Angolo Cattivo

Disabitato Versione Beta


Mi ricordo: fui capoluogo di me stesso, provincia con ambizioni di grande impero, concedendomi illegittime levitazioni nell'aria che non sapevo calpestare nè fendere pur turbinando gambe e braccia.Mi isolarono e mi isolai senza essere isola.Andando per il pane e la carne, scoprii l'attrazione tagliente per la fame e per la sete, ma la privazione non fu un fioretto.Il mare prosciugato non fece emergere tesori dai fondali, abissi emozionanti, miraggi naufragati, ma solo corpi boccheggianti, da una Guernica ittica sino alla non vita.Naufragai nella siccità di ogni giorno.Mi ci stabilii.Non ricordo stragi, nè sangue, nè incendi, nè il terrore che mi arrecarono nè la violenza inattesa di singulti dal sottosuolo.C'ero io, solido e forte come una torre di cento piani, con le sue pareti levigate, con le sue finestre e ed i suoi vetri, che, come me si illuminavano più dei neon che dei soli, delle lune e gli astri.C'ero io, piccolo come la stanzetta di uno scrittore che abbaglia di sè una fioca lampada, generando profusione di sogni e smarrimenti con il fiume di inchiostro secreto dalle sue dita sul foglio.Ora mi costringo all'esigenza di disabitarmi dentro.Svuoto gli interni, li spoglio dei pavimenti, stacco ciò che è appeso, non lascio conforto, possibilità di ristoro, idea di casa.Non ho dove sedermi, la caduta sarà il mio giaciglio.Calpesto la pietra nuda e la terra bruna, senza tappeti, legno e mattoni sotto i piedi.Farà freddo e starò nell'angolo, sarò l'angolo, così compresso, così raccolto, così rimpicciolito.La voce sarà scabra eco, sarà zampillo ghiacciato che si ramifica sul panorama sterminato di un davanzale in cui incontro inerme la natura, come un patibolo incruento, proscenio di una sopraffazione.Eccomi: camera vuota, albergo senza clienti, un buco nel cemento grigio, un dito nella sabbia dorata, un respiro che risucchia la saliva, pioggia e polvere che generano fango e melma, pietra come un qualcosa che rimane appoggiato da ieri, ad oggi ed a domani, come se ci fosse un sempre.Coprirà la durezza, la natura che si riappropria di ciò che non è vissuto, di ciò che non vive.Inventerà morbidezza con tappeti verdi, con tutti quei colori che muteranno con variabili e persistenti espressioni del sole e con ogni carezza e schiaffo umido che colpirà la terra, inventerà secchezza con i tappeti scoloriti dall'aria ferma, asciutta e senza umori evaporati nella sua apatica canicola.Macchie di colore definirono i nomi di ogni cosa, i volti di ogni figura, l'acqua le sbiadì, diluendone i significati, sfregiando visi, il clima secco munito di vento asciugò ogni cosa, ed ogni cosa sparì, sopirono concetto, impulsi e gesti di amore e cattiveria con le rispettive gradazioni ed inevitabili zone neutre: pollini, germogli divennero il mantello, il tappeto, coperta calda e soffocante su polvere e macerie, più che mimetismo di gradazioni differenti di gioia con drastiche deflessioni.Io ero la pietra, come se lo fossi da sempre, nè esprimevo metamorfosi, nè attuavo un passaggio di stato, marmorizzato in una persistenza minerale, divinamente inutile e neppure trascendente.Ma ero anche aria compressa in un contenitore amorfo, in cerca di esplosione e vento, di fuga rapida e forsennata, prima di essere bruciato senza cambiare stato, come il respiro anonimo di chiunque altro, ben oltre una necessità vitale.Ma non c'era nessun altro, animato riempitivo ed animante contenitore: ero solo io.Loro c'erano stati, ma poi si diradarono, loro erano gli uomini, quegli uomini ed assieme tutti gli uomini: avevo dimenticato chi fossero, cosa fossero.Io aveva ucciso loro e dimenticò il misfatto.Il concetto di forma si estingueva e sopravviveva solo l'idea di contenitore, da riempire, da svuotare, ciclicamente, e perpetuamente da svuotare e da riempire.Senza immagine nè somiglianza.Ero tutto fuorchè un uomo.Ma oggi, quel corpo di quell'uomo, io l'ho disabitato.