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Mondo Jazz

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LA STORIA PERDUTA

Post n°2751 pubblicato il 20 Aprile 2013 da pierrde

La decima edizione della manifestazione “Piacenza Jazz Fest”, che si fregia del patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è organizzata dall’Associazione culturale “Piacenza Jazz Club”, con il sostegno determinante della Fondazione di Piacenza e Vigevano, con il supporto della Regione Emilia-Romagna, del Comune e della Provincia di Piacenza e con il contributo di alcune importanti realtà istituzionali e imprenditoriali del territorio, prosegue sabato 20 aprile 2013 con il primo dei tanti momenti di approfondimento in cartellone. Grazie alla lunga e proficua collaborazione del “Piacenza Jazz Club” con la massima istituzione musicale piacentina, il Conservatorio “G. Nicolini”, viene presentata la conferenza “La storia perduta del Jazz. Cinque secoli cancellati: 1400 - 1900” a cura del musicologo Marcello Piras, in programma alle ore 15.00 presso l’Aula 14 dello stesso Conservatorio (Via S. Franca 35), a frequenza libera e gratuita.

Il Jazz prese forma all’inizio del Novecento e si diffuse al tempo della Prima Guerra Mondiale. All’inizio sembrava un’invenzione bizzarra e selvaggia. Negli USA il razzismo regnava sovrano e i neri erano tenuti ai margini come appestati, così si immaginò la nascita del Jazz come un miracolo accaduto nei bassifondi, in mezzo ad analfabeti istintivi. Oggi il razzismo non regna più, ma la leggenda sì e c’è ancora bisogno di spazzarla via. Una volta fatto ciò, si disegna un panorama ben diverso: il Jazz è un ramo moderno di una genealogia lunga e antica, che le storie della musica tacciono. La tratta degli schiavi africani ha deviato il corso degli eventi, lasciando segni profondi nei documenti musicali scritti, non dal Novecento, ma dal Cinquecento; fra essi, anche molti capolavori. Conoscendo questa storia, si pone il Jazz in una corretta luce storica. Il seminario di Marcello Piras si propone di illustrarla in sintesi e di analizzare alcune pagine di particolare pregio, esemplificative di vari stili ed epoche.

Marcello Piras, classe 1957, è uno dei musicologi italiani fra i più apprezzati al mondo e si occupa di musica jazz da quando aveva sedici anni. Ha pubblicato decine e decine di saggi per le più prestigiose riviste musicologiche del mondo, ha insegnato per molti anni a “Siena Jazz” e nelle più qualificate università e ha dato vita alla “Sisma”, la Società di Studi Musicologici Afroamericani. Alla fine degli anni ’90, deluso dalla totale assenza di meritocrazia che ha sperimentato in Italia (lui stesso parla di “peggiocrazia italiana”), decide di trasferirsi negli Stati Uniti: l’amico Bill Russo lo invita a insegnare all’Università di Chicago, dove si ferma per diciotto mesi, quindi un altro amico, Gunter Schuller, lo invita a insegnare all’Università del Michigan. Il terrorismo e l’attacco alle Twin Towers del 2001 lo convincono a trasferirsi infine in Messico, dove attualmente vive, ma per tre mesi all’anno fa ancora ritorno in Italia per insegnare al Conservatorio dell’Aquila.

Piras è critico nei confronti dello stato attuale del Jazz, come dichiara in un’intervista rilasciata a Serafino Paternoster del sito “MisterJazz”: «La fase creativa del Jazz, quella che guardava al futuro, si è fermata nel 1979. L’ultima generazione di creativi è quella nata negli anni ’50, a partire da Butch Morris. Nessun altro ha saputo esplorare il suo strumento come Roscoe Mitchell. In Italia il linguaggio non si è evoluto e si assiste troppo frequentemente a modelli scolastici. E questo riguarda anche le superstar».

In base agli studi approfonditi di Piras, la musica jazz non nasce come musica improvvisata e non nasce nel secolo scorso. Secondo lui, infatti, se si assume come punto di vista quello spagnolo, i primi segnali di Jazz risalgono al 1500, mentre se si assume come punto di vista quello del continente americano, allora il Jazz nasce nel 1600. «Nel secolo scorso - dichiara - sono stati gli americani a vendere il Jazz come musica improvvisata. Hanno venduto la loro cultura insieme alle istruzioni per l’uso». Quella del Jazz sarebbe, dunque, una storia tutta da riscrivere.

Fonte: http://www.piacenza24.eu/Appuntamenti/49411-La+storia+perduta+del+Jazz.+Cinque+secoli+cancellati%3A+1400+-+1900.html

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Commenti al Post:
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negrodeath il 20/04/13 alle 16:23 via WEB
Inizia il revisionismo jazzistico? A leggere qui, si preannuncia una megasbroccata.
 
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negrodeath il 20/04/13 alle 16:27 via WEB
O forse lì si fa una riduzione... Ho letto altrove (http://www.misterjazz.it/?p=60) che vuol scrivere una storia della musica dal pdv afrocentrico, e qui è già un altro discorso.
 
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Sergio Pasquandrea il 20/04/13 alle 17:07 via WEB
Conosco le ricerche di Piras: non vuole affatto negare il contributo africano/afroamericano al jazz (che rimane centrale), ma solo dimostrare che esso si fuse con una complessa serie di fattori, che comprendono anche influenze insospettabili, provenienti dall'Europa e persino dall'Asia. Tanto per dire, ha ritrovato influssi africani in alcune forme di musica classica spagnola e ispanoamericana del Cinque e Seicento, oltre ad analizzare un autore importantissimo e semidimenticato come Ignacio Cervantes, uno dei primi a fondere elementi africani ed eurocolti. Esiste - ma è spesso dimenticata - tutta una storia della musica afroamericana scritta e composta, che spesso viene sacrificata a una visione eurocentrica del nero come "improvvisatore puro", "musicista spontanteo", ecc. Il problema di Piras è che, di tutto ciò, ha pubblicato poco o nulla. Quindi, o lo si va a sentire, o si aspetta questo libro che ci fa sospirare da almeno 10-15 anni...
 
 
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negrodeath il 20/04/13 alle 19:26 via WEB
Ah ok, messo così è molto più razionale e sensato. Tra l'altro parte di questo pensiero lo si trova pure nei libri di Stefano Zenni, che se non erro è stato allievo di Piras.
 
   
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sergio pasquandrea il 20/04/13 alle 19:46 via WEB
sì, in effetti credo che Zenni abbia preso molte di quelle idee da Piras (che purtroppo è una di quelle personalità geniali, spesso folgoranti, ma poco propense a esprimersi per iscritto)
 
     
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riccardo il 20/04/13 alle 21:31 via WEB
non sono gli unici musicologi in circolazione a far da riferimento e ad avere delle idee, anche molto diverse in materia.
 
     
pierrde
pierrde il 21/04/13 alle 01:42 via WEB
Grazie Sergio, hai fatto da perfetto padrone di casa mentre io ero a Como a vedere la Brass Bang. Avrei detto più o meno le stesse cose, riservando ogni giudizio all'uscita effettiva di questo materiale che Piras sta facendo aspettare da tempo.
 
 
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Gianni M. Gualberto il 21/04/13 alle 09:29 via WEB
Veramente, gran parte della musicologia barocca, soprattutto spagnola, portoghese e brasiliana ma non solo, ha da lungo tempo indicato certi "modelli di sviluppo", evidenziando componenti africano-americane in numerosi materiali spagnoli e portoghesi (e inglesi, olandesi) "rientrati" dalle colonie. E questo accadeva ben prima di Cervantes e, ovviamente, di Gottschalk, Lecuona, Roldàn o Caturla. Ho sempre pensato che, purtroppo, per quanto molto apprezzabile come teorico, Piras si concentrasse molto sugli elementi intrinsecamente musicali, slegati dal loro contesto. Se si conoscessero meglio i lineamenti storici e politici della cultura latinoamericana, compresa l'ascesa di un peculiare nazionalismo musicale afrocaraibico, certi dettagli stupirebbero molto di meno. Che poi la tradizione africano-americana emerga da un vasto e variegato crogiuolo che si stabilisce nel momento stesso in cui il primo schiavo nero pone il piede lontano dal continente africano, mi pare dato persino ovvio. Ed è da tempo che non vedo più descrivere i musicisti africano-americani come "improvvisatori puri" o "musicisti spontanei"... Apprezzo molto Piras, di cui conosco e stimo gli studi sin dai suoi anni a Roma, ma su molte delle sue conclusioni teoriche ho profondi dubbi. E' pur vero che in un campo in cui, soprattutto in Italia (ma non solo, anzi), la musicologia solida stenta a decollare, il suo operato è sempre stato molto utile.
 
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loopdimare il 20/04/13 alle 18:26 via WEB
la Spagna come terreno d'incontro culturale tra Africa mussulmana, cattolicesimo e cultura ebraica è certamente un dato inconfutabile da studiare. che poi tutto questo sia alle origini del jazz che conosciamo noi è tutto da vedere, nel senso che la Spagna ha ci ha offerto il flamenco e l'habanera (che esporatti in America hanno generato la musica cubana ed il tango). conosciamo tutti gli influssi creoli nella città di New Orleans, però il prodotto "jazz" sembra esserci generato da una "rottura" più che da una continuità, anche se il ragtime sta lì in mezzo come anello di congiunzione...
 
 
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sergio pasquandrea il 20/04/13 alle 19:51 via WEB
Sì, sono proprio le rotture e le congiunzioni l'aspetto più interessante. Ad esempio, New Orleans non era aperta solo agli influssi creoli, ma anche a quelli caraibici, essendo a tutti gli effetti la porta degli Stati Uniti verso quella zona. Tanto per fare un esempio, quello che Jelly Roll Morton chiamava "Spanish tinge", in realtà non era altro che un ritmo di habanera, danza derivata dalla fusione di influssi spagnoli e africani. Poi, è chiaro che il jazz si differenzia nettamente da altre musiche afro-americane, per via di differenze nel contesto storico, sociale ecc.
 
   
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Gianni M. Gualberto il 21/04/13 alle 09:51 via WEB
Sì e no. La contradanza habanera che, come si evince dal nome, è nata a Cuba, è in realtà il primo genere afro-cubano di estrazione europea. Giunto in Spagna, verrà ulteriormente rielaborato, e si ipotizza che abbia lasciato tracce profonde anche nel tango. Studi abbondanti su tali materiali risalgono già a oltre un quarantennio e forse, direi, anche di più, così come la nozione che New Orleans, uno fra i più importanti porti americani, rappresentasse l'accesso di una larga parte di culture afro-caraibiche. D'altronde, la teoria del cosiddetto Black Atlantic non è casuale e l'interscambio culturale non è esattamente una scoperta recente: nell'opera di Pixinguinha, ad esempio, l'influenza del ragtime, a partire dagli anni Venti, è evidente, così come nello choro, nel maxixe e nella stessa habanera si ritrovano tracce delle culture africane occidentale e, ulteriormente, delle culture haitiane. Anche la Carmen di Bizet è il prodotto di un'ibridazione che, per l'appunto, non viene certo scoperta oggi...
 
     
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Sergio Pasquandrea il 21/04/13 alle 22:38 via WEB
Il problema, Gianni, è che come dicevi tu stesso, in Italia queste nozioni, altrove ormai quasi scontate, faticano a passare, e ho l'impressione che la musicologia jazz (di cui io, umile giornalista e - si parva licet - critico musicale, ho una fruizione puramente ancillare) sia ancora ferma a modelli culturali piuttosto arretrati. A mia notizia, Zenni e Piras sono tra i pochi che cercano di importare contenuti di questo tipo. Poi, se sbaglio, correggimi pure.
 
     
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Gianni M. Gualberto il 21/04/13 alle 23:28 via WEB
senza dubbio, e vanno ringraziati non poco. rimane, però, il problema. che non è della musicologia jazz o, più estensivamente, della musicologia afroamericana in italia, ma della musicologia afroamericana tout court, o quasi. e non ha senso, comunque, far risalire il jazz a 500 anni fa, quella è una boutade un po' cheap... o no?
 
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LC il 22/04/13 alle 00:11 via WEB
Basta comunque leggere un qualunque testo di storia dei Caraibi per rendersi conto del crocevia di etnie che è stata Haiti dalla dominazione spagnola in poi, passando per quella francese, con la conseguente mescolanza tra i colonizzatori e gli originari abitanti del luogo, i Taino (che a loro volta avevano soppiantato un'altra etnia che era giunta dal delta dell'Orinoco). Poi è finita che, ai primi dell'Ottocento, dopo la rivoluzione, un gran numero di haitiani, ormai cosiddetti "creoles of color" è fuggito a Cuba, assieme ai discendenti dei colonizzatori francesi (ormai creolizzati) per passare direttamente a New Orleans. Si parla di circa 10mila persone, arrivate in una città che a sua volta contava circa 10mila abitanti. Curiosamente, a Haiti le truppe napoleoniche avevano spedito addirittura circa 5mila legionari polacchi, molti dei quali furono uccisi durante le battaglie per l'indipendenza dell'isola ma non pochi rimasero per poi migrare a loro volta a New Orleans. Ho giocoforza semplificato, ma è stato lo stesso un gran casino.
 
 
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Gianni M. Gualberto il 22/04/13 alle 08:28 via WEB
Infatti, nulla di nuovo sotto il sole. E' evidente che l'arrivo di schiavi africani (con il loro carico culturale, legato in parte anche al mondo arabo) nelle Americhe non poteva non lasciare segni, dal mondo ispanico fino a quello anglosassone. E le testimonianze risalenti a quel periodo vengono studiate da tempo, per quanto non in ambito "jazzistico". Che da quel crogiuolo nasca anche il jazz,sicuramente. Ma anche, se vogliamo, Ernesto Nazareth, Pixinguinha e molto, molto altro ancora, parte del tango incluso. A proposito di Haiti, erano interessanti le incisioni "haitiane" di Bechet, in cui pare che lo stesso Bechet richiamasse la lezione di clarinettisti caraibici come Alexandre Stellio e Sylvian Siobud in una serie di rhumba, biguine e meringue (non merengue).
 
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