Creato da eric.trigance il 02/05/2008

L'urlo della civetta

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Emma Cline, piccole donne...

Post n°2589 pubblicato il 27 Settembre 2016 da eric.trigance
 

Succede da mesi che, prima ancora dell’uscita in libreria, tutti parlino di Le ragazze di Emma Cline (Einaudi Stile Libero) come dell’esordio dell’anno. Mi piacerebbe dire che è una bufala, una grancassa mediatica, un bluff editoriale con intorno molto rumore e nulla a giustificarlo, ma non posso: mi è bastato leggerne poche righe per capire che gli entusiasmi sono giustificati.

«A quell’età ero, prima e più di tutto, una cosa da giudicare, il che in ogni rapporto alterava le dinamiche di potere a favore dell’altra persona». Quando la protagonista Evie Boyd pensa questa frase, l’età a cui si riferisce sono i suoi quindici anni e se anche nel romanzo non ci fosse scritto nient’altro, sarebbe già evidente la sbalorditiva capacità di Cline nel mettere a fuoco la peggiore tra le fragilità dell’adolescenza: il senso di inadeguatezza che davanti al mondo ci ha costrette tutte e tutti a pensare almeno una volta: dimmi che mi vedi, che vedi proprio me, e che quello che sono per te è amabile. 

 Purtroppo la ragazzina Evie non ha nessuno che le risponda sì in modo convincente: il padre se n’è andato con una donna più giovane e la madre, nevrotica e insicura ricca signora new age, è troppo presa a non lasciarsi sfuggire la possibilità di attirare ancora un amore per rendersi conto che la figlia cammina sull’orlo di un precipizio. La quindicenne Evie, nel cui sguardo si mischiano innocenza e cinismo, crederà di trovare qualcuno che la ami in una compagnia di ragazze più grandi e strane, in apparenza libere, che vivono in una piccola comunità stretta intorno alla figura di Russel, musicista carismatico e inquietante che governa la setta con poco cibo, molta droga e l’illusione di una svolta che non arriverà mai. Ad arrivare saranno invece fiumi di sangue e una strage degli innocenti compiuta con efferatezza tale da sembrare iperbolica, se non ricalcasse la vicenda della setta Manson in casa Polanski, dove nel 1969 furono trucidate cinque persone, tra cui Sharon Tate, la moglie del regista, incinta di otto mesi. 

 Non ha importanza che si conosca o meno la cronaca, perché il romanzo di Cline non ne ha bisogno. Fa benissimo quello che la letteratura deve fare verso la realtà: la supera, mettendola in scena con una chiave di lettura semplice quanto spietata; chiunque di noi può agire mostruosamente se mostruosa è la sua solitudine. Evie crede che il nome di quella solitudine sia adolescenza, ma nel dipanarsi della vicenda apparirà sempre più chiaro che per una donna lo status di creatura giudicata è destinato a non trascorrere mai.  

 Nel leggere si pensa più volte che se la ragazzina fosse stata in grado di rendersene conto, gli occhi con cui ha visto le debolezze puerili di sua madre forse non sarebbero stati così feroci. Se fosse stata capace di vedere il senso di inadeguatezza nella ricerca ossessiva di magrezza e nella materna dipendenza dagli uomini avesse riconosciuto la propria stessa paura di non essere amata, forse avrebbe compreso che i quindici anni per molti versi non finiscono mai. Ma se tutto questo Evie non lo ha visto è perché non spetta ai figli vederlo. Le ragazze è anche la storia di due cecità che si vivono accanto senza riconoscersi, con un’estraneità comune anche nelle famiglie dove non si arriva alle medesime estreme conseguenze; è per questo che mentre lo leggevo ho pensato più volte che, al di là dell’elevato registro letterario e dell’impressionante capacità narrativa di Cline, io in quel posto c’ero già stata.  

 Mi era familiare il tentativo tutto femminile di fare famiglia attorno a presenze maschili che si pesano in assenze, e d’improvviso è arrivata la memoria del classico adolescenziale Piccole donne, insieme al sospetto che le ragazze di Cline siano apparentate contro ogni logica proprio con le quattro sorelle March. C’è un’onda lunga che arriva fino a questo libro e che parte dalle ragazze di Alcott. La Meg risolta e già rivolta alla maternità sponsale, la Beth pura e sacrificale, tutta cagionevolezza e sensibilità artistica, la Amy superficiale e vanitosa e soprattutto Jo, il più grande inganno letterario femminile di sempre, la ribelle intellettuale che sogna la libertà dagli schemi sociali e poi ci finisce dentro con tutti e due i piedi: insieme sono il dagherrotipo da cui Cline, consapevolmente o meno, ha realizzato la sua polaroid. Obbediscono al medesimo bisogno di raccontare un tempo fragile della vita in cui nessuna è come o dove vorrebbe essere; quel momento è un abisso da qualunque parte lo si guardi.  

 Nel suo fondo le nostro paure hanno voci terribili e lungo il suo bordo ci abbiamo camminato tutte. Il fatto che solo alcune ci siano rimaste dentro non significa che le altre ne siano uscite del tutto indenni.  

Le ragazze March tremano, ma non cadono neppure quando muoiono: sono rappresentate in un mondo dove le convenzioni e le funzioni sono più forti di ogni loro solitudine e i ruoli vincono sulle fragilità e sui desideri personali. Il mondo di Evie invece, che è il nostro, è un tempo senza certezze dove nessuna funzione basta più a prendere il posto dell’inadeguatezza e del disorientamento che camminano accanto a qualunque crescita. Nel romanzo di Cline non ci sono più piccole donne che cresceranno; solo donne piccole e uomini più piccoli ancora che non cresceranno mai, tutti inchiodati al terrore che l’amore che bramiamo sia così feroce che per farlo restare bisogni dargli in cambio tutto il resto, pregando che basti. 

MICHELA MURGIA

 
 
 
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