopo la m si cambia in questa: cammio (cambio), cimmalo o cèmmalo (cembalo), immasciata (ambasciata), limmo (limbo), palommo (palombo), gamma (gamba), ecc. Ciò peraltro accade quando appresso la b venga una vocale. Se la b sia seguit da r, alcuni la mutano in m e alcuni no: per esempio le voci imbriaco, settembre, ambra, da molti si pronunceranno senza alterazione e da taluni si diranno immriaco, settemmre, ammra.

La c si ascolta quasi sempre alterata. Se è doppia avanti ad e o ad i, oppure ve la precede una consonante, contrae il suono che hanno nella regolar pronuncia le sillabe cia e cio in caccia e braccio, e lo prende ancora più turgido, che in questi due esempi non si ascolta. Preceduta poi da una vocale, anche di separata parola, prolungasi strisciando, similare alla sc, di scémo, oscèno, scimia: per esempio, piascére, duscènto, rèscita, la scéna, da li scento, otto scivici (piacere, duecento, recita, la cena, dai cento, otto civici) e simili. E qui giova il ripetere aver noi prodotto in esempio un suono soltanto similare, imperocché di simile, in questo caso la retta pronunzia non ne somministra. Pasce, pesce, voci della buona favella, si proferiscono dal volgo come le voci viziate pasce, pesce (pace, pece) colla differenza però che in questi ultimi vocaboli il valore della s è semplice e strisciante, laddove in que’ primi odesi doppio e contratto: di modo che, chi volesse rappresentare con la penna la differenza di questi due suoni, dovrebbe scrivere passce, pessce (pasce, pesce) pasce, pesce (pace, pece): quattro vocaboli che il dir romanesco possiede.

 Nella lingua francese si può trovare questo secondo suono strisciante della sc romanesca, il quale nella retta pronunzia dell’idioma italiano sarebbe vano di ricercare. Per esempio acharnement, colifichet, la chimie, s’échapper. Per ben leggere i versi di questo libro bisogna porre in ciò molta attenzione. I fiorentini hanno anch’essi questo suono, che coincide là appunto dove i romaneschi lo impiegano; ma dovendosi considerare ancora in quelli come un difetto municipale ed una alterazione del vero valor dell’alfabeto italiano, non si è da me voluto dare per esempio che potesse servire alla intelligenza degli stranieri.

Appresso però alle isolate vocali a, e, o, e a tutti i monosillabi che non sieno articoli o segnacasi, la c conserva bensì il suono grasso ai luoghi già detti, ma abbandona lo strascico; per esempio a cena, è civico, o cento. Si osserva in ciò la legge stessa che impera sulla c aspirata de’ fiorentini, i quali dicono la hasa, di hane, sette havalli, belle hamere, ecc., ed al contrario pronunziano bene e rotondamente a casa, è cane, o cose, che cavalli, più camere. Come dunque i fiorentini diranno la hasa, di hane, le hose (la casa, di cane, le cose) così i romaneschi diranno la scena, de scivico, li scento (la cena, di civico, i cento); e all’opposto per lo stesso motivo che farà pronunziare da’ fiorentini a casa, è cane, o cose, si udrà proferire a’ romaneschi a ccena, è ccivico, o ccento: imperocché in quelle isolate vocali a, e, o e ne’ monosillabi tutti (meno gli articoli, i segnacasi, di e da, e le particelle pronominali) sta latente una potenza accentuale che obbligando ad appoggiare con vigore sulla c iniziale de’ seguenti vocaboli, la esalta, la raddoppia, e per conseguenza n’esclude ogni possibilità di aspirazione come se fosse preceduta da consonante. La quale identità di casi offre uno benché lieve esempio di ciò che talora anche le lingue più diverse ritengono fra loro comune e inconvenzionale: la ragione di che deve cercarsi nella natura e necessità delle cose.

 Bisogna qui avvertire un altro ufficio della lettera c. Presso il volgo di Roma le voci del verbo avere sono proferite in due modi. Quando serve esso verbo di ausiliare ad altri verbi, tutte le di lui modificazioni necessarie ai tempi composti di questi si aprono col naturale lor suono, meno i vizi delle costruzioni coniugate: per esempio hai fatto, avevo detto, averanno camminato, ecc. Allorché però lo stesso verbo avere, preso in senso assoluto, indichi un reale possesso, i romaneschi fanno precedere ogni sua voce dalla particella ci. Non diranno quindi hai una casa, avevo due scudi, averanno un debito, ecc., ma bensì ci hai una casa, ci avevo du’ scudi, ci averanno un debbito, ecc. Poiché però il ci non è da essi pronunciato isolato e distinto, ma connesso e quasi incorporato col verbo seguente, così queste parole e altre verranno da me scritte colla particella indivisa: ciai, ciavevo, ciaveranno. E siccome esse consteranno pur sempre dall’accoppiamento di due voci diverse, io vi porrò un apostrofo al luogo dove cade l’unione fonica (ci’ai, ci’avevo, ci’averanno) affinché da niuno sien per avventura credute vocaboli speciali e di particolare significazione. Se poi la combinazione della altre parole del discorso, che vadano innanzi alle dette voci a quel modo artificiale, produrrà lo strisciamento oppure il raddoppiamento della c già da me più sopra indicato. Ecco in qual maniera si noteranno queste altre due differenze: Io sc’iavevo du’ scudi, Tu cc’iai una casa, ecc. Se al contrario il verbo avere non indichi un reale possesso allora le sue voci andran prive del ci: per esempio: avevo vent’anni, hai raggione, averanno la disgrazzia, ecc.

La d appresso alla n mutasi in questa seconda lettera. Vendetta si pronuncerà vennetta; andare, annà, indaco, innico, mondo, monno. Allorché però le parole principiate da in non saranno semplici ma composte, come indemoniato, indietro, indorare e simili, la d conserverà il proprio valore.

La g fra due vocali non si addolcisce mai nel modo che sogliono i buoni favellatori italiani, come in agio, pregio, bigio, ecc., ma si aspreggia invece e si duplica. Doppia poi, o preceduta da consonante avanti alla e ed alla i, si pronuncia turgida come la c ne’ medesimi casi. Nel resto questa lettera ritiene la sua natura. La sillaba gli nelle parole si cambia in due jj: mojje (moglie), ajjo (aglio), mejjo, fijjo, ecc. Ma l’articolo gli si muta in je: je disse, fajje (gli disse, fagli), ecc.

La l fra le vocali e le consonanti mute si muta in r, come Rinardo, Griserda, Mitirda, manigordo, assarto, sverto, morto, inzurto, ferpa, corpa, quarcheduno, arbero, Argèri, arcuanto, marva, scarzo, mea-curpa, per Rinaldo, Griselda, Matilde, manigoldo, assalto, svelto, molto, insulto, felpa, malva, scalzo, mea-culpa. Nulladimeno il vocabolo caldo e i suoi composti diconsi assai più spesso e generalmente callo, riscallo, e non cardo e riscardo. Ancora nel nome Bertoldo la d fa l e si dice Bertollo. Olio pronunciasi ojjo, rosolio fa rosojjo, risojjo o risorio. La medesima lettera l preceduta da un’altra consonante in una stessa sillaba, prende parimenti il suono di r. Pertanto le voci clima, plico, applauso, flauto, afflitto, emblema, blocco, Plutone, diverranno crima, prico, apprauso, frauto, affritto, embrema, brocco, Prutone.

Alcuni non della infima plebe volgono l’articolo il in el, laddove la vera plebaglia dice sempre er.

La s non suona mai dolce come nella retta pronunzia di sposo, casa, rosa. Odesi sempre sibilante, e, allorché non sibila, assume le parti di una z aspra: lo che accade ogni qual volta succeda nel discorso ad una consonate come sarza (salsa), er zegno (il segno), penziere (pensiere), inzino (insino) ecc.

La z nel mezzo delle parole costantemente raddopiasi. Così grazia, offizio, protezione, si proferiranno grazzia, offizzio, protezzione. Bensì questo s’intende allorché la z rimanga fra due vocali.

Generalmente, al principio delle parole, alcune consonanti restano semplici e molte al contrario si raddoppiano, purché la parola precedente non termini in un'altra consonante. Ma poiché pure questa teoria, comune in gran parte alle classi più polite del popolo, va soggetta a capricciose eccezioni, se ne mostrerà la pratica ai debiti incontri. Dopo però le finali colpite d’accento, sia manifesto, sia potenziale (come si disse più sopra, parlando de’ monosillabi) da noi si dovrebbe nella scrittura delle consolanti iniziali conservare il sistema della regolare ortografia. Un segno di più è forse qui oziosa ridondanza, dacché fu avvertito come la potenza accentuale raddoppi per sé stessa nella pronunzia le articolazioni seguenti: e il miglior proposito parrebbe quello di notar solamente ciò che si diparte dal resto. Purtuttavia, per non indurre in equivoco i meno pratici, ai quali potesse per avventura giungere questo scritto, seguiremo coi segni la guida del suono da essi rappresentato.

Per le lettere vocali non dovremo fare osservazioni se non se intorno alla a alla e e alla o. La prima esce sempre dalla bocca de’ romaneschi con un suono assai pieno e gutturale: l’acuto o il grave della seconda e della terza seguono le regole del dir polito, meno qualche incontro che all’occasione sarà da noi distinto con analoghi accenti. Basterà qui l’avvertire che niuna differenza si fa da e congiunzione ed è verbo, siccome neppure tra la o congiuntivo e la ho verbale: udendosi tutte pronunciare ugualmente con suono ben largo ed aperto.

Aggiungeremo a questo luogo che la i nei monosillabi mi, ti, ci, si, vi, trasformasi in e, pronunciandosi me, te, ce, se, ve. Al contrario poi la e in se, particella condizionale, volgesi in i. Questo rilievo per altro apparterrebbe più alla grammatica che all’ortografia: e noi di grammatica non parleremo, potendone i vizii apparir chiaramente dagli esempii, i quali verranno all’uopo corredati da apposite note dichiarative".

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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