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Joyce Hyser e l'enigma dell'eterno androgino preraffaellita

Post n°10 pubblicato il 01 Gennaio 2007 da afantini
 
Foto di afantini

Ad ogni artista è dato di raggiungere almeno una volta nella vita il “climax” di quella persistente ed inesplicabile percezione dell’essenziale ambiguità che sorregge la magmatica architettura del reale. Quando nel 1858 Wallis dipingeva il suo capolavoro “La Morte di Chesterton”, egli non faceva altro che tentare di rendere giustizia ad una di queste epifanie dello spirito estetico che, come una linfa afrodisiaca, scorre dietro il mutevole spettro dei sensi. Come quella di altri sommi preraffaelliti quali Burne-Jones, Millais e Rossetti, la visione di Wallis preconizzava in pieno il motivo dell’androgino botticelliano espresso dal pensiero dei grandi Pater e Swinburne, vessilliferi di quel “Movimento Estetico” che riconosceva nel sorriso ermafrodito della Gioconda e nella “femme fatale” di Coleridge le sue più appariscenti ipostasi artistiche. Gravido di un’altrettanta sublime quanto involontaria forza di verità panica, il film americano “Just one of the guys” (nella versione italiana “Un ragazzo come gli altri”) girato durante il rigurgito esofageo degli anni reaganiani, ancora oggi non cessa di esercitare la sua malia subliminale sulla mia sensibilità simil-preraffaellita. Di certo non per merito della squallida e desolanteimmagine imperizia registica e di una sceneggiatura traballante, costellata qui e là da massime di bieca virilità americanoide, quanto grazie alla formidabile perfomance dell’attrice protagonista, al secolo Joyce Hyser. Nessun altro, prima e dopo questa misconosciuta pellicola ad uso e consumo dei palati adolescenziali, è stato in grado di eguagliare la memorabile interpretazione del perfetto androgino di platonica memoria che la giovane Hyser vi offrì nel ruolo dell’aspirante giornalista Terry Griffith, disposta a travestirsi da uomo per dimostrare come le donne attraenti vengano sempre discriminate a prescindere dal proprio talento. Va da sé che a giustificare perlomeno una seconda visione di tanto reciticcio visivo (standardizzato secondo preconcetti sessuali ancor oggi radicati nella società statunitense), meno supina alla bidimensionalità del “plot” e dei “personaggi” di contorno, rimane solo e soltanto l’innata destrezza con la quale la Hyser per tutta la durata del film oscilla freneticamente tra la sua identità maschile e quella femminile, conservando intatta e anzi esaltando la sua profonda e complessa aura seduttiva anche nelle scene più inclini al facile “clichè” degli equivoci da teatro plautino (come quella in cui, ormai pronta per uscire con il fidanzato, è invece costretta a correre ai ripari recitando il ruolo del maschio di fronte ad una inaspettata spasimante mentre sul suo corpo sono ancora evidenti i segni del trucco femminile). Così naturale e persuasiva ci appare nel suo vestire e svestire repentinamente i panni ora di Terry ora del suo alter-ego maschile, al punto da rimuovere del tutto dalla nostra dicotomica e riduttiva visione della sessualità umana la demarcazione tra femminino e mascolino, scrostando al contempo dalla nostra sfera morale tutti i giudizi di valore ad essa connaturati. Perché solo agli occhi di chi abbia consapevolmente realizzato il compiersi di questo drenaggio della propria coscienza "sociale" e abbia attinto alla sorgente della verità eternamente metamorfica dell’essere, il prodigio dell’eterno androgino preraffalllita troverà una sua limpida e insospettata incarnazione nell’immagine di questa ragazza che, in una delle ultime scene, sfodera orgogliosamente i seni covati sotto i vestiti della sua imprescindibile natura maschile. Con la stessa innegabile potenza pittorica con la quale il cadavere di Chesterton racchiudeva in sé l’esangue bellezza di quello della vergine dipinto da Caravaggio e schiudeva la soglia alla comprensione dell’unità dello spirito.

 
 
 
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