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Il fotografo di Auschwitz

Post n°2313 pubblicato il 30 Ottobre 2015 da eric.trigance
 
Tag: Storia

Per ricordare Wilhelm Brasse, il fotografo di Auschwitz.
Nacque il 3 dicembre 1917 a Żywiec da madre polacca e padre austriaco. Da ragazzo lavorava in un negozio di fotografia di proprietà di una zia a Katowice. Quando i nazisti invasero la Polonia, lui si rifiutò di giurare fedeltà a Hitler cercando di scappare all'estero, e fu deportato ad Auschwitz. Qui ebbe un trattamento di favore rispetto agli altri prigionieri perché le SS lo avevano assegnato a fare le foto segnaletiche agli internati e forse perché era "ariano". Chi visita oggi il museo del lager vede le sue foto appese alle pareti. Sono foto che colpiscono perché a volte ritraggono diversi membri di una stessa famiglia, a volte mostrano soggetti terrorizzati o emaciati, altre volte ancora mostrano bambini e bambine. All'ingresso del campo venivano fotografate le persone che sarebbero state adibite al lavoro forzato, non quelle che andavano subito a morire. Brasse dovette fotografare anche i minorenni, compresi quelli sottoposti agli esperimenti "scientifici" di Mengele. Era un ottimo ritrattista, come dimostra anche il film testimonianza uscito dopo la sua morte, The Portraitist. Brasse cercò sempre di offrire un tozzo di pane della sua razione alle persone che doveva fotografare, spesso prima che fossero inviate nelle camere a gas. Se un internato gli chiedeva di rifare la foto, magari per tentare di sfuggire alla selezione, non esitava a escogitare uno stratagemma, ad esempio fingere che qualche immagine fosse venuta male e rifarla. Una volta lo venne a trovare una donna delle SS, che prima si fece commissionare un servizio a seno nudo e poco dopo si tolse la vita per essersi invischiata nel piano genocida di Hitler. Quando doveva fotografare i minori, cercava di farlo con delicatezza, senza toccarli o metterli in imbarazzo, nonostante i nazisti pretendessero foto in pose oscene e degradanti. Nel documentario del 2005 diretto da Irek Dobrowolski, Brasse racconta la sua attività di fotografo ad Auschwitz con lucidità, a volte commuovendosi, sempre con un eloquio preciso e una mente rimasta integra nonostante l'esperienza dell'indicibile. Forse perché la fotografia è terapeutica, forse perché era lui una persona forte, capace di gesti generosi e di compassione, gli era rimasta la capacità di denunciare il male lasciando sempre un filo di speranza. Brasse è morto a 94 anni. Dopo la guerra ha tentato di tornare alla fotografia, ma non è più riuscito, perché gli tornavano alla mente le immagini degli uomini e soprattutto delle donne che è stato costretto a fotografare. Al termine del conflitto, con i nazisti in fuga, rischiò la vita per mettere in salvo oltre 40.000 immagini scattate, in modo tale che servissero da prova contro i criminali autori della Shoah. E' vissuto facendo il salumiere, stando accanto alla famiglia che gli ha dato due figli e cinque nipoti e accettando di testimoniare l'orrore di cui era stato testimone nel corso di interviste, portando gli studenti a visitare il lager e parlando nelle scuole.

 
 
 
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