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Torre del Greco la capitale dell'oro rosso

Post n°2294 pubblicato il 03 Settembre 2013 da luger2
 

Nel sud Italia la pesca del corallo era stata regolamentata con precise norme già dal re Guglielmo che concesse al Monastero di San Pietro e Sebastiano di Napoli 300 ducati annui ricavati da “la Gabella del corallo de la spiaggia de mare” (questa gabella fu tramutata in esazione sulla pesca quando, ai primi del ‘600,il corallo si esaurì).   Carlo D'Angiò emanò il 25 febbraio 1277 delle ordinanze “pro pescatoribus corallorum” nei mari di Terra di Lavoro (prov. di Napoli) e Principato Citra (prov. di Salerno). Carlo concesse particolari privilegi ai marinai provenzali e marsigliesi che esercitavano tale pesca nel regno, riscuotendo sul prodotto pescato una decima che al tempo di re Roberto corrispondeva ad un’oncia per ogni barca. Dette ordinanze furono confermate da Giovanna I d’Angiò. Tale gabella continuò ad essere riscossa anche in epoca aragonese. All’atto di fondazione della certosa di San Giacomo a Capri la regina Giovanna I concesse ai certosini un diritto detto “pecunia maris” in cui, oltre all’esazione della decima parte del pesce pescato, era compresa anche metà dei proventi della gabella sul corallo. Ed i monaci continuarono a riscuotere fino al 1500, quando i banchi si esaurirono, malgrado le proteste dei corallari che ricorsero al regio fisco. Ma i certosini nel ‘600 continuarono a reclamare i loro diritti, ottenendone conferma fino alla fine del secolo. Il corallo si pescava nell’isola di Ponza e lungo le coste del Cilento, in particolare a Palinuro, ed in Calabria. In Calabria nel ‘400 si dirigevano i pescatori di Praiano (SA) e di Trapani. In epoca spagnola i genovesi ed altri “forestieri” che pescavano corallo nel mar grande di Taranto, dovevano pagare particolari diritti doganali. Ma il corallo cominciava a scarseggiare ed i pescatori dovettero dirigersi in Sardegna e Corsica. Documenti del XIII secolo attestano la produzione di corallo lavorato proveniente da Genova ed inviato ai mercati di Costantinopoli dove c’era una estesa richiesta. Anche i mercanti amalfitani commerciavano l’oro rosso con i levantini e nel secolo successivo possedevano case e botteghe nell’Impero d’Oriente. Napoli fu meta dell’ ambasciatore Raban Bar Sauma, turco nestoriano, nato in Cina e designato dal Khan dei Mongoli dell’Iran a guidare un’ambasceria in Europa in cerca di alleanze. Nel suo diario di viaggio Sauma parla con ammirazione di Napoli ove regnava Irrid Charladou (Carlo II). Il risultato dell’ambasceria fu la nomina del salernitano padre francescano Giovanni di Montecorvino ad arcivescovo di Pechino. Le lettere spedite in Italia da padre Giovanni parlano della presenza di mercanti italiani, soprattutto genovesi e veneziani, in Persia e Medio Oriente, e scambi commerciali di corallo, nel Turkestan, nell’Uzbekistan. Ma è Torre del Greco che viene considerata la città del corallo, poiché i suoi marinai praticavano la pesca già dal 1200. Per certo si sa che nel XV secolo partivano dal porto numerose coralline, per cui il feudatario locale, appartenente alla famiglia dei Carafa, cercò di imporre dazi agli armatori delle imbarcazioni. Nel Cinquecento e Seicento, crebbe a tale punto il numero dei pescatori di corallo che partivano da Torre del Greco che si sentì la necessità, nel 1615, per difendersi dai rischi della navigazione –naufragio e rapine dei pirati – di costituire un Monte Pio dei marinai, cioè un istituto di assicurazione al quale i marinai versavano la ventesima parte del guadagno di ogni corallina. In cambio, le famiglie degli associati ricevevano un sussidio in denaro in caso di bisogno, oppure per curarsi dalle malattie o per costituire una dote per le figlie che si sposavano. I mesi buoni per la pesca erano quelli primaverili ed estivi, cioè i marinai partivano in aprile e tornavano ad ottobre. Il corallo pescato veniva venduto sulle piazze di Livorno, Genova, Marsiglia, Trapani e Firenze. I pescatori torresi, attratti dai tesori dei mari africani iniziarono nel 1780 lo sfruttamento dei ricchi banchi corallini presso l’isola di Galita, sulla costa tunisina. Da qui continuarono ad approvvigionarsi spingendosi parecchie miglia ad est.  A fare da intermediari fra i pescatori e gli artigiani erano gli ebrei, che riuscivano a realizzare buoni guadagni.Una volta lavorato, il corallo veniva venduto ad un prezzo del 150 – 300% in più rispetto al prodotto grezzo. Intorno alla pesca del corallo si commettevano diversi soprusi, ruberie, piraterie e speculazioni varie sul prezzo praticato e sulle forme di pagamento dei marinai e della merce. I marinai spesso disertavano le barche per imbarcarsisu altre coralline; le città rivierasche, dove la pesca veniva praticata, pretendevano esosi diritti; spesso scoppiavano liti fra i pescatori e gli abitanti delle località della pesca con lunghi strascichi giudiziari; nelle acque africane, vi era concorrenza con i pescatori genovesi e francesi. Per mettere ordine in tanta confusione e frenare i soprusi, il governo borbonico, nel 1790, riconosciuta l’importanza della pesca del corallo per l’economia del Regno di Napoli, promulgò il “codice corallino”. Si trattava di norme ben precise per gli addetti alla pesca e al commercio del corallo. Fu messo ordine nelle operazioni di “cambio marittimo”. Il  prestito poteva concedersi solo ai marinai a“certa determinata ragione” e per il periodo che andava dalla partenza alritorno dalla pesca. L’interesse variava in base al tempo. In caso di naufragio, il partitario non aveva diritto alla restituzione del prestito. In caso di avaria, o di preda da parte dei pirati del mare, il danno veniva ripartito fra creditori e pescatori. Per redimere le controversie che sorgevano fra gli addetti alla pesca, il codice previde la costituzione di un Magistrato (o Consolato), composto da cinque consoli che stabilivano il tempo più opportuno per la partenza delle barche; fissavano il prezzo dello spago, delle vele e quanto altro occorresse per armare le barche. Tenuto conto della quantità e della qualità del corallo pescato, ogni anno, i consoli dovevano fissare il prezzo di vendita per ciascuna specie. Nessuno poteva “rompere” quel prezzo. Si stabilì anche la ripartizione del pescato fra i membri dell’equipaggio, dopo avere dedotto le spese sostenute ed i diritti pagati. Il codice corallino, citato dai giuristi e studiosi napoletani, secondo Tescione, fu “un esempio unico di codificazione del tempo e come un modello tipico di regolamento della pesca, esaminato al riflesso di tutti gli elementi raccolti è, soprattutto, un documento storico della continuità e della unicità delle consuetudini marinare del Mediterraneo: una testimonianza dallatradizione millenaria della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa sociale; delle leggi immanenti della cooperazione, della divisione del lavoro e di quelle della obiettivazione del rischio e della mutualità”.

Nonostante il corallo fosse pescato dai torresi da più secoli, solo nei primi annidell’Ottocento fu aperta la prima azienda che lavorava il corallo. Ad iniziare, nel 1805, fu il marsigliese Paolo Bartolomeo Marten, che ottenne da GioacchinoMurat, l’esclusiva,  per un decennio della vendita del corallo lavorato in tutto il regno di Napoli. Prima dellascadenza della privativa, alcuni lavoranti incisori (Veneziani, Mangiarotti,Persichini, Fattori) – si opposero al comportamento di Marten e decisero dimettersi in proprio. A nulla valse il ricorso al Consiglio di Stato inviato daMarten, perché si ritenne la lavorazione del corallo un’arte liberale, che non poteva sottostare a privative. Da quel momento, le piccole aziende artigiane che lavoravano il corallo si moltiplicarono.  Nel 1837, le aziende artigiane di Torre del Greco erano 8, ma negli anni successivi si moltiplicarono, tanto che, nel 1878, si sentì la necessità di costituire una “Scuola per la lavorazione del corallo”.

La bellezza dei gioielli prodotti a Torre del Greco veniva ampiamente riconosciuta alle grandi esposizioni nazionali e internazionali di Firenze, Londra  e Parigi, l’artigianato del corallo aveva saputo conquistare  un posto di grande dignità nella produzione mondiale. Il corallo di Torre del Greco, costituito dal ramo rosso carico ed uniforme del Mediterraneo, veniva venduto ed apprezzato in Europa – principalmente a Londra e a Parigi – ma anche in India, Africa,Austria, Ungheria, Polonia, Russia e Giappone. Negli ultimi anni dell’800, si cominciò ad importare a Torre del Greco anche il corallo pescato in Giappone e a Formosa, che era  di qualità più scadente rispetto a quello del Mediterraneo, ma ugualmente bello, per cui dai primi decenni del Novecento, oltre a migliorarne lo stile, la produzione si diversificò per il colore. Contemporaneamente, crebbe la lavorazione dei cammei, cioè prodotti ricavati dall’impiego delle conchiglie sfruttando la stratificazione dei colori. Alla fine dell’Ottocento, Torre del Greco veniva considerata la “capitale mondiale del corallo”, grazie alla capacità artistica degli artigiani, accompagnata alla capacità di “intraprendenza commerciale”degli abitanti di Torre del Greco, che varcarono i ristretti confini nazionali istituendo filiali all’estero delle loro aziende (es. Calcutta) per la vendita dei prodotti.

Purtroppo il ristagno dell’economia, che si ebbe fra le due guerre, fu particolarmente avvertito dalla pesca e dalla lavorazione del corallo, trattandosi di un bene di lusso. I prodotti dell’artigianato esportati principalmente all’estero, risentirono,della chiusura dei mercati internazionali provocata dalle guerre e dalla politica autarchica.  A poco valse, per ridare fiato alla lavorazione, l’impiego di nuove materie prime come la bachilite, la galalite, la plastica, il vetro colorato, le perle finte, i cristalli sfaccettati, che producevano una bijoutterie a basso costo.   Una caratteristica della commercializzazione del corallo di Torredel Greco è che si effettua, prevalentemente, sui mercati esteri, la vendita locale è molto limitata, in generale, per la particolarità delle materie prime lavorate di valore elevato. La produzione diminuì moltissimo ed oggi sopravvive appena.

 
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