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« Dopo il Vajazzling arriv... | Iran, madre perdona assa... » |
Rosa Sgargia, nel reparto di pronto soccorso psichiatrico del San Giovanni Bosco dove resta dal primo marzo, quando gli agenti della squadra investigativa del commissariato Arenella la liberano e la portarono in ospedale. Un incontro breve, il segno di una riconciliazione possibile, ma incompiuta. Chiara si è lasciata abbracciare, non ha risposto con entusiasmo, ma non si è nemmeno sottratta. La madre ha accettato le indicazioni dei medici: probabilmente ha capito di aver bisogno di aiuto anche lei. E così per qualche minuto madre e figlia hanno parlato di cose semplici, normali.
E già questo è un miracolo: la normalità era rimasta a lungo lontana dalla loro vita. Quando il 28 febbraio, dopo una segnalazione, i poliziotti dell’Arenella entrarono nella casa di via Caldieri dove la ragazza era rimasta rinserrata per otto anni, la trovarono nascosta dietro un divano, raggomitolata su se stessa, con i pochi capelli che le rimanevano unti e sporchi, coperta solo da una maglietta. Chiara era circondata da sacchetti e sacchetti di rifiuti, l’aria era irrespirabile, la puzza consigliava l’uso della mascherina. Era impaurita, ammutolita, biascicava a stento qualche parola. «Scusate», riuscì a mormorare prima di tornare al silenzio. Per una settimana era rimasta totalmente abbandonata. La madre, che fino a quel momento era andata ogni tre o quattro giorni a portarle qualcosa da bere e da mangiare, non si era fatta vedere: «Mi sono ammalata», si era poi scusata la donna con i poliziotti che avevano bussato alla porta dell’appartamento di via Omodeo dove era andata a vivere con la sorella. E quindi, imperturbabile, aveva spiegato: «Chiara è chiusa in casa perché non sta bene, è lei che non vuole nessuno». I testimoni avevano raccontato che tra le due i rapporti non erano mai stati facili. «Mia sorella ha sempre preferito il figlio maschio», raccontò la zia di Chiara. E il portiere ancora ricordava le urla che avevano spaventato i vicini quando ancora madre e figlia vivevano insieme. Poi la morte del padre della ragazza aveva fatto precipitare la situazione, dopo un violento litigio Rosa era andata via e si era trasferita dalla sorella. Da allora tornava dalla figlia solo per portare da mangiare. In casa da anni non c’era più nemmeno l’acqua corrente e la ragazza sopravviveva grazie alle provviste di minerale che le portava la mamma. Tra i vicini tutti sapevano che in quella casa c’era una donna abbandonata. Dopo, quando di Chiara si sono occupati poliziotti, magistrati e i media di mezz’Italia, tutti, inquilini, amici e parenti avevano concordato: «Non potevamo immaginare in che condizioni fosse ridotta». Ma che qualcosa in quella famiglia non andava avrebbero potuto capirlo tutti. E invece: silenzio. Un silenzio sordo, capace di far rimpiangere le urla che avevano disegnato il rapporto tra le due donne fino a qualche anno prima. Silenzio e freddo. I segni del male. Il silenzio della madre che evitava la figlia e si limitava a portarle qualcosa da mangiare «niente di cucinato, però», come aveva detto ai poliziotti. Il silenzio di Chiara che sempre più si era ritirata in una terra deserta e sconosciuta. Lei, che era stata una studentessa allegra e brillante, aveva perso le parole. O, forse, le aveva solo dimenticate. E freddo. Tanto freddo. Gelido il corpo di Chiara ricoperto solo da una t-shirt quando l’avevano ritrovata. Gelide le parole della madre che con i poliziotti si era limitata a sottolineare: «Mi costa tanto fare la spesa». Il ghiaccio che circondava madre e figlia a rischiato di ucciderle. Ora i medici, giorno dopo giorno, stanno tentando di far emergere la ragazza dal pianeta desolato dove si era ritirata. E lei, a piccoli passi ha imboccato la strada del ritorno. Dopo anni ha smesso di cibarsi con affettati e succhi di frutta consumati restando raggomitolata per terra ed è tornata a mangiare normalmente. Si siede a tavola con gli altri degenti, usa le posate. Si muove liberamente per il reparto ospedaliero dove è stata ricoverata. Scambia poche parole con i medici e con gli altri pazienti. Ha incontrato la zia e il fratello che per anni era rimasto lontano, a Massa Carrara. È un po’ ingrassata e le stanno ricrescendo i capelli che aveva perso in molte zone della testa. Non si rifiuta, non si sottrae. Accetta di vivere. E anche la madre, dopo il trauma dell’arresto, dopo l’assedio dei media, potrebbe uscire dal tunnel. Accusata di aver ridotto la figlia in uno stato pietoso, non è più agli arresti domiciliari e, assistita dal suo legale, l’avvocato Riccardo Polidoro, aspetterà a piede libero il processo. Pochi giorni fa è stata autorizzata dal magistrato che segue le indagini, Mario Canale, a incontrare la figlia. In ospedale è arrivata con la sorella. Ha parlato con il primario, Massimo Parlato, che ha poi assistito all’incontro tra madre e figlia. Anche lei, dopo tanto, troppo tempo ha ritrovato le parole. Le uniche necessarie: «Chiara, ti voglio bene». Poi il medico, la madre e la figlia, sotto braccio si sono avviati al bar dell’ospedale. Un caffè, un cappuccino, una brioche. E questa, finalmente, è la vita.
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