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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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Post n°528 pubblicato il 15 Dicembre 2011 da LaDonnaCamel
 
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Oggi ho letto un bel racconto di Valeria Parrella, uno di quelli che davano un po' di tempo fa con il Corriere della Sera per un euro, credo. Io il giornale di carta non lo compro mai, Corriere o Repubblica o altro, soprattutto perché poi non so dove metterlo, ma anche perché è fin troppo impegnativo e ora che ho il tempo o la voglia di leggerlo è già diventato vecchio. Io leggo a spizzichi e bocconi sul web, mi guardo le prime pagine su il post e mi sembra di avere una visuale complessiva, che tenga conto di tutto. Poi approfondisco poco, è vero, leggo uno o due articoli o qualche opinione ma ho l'impressione che le versioni sul web siano abbreviate, semplificate.
Dicevo del racconto della Parrella che mi sono fatta prestare. Mi è piaciuto molto e ne vorrei copiare qui un pezzolone, quello che mi ha colpita di più, che mi ha fatto pensare. Così quando avrò restituito il libriccino lo potrò rileggere quando mi va. Leggilo anche tu se te l'eri perso, è un pezzo che basta a se stesso - anche se è importante nella trama del racconto.

"Di fronte, lungo il muro, ci sono i tavolini quadrati piccoli, per le coppie, che qua dentro sono solo vecchi, alcuni li conosco, molti no. La città poi è grande e si invecchia senza conoscersi. Altri ancora li conosco solo se li vedo seduti lì: se li vedo seduti lì la vecchia può anche cambiare bavero al cappotto o tinta ai capelli e il vecchio avere i baffi o essersi rasato, ma insomma lì dentro li riconosco. Fuori no. Come bevono le vecchie!, ma reggono, cazzo. Le coppie qua si siedono di lungo, a fianco lungo il muro, non di angolo come i giovani. Così non si devono parlare per forza. Che è la cosa più bella del mondo, la più bella in assoluto, quella che mi manca di più nella mia vita: quando esci con la tua donna, o stai in casa con la tua donna, e non ci devi parlare per forza. Quando io e Jude prendevamo anche tre pinte seduti a fianco: a guardare le gente che cambiava davanti al bancone, e il barista al lavoro, la cassiera che dava il resto, un televisore lontano acceso sullo sport, ma senza audio. Le decorazioni del Natale precedente che avrebbero attraversato la primavera e di nuovo l'autunno per essere già al loro posto il Natale seguente. La licenza per vendere gli alcolici e l'orologio rotto che girava comunque, ma dava i secondi due alla volta, e poi niente per un po'.
"Quando cambia le pile a quell'orologio, secondo te Jude?"
"Secondo me mai: lui lo tiene di spalle, che se ne fa di un orologio di spalle? Manco lo vede là con tutte quelle bottiglie rovesciate per mezzo."
Questo ci dicevamo io e Jude, magari per tutto un pomeriggio solo questo. E poi:
"Andiamo?"
"Andiamo."
Oppure andavamo a passeggiare ai magazzini per vedere il mare. La tenevo sotto braccio o lei stava qualche passo avanti, perché le dava fastidio che qualcuno, io in particolare, invadesse l'orizzonte. Però da sola non ci veniva mai, non ci sarebbe mai venuta. O forse voleva solo essere guardata contro il mare, con il controluce di quel cielo pesante e luminoso come il piombo quando lo lucidi bene. Perché era una bella donna. Ma comunque stavamo così per ore senza parlarci, in perfetto silenzio finché uno dei due diceva: "Andiamo?"
"Andiamo."
Questa cosa nella vita non la puoi fare con nessuno se non ti fidi al mille per mille. Io non la faccio con nessuno, pure con Bill qualche cazzata sulla squadra ce la diciamo, e con Brandon anche. Anzi con Brandon parlo continuamente perché ho paura che nel silenzio arriva qualcosa - di detto o di non detto - su cui io poi non so cosa pensare. E poi Jude mi ha insegnato così fin da quando lui era piccolo: che gli dovevamo riempire la testa del mondo che c'era attorno.
Solo con Jude io mi son potuto permettere la ricchezza del silenzio perfetto: perché sapevo che non stavamo perdendo nulla. E questa cosa qui se non l'hai mai sentita, non la puoi capire. "

Behave, Valeria Parrella. (I refusi sono miei)

 
 
 
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