dedalo

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Chi si ferma è perduto. Si ripeteva in testa quella frase. Che lo riportava agli anni del liceo. Rimastagli impressa durante un’interrogazione in scienze, detta dalla sua prof come battuta ad una sua risposta. Non ricordava ora però quale fosse stata la sua risposta, e né tanto meno la domanda. Ma sicuramente riguardava lo spazio. Geografia astronomica era l’argomento, ne era certo. Forse la sufficienza l’aveva presa. Non era un asso in scienze, ma se la cavava sempre. A parte un quadrimestre, in cui aveva preso un 5, che in un qualche modo era riuscito poi a recuperare. Quegli anni gli mancavano. Sono gli anni di transizione. Di traghettamento verso la vita adulta, quella fatta di responsabilità e di indipendenza. Anni che forse non aveva vissuto con la spensieratezza necessaria, e di cui ora, sentiva di pagarne le conseguenze. Anni che erano volati e che gli avevano lasciato in testa pochi ricordi. Anni che probabilmente non sarebbe riuscito a vivere in altro modo, anni però in cui era ancora lontano dai pensieri negativi sul futuro e sulla vita che oggi lo affliggevano. Eppure lui tra questi ricordi era fermo. Si sentiva perduto, imprigionato in una vita che si era creato sa solo. Secondino di se stesso. Vittima e carnefice allo stesso momento. Credeva di sapere tutto. Credeva di aver già conosciuto o di prevedere, tutto quello che la vita poteva offrire. Credeva ormai di non poter far più niente. Eppure le esperienze erano poche e di certo non conosceva tutte le gioie e le vere sventure che il destino, a volte meschino e crudele, a volte benevolo e magnanimo, poteva ancora regalare alla sua vita. Che in fin dei conti sarebbe stata ancora lunga e carica di eventi. Ma lui stava fermo. A contorcersi tra dilemmi che credeva possibile solo in tragedie shakespeariane.Fermo, a sprecare il suo tempo, pensando. A perdersi in se stesso.È arrivato il momento di agire, pensava. Ed era vero. Doveva agire. Ma nonostante sapesse quello che avrebbe dovuto fare, non lo faceva. Per paura forse. Perché prevedeva già i risultati dei suoi tentativi. Perché credeva che stare fermo ed invisibile era più facile, anche se ugualmente doloroso. Se non di più. Perché sentiva di non essere fatto per questo mondo e per i suoi abitanti. Che a volte vedeva così lontani, capaci di muoversi e andare avanti. Non come lui che invece provava solo disagi e paure. Si sentiva diverso. Lui era diverso. E anche questo lo spaventava. Disteso a letto, si rintanava nel suo mondo. Fatto di gioie e dolori irreali, di fantasie ed invenzioni. Ascoltava musica, direttamente nelle orecchie per non farsi sentire dal mondo esterno della sua casa, della sua famiglia. Si tamburellava la dita della mano destra ora sul petto, ora sulla coscia. Se gliel’avessero chiesto, non sarebbe riuscito a definire l’umore di quell’istante. A mente vuota, riempita dalle solo note musicali e da quelle vibrazioni ritmate che imitava con mani e piedi, poteva definirsi tranquillo. Un sorriso ogni tanto gli si stampava in faccia mentre ridicolmente cantava, con il solo uso delle labbra, una qualche canzone. Ma se si concentrava, se tornava alla realtà della sua vita, agli obblighi universitari che di li a breve lo avrebbero nuovamente impegnato, all’insoddisfazione e alla solitudine che molto spesso lo coglieva, ecco che allora quel sorriso si spegnava. La musica nella sua testa non c’era più, e tornava a regnare la confusione. Un intricato dedalo di pensieri veri che lo atterrivano. E una voglia di piangere si faceva spazio tra quel caos. Per questo non voleva più pensare. Per questo non si occupava più di nulla. Per questo si teneva lontano dal mondo, tenendo spento il cellulare e stando lontano da internet, che lo assorbiva ancora molto, ma che ormai non gli interessava più. Voleva, doveva rimanere vuoto. Anche se quel nuovo anno era appena cominciato, non ce la faceva a pensare che doveva cominciare a cambiare. Doveva svegliarsi da quel sonno che lo immobilizzavo. Mi devo svegliare, devo riprendermi, si diceva sempre. Ma non era abbastanza. Era il vuoto a vincere. Cominciava ad avere fame. Le sue giornate in breve tempo si erano già ben scandite. Era l’ora dello spuntino di metà pomeriggio. Lentamente si diresse in cucina, nel più assoluto silenzio di quella casa. I suoi genitori erano usciti, forse senza nemmeno avvertirlo, o forse lo avevano chiamato invano ma con la musica nelle orecchie non poteva sentirli. Il fratello era invece via da giorni. Aveva organizzato il suo capodanno a casa di amici a Milano, e non aveva lasciato detto quando sarebbe tornato. Ormai si era abituato a queste situazioni, e a volte si sentiva sollevato nel ritrovarsi da solo. Il senso di abbandono, almeno in quella casa, lo aveva perso da tempo. Era un estraneo anche nella sua famiglia. Prese posto al tavolo, pronto ad abbuffarsi di qualcosa di qualunque cosa. Non gli interessava più il gusto di quello che mangiava, non ci faceva più caso. A volte gli bastava mangiare e basta. Ma non per riempire quel vuoto, già lo sapeva che non era mangiare la soluzione. Ma diventava solo un modo per passare il tempo. Un tempo che non voleva né sentire né vedere. Non aveva più alcuna importanza. Non c’era più per lui il significato del tempo.  Voleva che anch’esso si fermasse. E in fondo era così. Il tempo era già fermo, perché non succedeva nulla.