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Il diario di Nancy

Pensieri e storie tra il vero, il verosimile e l'inganno.

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La morte di un amore

Post n°178 pubblicato il 05 Ottobre 2007 da bimbadepoca
 

La prima volta che sono morta, accadde mentre camminavo. Era un tranquillo pomeriggio di luglio, il cielo era di un turchese abbacinante e si rifletteva sulla mia pelle perlacea.
La parola “fine” mi arrivò dritta al cuore, esplosa dalle sue labbra, fredda come cristallo, insieme con altre parole scialbe e dimenticate.
Non piansi nemmeno una lacrima il giorno del mio primo funerale. Avevo guance pallide e occhi asciutti e vuoti di una triglia rimasta senza mare.

La seconda volta sono morta affogata. Lo aspettavo seduta sulla vasca della fontana. Anche quel giorno il cielo era turchese e si rispecchiava nell’acqua stagnante rendendola cangiante.
Scivolai in quel pantano luminoso, goccia a goccia, mentre le ore d’attesa si rincorrevano sulle lancette dell’orologio in piazza. Lentamente e invano.
Il giorno del mio secondo funerale i miei occhi persero lacrime a fiotti, ma si confusero nell’acqua putrida della fontana.

La terza volta sono morta in una notte senza stelle, la luce opalescente della luna era soltanto una piccola ferita, appena un graffio nel grembo denso del cielo.
Correvo quella notte, scappavo dalle loro risate in fondo al corridoio, da un barattolo di Nutella mangiato a cucchiaiate sul letto di un’altra, dalle sue carezze mancate e dalla mia tenerezza oltraggiata.
Lui m’inseguiva quella notte maledetta, ma io preferii gettarmi sotto le ruote di un’auto in corsa. Un grido acuto, un rumore assordante di ferraglie e lui non mi portò nemmeno un fiorellino al cimitero.

La quarta volta sono morta nel giorno del mio compleanno. Guardavo attonita quella scena che mai avrei voluto vedere e non vidi la torta gigantesca con la panna montata e le ciliegine candite.
Ascoltavo i loro bisbigli di colombi e non sentii l’happy birthday che saliva stonato dalle gole dei miei amici.
Inciampai nello sgambetto delle sue promesse bugiarde e caddi a testa in giù dentro la torta con le candeline, spiaccicata sul pavimento di linoleum, a braccia e gambe aperte come in croce.

La quinta volta sono morta a Carnevale, ma quello fu un suicidio e non so se vale. Mi tagliai le vene dentro il bagno di casa, sul soffitto patacche ingiallite di vecchie infiltrazioni d’acqua.
Il sangue che scorreva nel lavabo non cancellò quei loro baci con la lingua, scambiati sul sedile posteriore, accanto a me muta di dolore.
Il mio quinto funerale fu il più bello di tutti, avevo i polsi fasciati e sul viso esangue, ancora, i lustrini e la maschera del carnevale. Mi portarono in processione come la Madonna trafitta dai sette dolori.

E sono morta ancora migliaia di volte, dopo quel Carnevale, lui mi strappava il cuore dal petto con le mani, forse, per punirmi della mia abnegazione simile a follia.
L’ultima volta sono morta nell’attesa di una telefonata che non è arrivata. Il mio cadavere è ancora tiepido, adagiato sulla poltroncina di vimini in salone, accanto alla cornetta del ricevitore.
Ricami di ragnatele sul corpo impolverato,  fuori dalla finestra un cielo inondato di sole festeggia il mio ultimo funerale con uno sberleffo.

 
 
 
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