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A Piero Manelli

Post n°571 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XXXVIII.
A Piero Manelli

Poi che mi dié natura a voi simile
forma e materia, o fosse il gran Fattore,
non pensate ch'ancor disìo d'onore
mi desse, e bei pensier, Manel gentile?

Dunque credete me cotanto vile,
ch'io non osi mostrar, cantando, fore,
quel che dentro n'ancide altero ardore,
se bene a voi non ho pari lo stile?

Non lo crediate, no, Piero, ch'anch'io
fatico ognor per appressarmi al cielo,
e lasciar del mio nome in terra fama.

Non contenda rea sorte il bel desìo,
che pria che l'alma dal corporeo velo
si scioglia, sazierò forse mia brama.

 

XXXIX.
Allo stesso

Amore un tempo in così lento foco
arse mia vita, e sì colmo di doglia
struggeasi 'l cor, che quale altro si voglia
martir, fora ver lei dolcezza e gioco.

Poscia sdegno e pietate a poco a poco
spenser la fiamma, ond'io più ch'altra soglia
libera da sì lunga e fera voglia,
giva lieta cantando in ciascun loco.

Ma 'l ciel né sazio ancor (lassa) né stanco
de' danni miei, perché sempre sospiri,
mi riconduce a la mia antica sorte;

e con sì acuto spron mi punge il fianco,
ch'io temo sotto i primi empii martiri
cader, e per men mal bramar la morte.

 

XL.
Allo stesso

Qual vaga Filomela, che fuggita
è da l'odiata gabbia, e in superba
vista sen va tra gli arboscelli e l'erba,
tornata in libertate e in lieta vita;

er'io da gli amorosi lacci uscita,
schernendo ogni martìre e pena acerba
de l'incredibil duol, ch'in sé riserba
qual ha per troppo amar l'alma smarrita.

Ben avev'io ritolte (ahi stella fera!)
dal tempio di Ciprigna le mie spoglie,
e di lor pregio me n'andava altera;

quand'a me Amor: le tue ritrose voglie,
muterò, disse; e femmi prigioniera
di tua virtù, per rinovar mie doglie.

 

XLI.
Allo stesso

Felice speme, ch'a tant'alta impresa
ergi la mente mia, che ad or ad ora
dietro al santo pensier che la innamora,
sen vola al Ciel per contemplare intesa.

De bei disir in gentil foco accesa,
miro ivi lui, ch'ogni bell'alma onora,
e quel ch'è dentro, e quanto appar di fora,
versa in me gioia senz'alcuna offesa.

Dolce, che mi feristi, aurato strale,
dolce, ch'inacerbir mai non potranno
quante amarezze dar puote aspra sorte;

pro mi sia grande ogni più grave danno,
che del mio ardir per aver merto uguale
più degno guiderdon non è che morte.


XLII.
Allo stesso

S'io 'l feci unqua che mai non giunga a riva
l'interno duol, che 'l cuor lasso sostiene;

s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene

in guerra eterna de vostr'occhi viva;

s'io 'l feci, ch'ogni dì resti più priva
de la grazia, onde nasce ogni mio bene;
s'io 'l feci, che di tante e cotai pene,
non m'apporti alcun mai tranquilla oliva;

s'io 'l feci, ch'in voi manchi ogni pietade,
e cresca doglia in me, pianto e martìre
distruggendomi pur come far soglio;

ma s'io no 'l feci, il duro vostro orgoglio
in amor si converta: e lunga etade
sia dolce il frutto del mio bel disire.

 

XLIII.
Allo stesso

Se ben pietosa madre unico figlio
perde talora, e nuovo, alto dolore
le preme il tristo e suspiroso core,
spera conforto almen, spera consiglio.

Se scaltro capitano in gran periglio,
mostrando alteramente il suo valore,
resta vinto e prigion, spera uscir fuore
quando che sia con baldanzoso ciglio.

S'in tempestoso mar giunto si duole
spaventato nocchier già presso a morte
ha speme ancor di rivedersi in porto.

Ma io, s'avvien che perda il mio bel sole,
o per mia colpa, o per malvagia sorte,
non spero aver, né voglio, alcun conforto.

 

XLIV.
Allo stesso

Se forse per pietà del mio languire
al suon del tristo pianto in questo loco
ten vieni a me, che tutta fiamma e foco
ardomi, e struggo colma di disire,

vago augellino, e meco il mio martìre
ch'in pena volge ogni passato gioco,
piangi cantando in suon dolente e roco,
veggendomi del duol quasi perire;

pregoti per l'ardor che sì m'addoglia,
ne voli in quella amena e cruda valle
ov'è chi sol può darmi e morte e vita;

e cantando gli di' che cangi voglia,
volgendo a Roma 'l viso, e a lei le spalle,
se vuol l'alma trovar col corpo unita.

 

XLV.
Allo stesso

Ov'è (misera me) quell'aureo crine
di cui fe' rete per pigliarmi Amore
ov'è (lassa) il bel viso, onde l'ardore
nasce, che mena la mia vita al fine?

Ove son quelle luci alte e divine
in cui dolce si vive e insieme more?
ov'è la bianca man, che lo mio core
stringendo punse con acute spine?

Ove suonan l'angeliche parole,
ch'in un momento mi dan morte e vita?
u' i cari sguardi, u' le maniere belle?

Ove luce ora il vivo almo mio sole,
con cui dolce destin mi venne in sorte
quanto mai piovve da benigne stelle?

Tullia d'Aragona

 
 
 
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