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Mondo Jazz

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DUE TASTI DI TROPPO

Post n°2340 pubblicato il 28 Luglio 2012 da pierrde

Un pò di buon umore da un blog solitamente serissimo, quello di Doug Ramsey, giornalista, scrittore e critico musicale americano.

La foto proviene da Malcom Harris l'editor della biografia di Paul Desmond scritta da Doug.

La didascalia precisa che si tratta di un piano speciale pensato per hip-hop e rap, sottolineando la scarsa musicalità che spesso confina con la rozzezza dei due generi.

Ovviamente i commenti si sono sprecati, da chi richiama gli appassionati di jazz, secondo mitologia notoriamente persone dalle orecchie aperte, ad una maggiore tolleranza e comprensione a chi ribatte piccato che si, le orecchie sono aperte, ma solo per la musica...

Miglior commento quello di un lettore che sottolinea come, per i rapper e per l'hip-hop, questa tastiera presenti almeno due tasti di troppo...

Personalmente ho vissuto il post nell'unica maniera secondo me possibile: con ironia. Per quanto riguarda poi il rap posso solo dire di esserne culturalmente e linguisticamente tagliato fuori. Per l'hip-hop invece la mia avversione è fisica: non posso proprio considerarlo. Mi spiace per Robert Glasper.

 
Rispondi al commento:
Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 31/07/12 alle 23:53 via WEB
Ovviamente, il raffronto fra il duo Fresu-Einaudi e il rap non è proponibile. A me viene da dire, sorridendo, che l'accoppiata sa molto di musica per "visi pallidi". Non per polemizzare, ma che la "ricchezza" armonica di Einaudi (la cui musica è, francamente, piuttosto esile in termini armonici) non credo possa sovrastare chissà che. Mi pare che vi sia del rap un'idea riduttiva e, forse, generica. Premesso che il rap non è un linguaggio propriamente nuovo, come non lo è l'hip hop, non parlerei sempre di povertà ideativa: si tratta di linguaggi che, nelle loro migliori espressioni, vantano una complessità ritmica che non corrisponde a quella reductio ad absurdum di cui forse è un po' troppo facile (s)parlare e non è improprio, in taluni ambiti, il parallelo con certe linee boppistiche che ricordava Riccardo a proposito di taluni commenti di Max Roach. Nè parlerei di povertà verbale, se non in un senso da "Crusca": il riallaccio a un fenomeno storico quale le cosiddette "dirty dozen", vere e proprie battaglie verbali, riporta piuttosto a una varietà lessicale che agisce sicuramente all'interno di un contesto vernacolare (che, ovviamente, va conosciuto, prima di poter dare giudizi più o meno drastici). Temo che si corra, ancora una volta, il rischio di misurare la cultura africano-americana secondo parametri eurocentrici che, ça va sans dire, vengono ipso facto considerati superiori. E questo suona facile laddove il predominio non è armonico ma ritmico (e sotto questo profilo è pur vero che la cultura europea non è stata con le mani in mano, basti pensare a Bach e Beethoven, non dobbiamo dimenticare però che la tradizione africano-americana ha saputo operare una trama ritmica di grande complessità con mezzi irrisori, offrendo al contempo al corpo un linguaggio che la nostra tradizione ha più o meno vituperato sin dai tempi del Concilio di Trento). Ciò detto, a mio modesto parere, se vogliamo affrontare temi non trascurabili come la ricchezza armonica e la ricchezza ritmica, anche a detrimento della tradizione africano-americana e americana (per quanto avverta un'ostilità preconcetta e francamente poco realistica nei confronti delle culture americane), non lo possiamo certo fare partendo da Ludovico Einaudi, al cui confronto anche il più banale minimalista in ottavo rischia di apparire un diretto discendente di Conlon Nancarrow e di Stravinskij messi insieme... Fresu ha tutti i diritti di misurarsi anche con certi gingilli, con certi bibelot musicali, per carità, ma non facciamone un atto di eroismo creativo, rischieremmo solo il ridicolo.
 
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