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« L'ultimo proclama (1860)I DELUSI DELL'UNITA' »

Re "Franceschiello" ed il suo esercito: una storia di calunnie!

Post n°2347 pubblicato il 01 Aprile 2015 da luger2
 

«Hai fatt’ à fine è ll'esercito è Franceschiello»: modo di dire napoletano per indicare un completo insuccesso. Ma nel verticale crollo borbonico del 1860 fu, al contrario, proprio l'esercito l'unico elemento del regime allora caduto a salvare l'onore della dinastia e del Paese, con un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica. Ingiusto, dunque quel modo di dire. L' esercito di Franceschiello, ossia di Francesco II di Borbone, ultimo sovrano del Mezzogiorno, meritava e merita rispetto. Era stato sì mal comandato in Sicilia, ma si era battuto bene, mantenendo anche inespugnata la cittadella di Messina. Garibaldi giunse poi a Napoli senza colpo ferire, mentre l'intero personale borbonico, politico e amministrativo, «si squagliava». Nello scontro decisivo che Francesco II decise di affrontare sul Volturno, l'esercito combatté con grande impegno, anche se, pur superiore di numero, non riuscì a prevalere sui 20.000 uomini di Garibaldi. Coi suoi fedeli Francesco II si chiuse nella fortezza di Gaeta, dove il sopraggiunto esercito inviato da Cavour, al comando del generale Cialdini, lo assediò. Cavour diede il colpo di grazia all'ultima resistenza borbonica allargando i confini piemontesi e prendendo in mano la situazione, temendo eventuali colpi di testa di Garibaldi (un attacco a Roma con conseguente intervento francese e ritorno in forze dell' Austria nella penisola, o un'azione conforme alle sue note idee repubblicane, minacciose per l'unità sotto i Savoia). Ma Garibaldi poi nei fatti non ebbe simili intenzioni. Con l'arrivo di Cialdini la partita era chiusa. La resistenza di Gaeta, mirava a suscitare una reazione europea all'espansione dei Savoia, reazione che non vi fu ed anche la possibilità che si potesse ripetere il miracolo del 1799, quando l'appoggio popolare consentì in pochi mesi a Ferdinando IV, bisnonno di Francesco II, di recuperrare il Regno. La resistenza di Gaeta fu accanita, animata anche dalla bella e balda regina Maria Sofia di Baviera, e durò per un bel pò, ma a metà febbraio si dovette capitolare. Il Re e la Regina si rifugiarono a Roma. La cittadella di Messina si arrese il 12 marzo. A resistere rimase solo Civitella. Non vi era un grosso contingente. Il comandante, il maggiore Luigi Ascione, aveva ai suoi ordini all'incirca 500 uomini di varie armi e corpi, con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e una colubrina in bronzo. Le forze degli assedianti, al comando del generale Ferdinando Pinelli, erano superiori e con armi migliori, fra cui cannoni rigati, di vario calibro, e 2 obici da montagna. La resistenza di Civitella assunse rilievo, specie dopo la caduta di Gaeta, ancor più di quella di Messina, anche per i suoi echi internazionali, che però non furono, altro che di simpatia. Pinelli adottò misure durissime anche contro la popolazione civile, per cui nel gennaio 1861 venne sostituito con il generale Luigi Mezzacapo, un ex ufficiale borbonico, passato a quello sabaudo quando Ferdinando II di Borbone si era ritirato dalla coalizione antiaustriaca degli Stati italiani nel 1848. Con lui l' assedio si fece più energico, sostenuto dal fuoco dei nuovi potenti cannoni a tiro rapido, e da forze armate crescenti, che giunsero a oltre 3.500 uomini. Si fece un continuo bombardamento più che un'azione di assedio manovrata: alla fine, furono 7.800 i proiettili caduti sulla fortezza per circa 6.500 chilogrammi di esplosivo. Anzi, furono invece gli assediati a condurre un' azione militare di qualche rilievo, fomentando atti di guerriglia nei paesi vicini e cercando di opporsi, dove si poteva, al plebiscito per l'unità italiana il 21 febbraio. Si riuscì pure a tenere qualche rapporto con Gaeta, d'onde giunsero lodi e incoraggiamenti, mentre il capitano Giuseppe Giovine, già capo della gendarmeria, fu promosso colonnello e sopravanzò l' Ascione, promosso solo a tenente colonnello. Intanto, la caduta di Gaeta e, il 13 marzo, quella della cittadella di Messina toglievano sempre più ragione a quella resistenza. Anche da parte del decaduto Francesco II giunse, tramite il generale Giovan Battista Della Rocca, l'invito agli assediati a deporre le armi, ma nella fortezza non tutti lo accolsero, sicché il campo dei difensori si rivelò meno compatto di come parrebbe. Lo stesso Giovine propendeva per la resa. In effetti, la difesa di Gaeta e di Messina erano state opera di forze armate regolari ed erano state tenute sul piano strettamente militare. A Civitella la guarnigione operò insieme a molti civili e in rapporto con bande e legittimisti delle zone contigue. La guarnigione di Civitella operò in collegamento con bande e legittimisti: preludio al brigantaggio. In questo senso la resistenza di Civitella è più importante, in quanto preluse a ciò che nel Mezzogiorno accadde nei seguenti dieci anni di guerra contro il brigantaggio e il borbonismo superstite, in un connubio non sempre chiaro, ma indubbio, fra loro. Finalmente, l' Ascione poté, però, stipulare la resa e il 20 marzo i bersaglieri entrarono in Civitella. Quel che seguì non fu un modello di comportamento liberale. Alcuni dei resistenti furono giustiziati, altri furono incarcerati ed ebbero varie sorti. La storica fortezza di Civitella, che risaliva al 1574, fu minata e fatta in gran parte crollare, danneggiando anche le mura angioine della città. Intanto, il Regno d' Italia, proclamato tre giorni prima della resa di Civitella, muoveva i suoi primi difficilissimi passi. Nel 1866 vi fu la sua prima prova bellica, in alleanza con la Prussia, con la sfortunata guerra contro l' Austria. Se il legittimismo borbonico avesse avuto consistenza e vigore, questo sarebbe stato il momento della verità. In quei frangenti la nuova Italia molto difficilmente avrebbe potuto resistere a una grande insurrezione o a una guerra civile in atto all'interno. Non accadde nulla di simile. Il miracolo del 1799 non si ripeté.
Ma su Francesco II di Borbone si sono dette molte falsità a causa della cancellazione della memoria e della demonizzazione del passato applicate scientificamente dopo l’unificazione d’Italia. Le informazioni sono scarse e di solito denigratorie: era giovane; incapace; probabilmente succube di un padre, Ferdinando II, dalla personalità ingombrante; impreparato al comando; indeciso; imbelle. Persino sul piano personale, la propaganda ha infierito, accusandolo di non essere all’altezza anche nei rapporti più intimi con la moglie, essendo cattolico e di delicata spiritualità e, dunque, certamente un credulone superstizioso. Ma la realtà fu ben diversa, e per giungere a questa conclusione basta pensare alla vita di Francesco II dopo la fine del Regno delle Due Sicilie. Ridotto in povertà, avendo lasciato il Regno senza portare con sé neppure il patrimonio di famiglia; dignitoso ed umile sempre; consapevole del senso della storia e del ruolo svolto come Re e come uomo, di fronte alla Provvidenza. Francesco II è il riferimento per chi voglia ritrovare le tracce di un’identità culturale sepolta sotto più di 154 anni di menzogne e ideologie, ma ancora viva e in attesa di essere portata alla luce. La storia italiana ci ha abituati i a conoscerlo come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato: l’ultimo Re delle Due Sicilie era stato capace, in meno di un anno, di perdere regno e ricchezze, combattendo dalla parte sbagliata. Perché è sempre sbagliato stare dalla parte di chi perde, quando la storia la scrivono i vincitori. E Francesco, pur consapevole della fine imminente, non si era voluto piegare a nessun compromesso. Perciò aveva perso. Non aveva cercato facili alleanze: avrebbe potuto salvare almeno se stesso, conservare le fortune personali, ereditate dagli avi o, persino, usare quelle ricchezze (che nessun altro Stato italiano poteva vantare di possedere in tale quantità) per corrompere quanti, nell’ora più difficile del Regno, preferirono abdicare alla propria dignità, barattando la patria napoletana con l’oro piemontese e massonico. Fu un sovrano che amò sinceramente il suo popolo, nacque a Napoli, 16 gennaio 1836 e in esilio il 27 dicembre 1894 (a soli 58 anni) l’ultimo sovrano delle Due Sicilie si congedò dalla scena del mondo in punta di piedi, con lo stesso stile sobrio e dignitoso con cui aveva vissuto. Nel suo testamento scrisse: “Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”. La Discussione di Napoli, nel riportarne la notizia, commentava: “Con l’anima serena dell’uomo giusto, con gli occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide nascere, è morto il Re adorato, alle porte dell’Italia, in un modesto albergo, situato in una regione non sua...”. Matilde Serao, in un articolo apparso su Il Mattino del 29 dicembre, scrisse: “Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone”. Ad Arco di Trento, l’ultimo discendente di una delle monarchie più potenti d’Europa aveva vissuto gli ultimi anni della sua breve vita, in perfetta umiltà e dignitoso anonimato. Fu l’ultimo Re, disse l’Italia intera; ed il cordoglio per la morte prematura di un sovrano tanto nobile, leale e generoso, fu sincero, quanto tardivo fù il riconoscimento del suo alto profilo morale. Francesco II non abdicò mai al ruolo che la Provvidenza gli aveva assegnato: morì da Re, assolvendo fino alla fine il suo compito, con coraggio e dignità. 
E’ stato un sovrano che ha anteposto ai suoi interessi personali l’amore per il suo popolo.
La sua breve ma intensa vita di soldato e di re, appare un continuo e cosciente conformarsi all’unico modello di regalità che la sua profonda religiosità cristiana poteva proporgli di imitare. Il Re Francesco II si sentiva, ed era, parte del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita, ben oltre la perdita del trono e la fine del Regno. È lecito dubitare dell’amore dei sovrani per i loro popoli quando vi siano interessi materiali da salvaguardare, quando c’è ancora la speranza di recuperare un trono perduto; ma Francesco già da tempo non nutriva più di queste speranze e, specialmente dopo la definitiva partenza da Roma, aveva pure rinunciato a vedersi restituiti i suoi beni. Eppure, non aveva mai cessato di amare i napoletani. E i napoletani non cessarono mai di amarlo. Non, certamente, i generali che lo avevano tradito; non quegli aristocratici la cui bramosia di ricchezze e di potere si era lasciata stuzzicare dalle astute lusinghe degli avversari (eppure, anche a costoro seppe perdonare); ma il popolo, il suo popolo, lo amava davvero perché si sentiva profondamente amato da lui: “sposato”, abbracciato. Suo padre, Ferdinando II, aveva regnato per oltre trent’anni, trasformando il Regno delle Due Sicilie in uno degli Stati più ricchi e potenti d’Europa. Era un’eredità pesante, che Francesco dovette assumersi inaspettatamente e che si trovò a gestire da solo, quando stava per avere inizio la fase più difficile della storia del Sud. Gli avvenimenti, che si susseguirono in maniera travolgente, precipitarono la dinastia e mutarono la storia del popolo. La storiografia ufficiale, quando si è occupata della sua figura, lo ha fatto descrivendolo come un uomo scialbo, impacciato, dalle spalle strette e gli occhi tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’antieroe. 
Ed anche nella storiografia più recente, il re soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, appare quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e, talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di Gaeta”. Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo identifica, “Franceschiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del perdente, del non Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la competizione richiesta dai modelli considerati vincenti.
Troppo spesso la storia esalta come eroi personaggi mediocri, il cui merito è quello di essere saliti in tempo sul carro del vincitore o di avere agito con cinico egoismo e per puro calcolo materiale o rinnegando valori morali e princìpi religiosi in nome di presunti ideali. La vicenda garibaldina e l’intera operazione con la quale fu realizzata l’unificazione italiana necessitano a tutt’ oggi di una rilettura che ne chiarisca, una volta per tutte, natura e contenuti. Non è più possibile, di fronte all’evidenza documentale, continuare ad accettare la vulgata ufficialmente imposta nei manuali scolastici, attraverso i quali si dovevano “fare gli Italiani”. Troppe contraddizioni balzano in evidenza, troppe smentite dei fatti così come ci sono stati raccontati, troppi elementi di un’altra storia ci rivelano una verità diversa da quella conosciuta finora, che è doveroso portare alla luce e diffondere. È quella storia, che oggi non è più possibile accettare supinamente, che ci ha consegnato la figura di un “Franceschiello” codardo, pavido, inetto: il ritratto caricaturale di un Re.
Il 5 settembre 1860, in procinto di partire per Gaeta, volendo risparmiare alla capitale atroci combattimenti (l’entrata di Garibaldi in città era imminente), pronunciava parole gravi, denunciando al cospetto dell’Europa, che rimase sorda alle evidenti violazioni del diritto internazionale ai danni dei popoli delle due Sicilie: 
“una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, nonostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee”.
Il Re denunciava, con una chiarezza e lucidità che pochi, in quel momento, mostrarono di avere, i disegni della setta rivoluzionaria che stava impadronendosi dei suoi Stati, ma che presto avrebbe minacciato l’intera Europa; scriveva ai rappresentanti delle potenze europee di come il Piemonte, che “sconfessava” pubblicamente l’azione garibaldina, segretamente, invece, la incoraggiava e la sosteneva. E paventava il pericolo che la violazione delle norme più elementari del diritto internazionale, che ora stava danneggiando il suo Regno, avrebbe finito per imporre il principio di autolegittimazione dei governi, spianando la strada a regimi basati sulla forza e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli. Fu fin troppo facile profeta: totalitarismi e massacri avrebbero trasformato l’Europa del secolo successivo in un immenso teatro di violenza e di guerre. Nessuno sembrava, in quel momento, rendersene conto quanto lui: “questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato ... L’Europa non può riconoscere il blocco decretato da un potere illegittimo ... L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo... Ma l’Europa stava a guardare. Francesco II, invece, combatteva contro questo nuovo modo di fare la guerra: sul Volturno, a Gaeta, sul fronte della diplomazia. Combatteva e protestava instancabilmente, pur nella crescente consapevolezza di non poter salvare se non l’onore; combatteva a fianco dei suoi soldati, per il popolo che aveva “sposato” e che non lo abbandonava, perché “fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi”.
Lucidamente consapevole della sconfitta, non fece nulla per sottrarsi al suo dovere di Re, raccomandando ai suoi popoli “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini” anche quando l’esito gli fu fatale. Lasciando Napoli, Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”; e quando, succeduto Vittorio Emanuele, si discusse se rendere a Francesco i suoi beni privati, una tale eventualità fu condizionata alla sua partenza da Roma, dov’era ospite del Papa. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei massacri, che l’esercito piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re - e non di “briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze? “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza”: queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a Statuti e proteste, ai “martiri” dell’unità d’Italia. Francesco, Re - Sposo dei suoi popoli, invece non cessò mai di preoccuparsi delle loro necessità, nella buona come nella cattiva sorte: l’11 gennaio 1862 riusciva ad inviare la somma di 800 scudi all’Arcivescovo di Napoli Riardo Sforza, per venire in soccorso della popolazione di Torre del Greco, colpita dal terremoto. “Tutte le lagrime dei miei sudditi – scriveva in quell’occasione – ricadono sopra il mio cuore, e non mi sovviene della mia povertà che allora soltanto che, in simili circostanze, m’impedisce di fare tutto quel bene, al quale mi sento per natura trasportato... Sovrano esiliato, non posso slanciarmi in mezzo a’miei figli per alleviarne i mali. La potenza del Re delle Due Sicilie è paralizzata, e le sue risorse son quelle di un sovrano decaduto che non ha trasportato seco, lungi dal suolo ove riposano i suoi antenati, che l’imperituro amore per la patria assente. Ma comunque grande sia la mia catastrofe e meschine le mie risorse, io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli miei”. Anche sugli spalti di Gaeta, quando tutto era ormai perduto, questo Re non aveva avuto altro pensiero che quello di consolare i suoi popoli nelle sventure comuni. Sempre fiducioso nella Provvidenza, le sue parole non furono mai di cupa rassegnazione, ma sempre vibranti di passione interamente napoletana: “Ho combattuto non già per me, ma per onore del nostro nome... io sono napolitano; nato in mezzo a voi non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie”.
Orgoglioso della sua “napoletanità” e dell’appartenenza ad una dinastia che, da oltre cento anni, regnava pacificamente su quei territori, ai quali aveva restituito indipendenza ed autonomia, Francesco rivendicava la legittimità del trono: “non mi ci sono installato dopo avere spogliato gli orfanelli del loro patrimonio, né la Chiesa dei suoi beni; né forza straniera mi ha messo in possesso della più bella parte d’Italia. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità...” Pace, concordia, prosperità: erano questi i beni che voleva per i suoi popoli. Perfettamente a conoscenza di tradimenti e cospirazioni, aveva voluto evitare spargimenti di sangue: questa sua scelta, che ostinatamente difendeva, gli aveva procurato – egli mostrava di esserne profondamente consapevole – accuse di inettitudine e debolezza. Ma preferiva queste accuse ai trionfi degli avversari, ottenuti con il sangue e la violenza. Cinismo, tradimenti e spergiuri sembravano sempre più fare parte dei moderni codici militari, ma a Francesco continuavano ad essere cari gli antichi codici della cavalleria, che riposavano sulla sacralità del giuramento, sulla fedeltà alla parola data, specie se parola di Re. Per questo non aveva potuto credere che il re del Piemonte “che protestava di disapprovare l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per il vero interesse dell’Italia”, avrebbe violato tutti i trattati e calpestate le leggi, invadendo il regno delle Due Sicilie senza neanche una dichiarazione di guerra. Ma alla tracotanza del nemico si poteva rispondere solo rimanendo uniti nella concordia, intorno al trono dei propri antenati, superando antiche divisioni (il discorso riguardava specialmente i siciliani): “il passato non sia mai un pretesto di vendetta, ma un avvertimento salutare per l’avvenire”. Occorreva avere fiducia, ancora una volta, nella Provvidenza divina ed accettarne, comunque, i disegni, profondi ed imperscrutabili; ma nessuno – e specialmente il Re – poteva sottrarsi al proprio dovere: “Difensore dell’indipendenza della patria, resto a combattere qui per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà, salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento. Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia”. L’esilio vissuto negli ultimi anni ad Arco, senza più speranza di recuperare trono ed averi personali, non cancellò la validità di questo “patto”: bastava essere napoletano per essere ricevuto da lui e furono tanti coloro che ebbero modo di incontrarlo. A tutti chiedeva notizie della sua Napoli, senza che mai alcuna parola di biasimo per i nuovi regnanti e governanti uscisse dalla sua bocca. Così come non voleva che si parlasse delle sue passate vicende, della sua vita di Re: le considerava un sogno del passato, che ormai si era dissolto. Aveva conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”. Fu solo dopo la sua morte che gli abitanti della cittadina trentina scoprirono la vera identità di quel gentiluomo che, tutte le mattine, sedeva al bar a fare colazione ed a leggere i giornali, dopo avere ascoltato la Messa, ed ogni sera, puntuale, si recava per la recita del Santo Rosario presso la Chiesa della Collegiata. Francesco II lascia nella storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono oscurare i doveri di sovrano, che egli seppe compiere cristianamente, i doveri di soldato valoroso nell’eroica difesa di Gaeta, i suoi proclami e le note diplomatiche indirizzate ai monarchi di Europa durante i tristi momenti della sua caduta, dimostrano ai posteri tutto il suo valore ed indicano un modello di regalità che non evoca immagini di potenza e di gloria ed invita, piuttosto, a riflettere sulla nobiltà della politica: concetto, oggi, purtroppo, estraneo alla nostra esperienza, perché caduto progressivamente in desuetudine, ma che dovremmo sforzarci di recuperare.

 
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