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La tragedia di Pietrarsa
Eccoci al secondo appuntamento di questa serie, dove presenteremo l’eccellenza di Pietrarsa, azienda di San Giovanni a Teduccio, un quartiere della periferia a Est di Napoli. Una grande realtà aziendale che, da più importante nucleo industriale della penisola quale era in epoca preunitaria, viene ridotta a un’azienda di infima lega per poi essere chiusa, dopo esser passata attraverso una vergognosa tragedia: l’uccisione di alcuni dei suoi operai per mano di Carabinieri, Bersaglieri e Guardia Nazionale. L’azienda partenopea venne fondata nel 1840 per volere di Ferdinando II di Borbone e aveva già 700 operai quando l’Ansaldo venne fondata 13 anni più tardi. Nel 1853 Pietrarsa era difatti il primo e più importante nucleo industriale della penisola, oltre mezzo secolo prima della Fiat e 44 anni prima della Breda.1 Il primo tratto ferroviario della penisola, quello Napoli-Portici inaugurato nel 1839, fu il motivo principale che portò all’espansione di Pietrarsa, la quale, nel 1843, divenne fabbrica di locomotive e di assemblaggio di materiale rotabile, dopo esser già stata complesso siderurgico e adibita a produzione di cannoni e proiettili d’artiglieria. In un periodo nel quale, in Inghilterra, lavoro minorile e orari di lavoro disumani erano la norma,2 gli operai di Pietrarsa lavoravano otto ore al giorno, guadagnavano uno stipendio sufficiente a sostentare le proprie famiglie e, primi in Italia, godevano di una pensione statale con una minima ritenuta sui salari.3 Ma questo stato di cose non era destinato a durare una volta che l’Italia fu unita. Dopo l’Unità, infatti, grazie all’intervento di Bombrini, le commesse iniziarono ad essere dirottate verso l’Ansaldo, mentre il nuovo padrone post-unitario delle officine partenopee, tale Jacopo Bozza, prima dilatò l’orario di lavoro abbassando allo stesso tempo gli stipendi, poi tagliò in maniera progressiva il personale mettendo in ginocchio la produzione. Non ci volle molto perché il malcontento dilagasse. Sulle pareti prossime ai bagni aziendali fu scritto col carbone: «Morte a Vittorio Emanuele, il suo Regno è infame, la dinastia Savoja muoja per ora e per sempre». Gli operai avevano ormai capito a chi dovevano la loro crescente “sfortuna”. A promesse di riassunzione seguirono altri licenziamenti. La tensione, a quel punto, era altissima. Il 6 Agosto del 1863, dopo che alla fine di Luglio il personale era ormai ridotto a poco più di 450 unità, gli operai videro un nuovo licenziamento — altre 60 persone — arrivare come risposta alle loro richieste di aumento di stipendio (ovvero, un ritorno a qualcosa di più vicino agli stipendi dell’epoca preunitaria, appena 2 anni prima). La situazione divenne critica, e il Capo Contabile, tale Sig. Zimmermann, chiese prima l’intervento della pubblica sicurezza, poi addirittura l’intervento di un battaglione di truppa regolare dopo che gli operai si furono raccolti nello spiazzo dell’opificio in protesta. Arrivarono sul posto Guarda Nazionale, Bersaglieri e Carabinieri, forze armate storicamente piemontesi ed estese a tutto il nuovo stato “piemontesizzato”, che al segnalespararono sulla folla. Ufficialmente si parlò di sole due vittime, ma il fascio che fu citato dalla polizia, al foglio 24, riporta l’elenco completo di quattro morti e svariati feriti. Nel 1863, dunque, abbiamo le prime vittime operaie d’Italia.4 Al contempo, troviamo un regime di polizia che cerca di insabbiare l’evento; difatti, il questore di Napoli dell’epoca, Nicola Amore, sminuì i fatti tacciandoli come “fatali e irresistibili”, mentre tentava inutilmente di corrompere Antonino Campanile, testimone loquace e scomodo. Questo atteggiamento premierà poi Nicola Amore, che farà carriera e diventerà sindaco di Napoli, dove oggi troviamo persino una piazza intitolata a suo nome. Per quanto riguarda la stampa, quella “ufficiale” seguì prontamente l’esempio della polizia, e a nulla servì la dovizia di particolari delle stampe “minori”, come Il Pensiero, giornale che descrisse l’intera vicenda, e parlò di un totale di nove morti; o La campana del Popolo, che raccontò del dopo tragedia all’ospedale Pellegrini: «palle di fucile», e strage definita «inumana». Niente giustizia dunque, e tra successivi licenziamenti e declassamenti, nel 1875 inizia il declino irreversibile5 dell’azienda che aveva ormai soltanto 100 operai. Ridotta a un piccolo centro di riparazioni, venne chiusa nel 1975. Al suo posto, oggi, c’è il Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa. I connotati da regime che assumono i fatti del 1863, così come vedere i nomi delle vittime dimenticati e quelli dei carnefici sulle targhe di piazze e strade, hanno un qualcosa di tragicamente attuale. Proprio in quelle dinamiche, si vede un’Italia attualissima, corrotta, viscida, che non ha mai voluto il meridione, se non per sfruttarlo,6 e che inaugurava, con quegli eventi, la più grande vergogna di questo paese: la questione meridionale.
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Inviato da: maximus260
il 08/09/2020 alle 08:18
Inviato da: labora17554
il 10/08/2018 alle 22:53
Inviato da: labora17554
il 10/08/2018 alle 22:52
Inviato da: GothMakeUp
il 21/03/2017 alle 16:14
Inviato da: diletta.castelli
il 23/10/2016 alle 14:21