Creato da ania_goledzinowska il 10/01/2011

CON OCCHI DI BAMBINA

Ania Goledzinowska

 

 

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IL PRIMO CAPITOLO DEL MIO LIBRO "UN CLIENTE SPECIALE"

Post n°14 pubblicato il 27 Marzo 2011 da ania_goledzinowska
 

CON OCCHI DI BAMBINA - PIEMME (gruppo Mondadori)

giusto cover

Con occhi di bambina è un romanzo-verità. È la storia di Ania e della sua instancabile ricerca dell’amore, della felicità e di una gioia di vivere che credeva perduta per sempre.

La storia comincia in Polonia, con una bambina che sogna di vivere in un castello incantato, e che conosce invece tutta la durezza della vita. È la storia di un viaggio in Italia, come verso la terra promessa. Un viaggio che invece, per questa ragazza ancora minorenne, diventa un susseguirsi di tragiche avventure. È una storia che racconta la forza dei sogni, e quanto sia importante non mollare mai. Ania passa attraverso esperienze di sfruttamento e di discriminazione, poi un sequestro e un tentativo di suicidio; scopre che persino chi dovrebbe proteggerla, la polizia, può nascondere al suo interno persone corrotte. Molestie, alcol, droga, la vita dei night e mille falsi amici senza scrupoli sono gli antagonisti contro cui la ragazza si batte da sola, alla disperata ricerca di se stessa. Alla ricerca di un grande amore che sembra arrivare, e poi svanisce, inghiottito da quel nulla che in certi momenti sembra mangiarsi tutto.

La storia di Ania rovescia il luogo comune per cui è solo accettando i compromessi che si può andare avanti nella vita. Sarà invece proprio la ricerca della lealtà e dell’amore, la sua voglia di restare se stessa fino in fondo, a darle la forza di realizzare il sogno di diventare prima di tutto una donna. Una nuova strada si apre del tutto inattesa. Una strada che promette un futuro diverso, una speranza che non finirà mai, una strada che arriva fino alle porte del cuore.

 

 

 

 

UN CLIENTE SPECIALE

 

All’improvviso mi saltò addosso. Fino a un attimo prima s’era comportato come una persona normale, anzi era stato addirittura gentile. Avevo provato gratitudine per lui, perché per una sera mi aveva portato via da quella specie di prigione in cui mi ero ritrovata, mi aveva portato a ballare, e così dopo tanto tempo – sia pure soltanto per qualche ora – mi ero sentita di nuovo una ragazza qualunque, una ragazza normale.

Ma poi, di colpo, si trasformò in una belva.

Si lanciò su di me. Le sue mani mi afferravano, mi strappavano i vestiti, mi toccavano. Sentivo il suo fiato sulla mia faccia. L’odore della sua pelle mi stordiva. Dicono che una persona eccitata cambi odore. E’ vero, perché ora lui emanava l’odore di un animale, e non quell’aroma delicato che avevo avvertito fino a poco prima, quando ballando con lui guancia a guancia avevo cercato d’indovinare che profumo usasse.

Tutto avvenne con tale rapidità e violenza che per qualche istante non riuscii neanche a rendermene conto. Non riuscivo a realizzare che quello che stava accadendo fosse vero, che stesse capitando a me.

Caddi in una sorta di trance. Mi sembrava di assistere a quella scena da lontano, come se fosse un film. 

Non pensiamo mai che certe cose possano capitare a noi. Non lo vogliamo pensare, anche se sappiamo perfettamente che accadono e ne sentiamo parlare continuamente. 

Purtroppo non era un incubo: ero proprio io la ragazza di diciassette anni seduta in quell’automobile. Un’automobile che da un momento all’altro si era trasformata in una trappola. Ero io la ragazza su cui quell’uomo si era gettato come un animale affamato sulla preda.

Il cuore mi batteva all’impazzata. La mia stessa voce mi rimbombava in testa, e continuava a ripetere non è vero... non può essere vero..

Sentivo un gran calore sulle guance, mi girava la testa. Provai addirittura a sorridere, tentai di negare la realtà fino all’ultimo, fingendo di non aver capito quali fossero le sue intenzioni. Speravo che lui la smettesse e che, con la stessa rapidità con cui si era trasformato in un mostro, tornasse ad essere un uomo, l’uomo di prima, e mi dicesse a bassa voce “scusa, ho perso la testa, perdonami...”.

Non so se ridere o piangere quando penso a quanto ero ingenua a quei tempi! 

Smettere? E perché mai avrebbe dovuto smettere?

Continuava, invece, e nulla avrebbe potuto fermarlo. Stava facendo quello che aveva in mente fin dal principio, fin da quando mi aveva conosciuta al locale e mi aveva invitata ad uscire. 

Le mie suppliche, le mie lacrime, servivano solo ad eccitarlo ancora di più. Lo divertiva che io opponessi resistenza, gli piaceva.

Eravamo in una piazzola di sosta della tangenziale di Torino. Lui aveva accostato senza dirmi nulla.

Le altre automobili ci sfrecciavano accanto, balenando per un istante alla luce giallognola dei lampioni. Poi sparivano infondo alla curva, e il rombo del motore si spegneva nel silenzio. 

 

Era notte fonda. Dal finestrino dell’auto vedevo le case in lontananza, la città. Il mondo era lì, a un passo da me. Sembrava così tranquilla quella notte torinese, così normale... E fino a un istante prima lo era stata. Ma ora tutto era cambiato, e quel contrasto mi procurava una sensazione orribile, che non potrò mai dimenticare: dal finestrino vedevo la vita scorrere pacifica e silenziosa come un grande fiume.... ma intanto lì, in un anfratto della riva di quel fiume, come se nulla fosse, un uomo mi stava stuprando. 

Non so perché, ma la mia attenzione in quei primi istanti si focalizzò su particolari assurdi, di nessuna importanza. Notai, ad esempio, che l’autoradio era accesa, e che il pomello della leva del cambio era di legno. Se da un lato ero stordita, dall’altro certe percezioni si erano amplificate. La realtà mi bombardava, e non riuscivo a difendermi.

Realtà e incubo si confondevano. Sentivo quell’angoscia tremenda che procurano a volte certi brutti sogni, quei sogni agitati – pieni di visioni angosciose, indecifrabili – in cui vorremmo gridare, gridare con tutte le nostre forze, ma la voce non esce. La bocca si spalanca, ma rimane vuota, mentre gli occhi traboccano di terrore. Quei sogni in cui vorremmo disperatamente fuggire, ma non riusciamo a muoverci perché una forza misteriosa e irresistibile ci blocca. 

Avrei voluto reagire con tutte le mie forze, ma non ci riuscivo. Avrei voluto gridare, ma ero diventata muta: però non era un sogno.

Mi tremavano le mani, le labbra, come ai bambini quando stanno per piangere. Mi sentivo gelare.

“Va’ con lui”, mi avevano detto al locale, “è un cliente speciale. Non dovete far altro che andare a ballare e divertirvi!”. E io mi ero fidata. 

Ero pronta a credere a tutto: ero in Italia, il Paese più bello del mondo, il Paese dove avevo sempre sognato di vivere. Ma ad un tratto il sogno si era trasformato in un incubo, e così in fretta che i miei pensieri non gli stavano dietro. 

Le macchine continuavano a passare una dopo l’altra, le case erano sempre lì, con qualche finestra illuminata in lontananza, e il cielo sopra di noi, quel cielo un po’ cupo, con la luna che appena filtrava tra le nuvole, era il solito cielo di Torino. 

Tutto era così normale intorno a me, la vita scorreva, e nessuno si accorgeva che in quella macchina ferma in una piazzola di sosta della tangenziale, un figlio di puttana stava violentando una ragazza di diciassette anni.

Io mi agitavo, mi disperavo, ma lui era come indemoniato. Cercai di divincolarmi, di lottare. Per un attimo riuscii a respingerlo e aprii lo sportello dell’auto. 

Poggiai la punta di un piede per terra, e nel farlo mi sentii come un naufrago che sfiora la spiaggia. Ma lui mi afferrò per i capelli e mi diede uno strattone. La testa mi si piegò all’indietro, mi sembrò che mi stesse spezzando il collo. Gli diedi una gomitata, e lui mi afferrò e mi strinse con entrambe le braccia. Mi afferrò per i seni, stringendoli fino a farmi gridare. Mi tirò di nuovo dentro, e richiuse la portiera. Fu una sensazione spaventosa, come se la risacca mi avesse agguantato, e una forza irresistibile mi avesse trascinanto di nuovo al largo, in mezzo alla tempesta. Mi teneva stretta, avvolgendomi anche con le gambe, mi si attorcigliava addosso, come un serpente. Mi bloccò le mani, mosse la leva che faceva abbassare lo schienale del sedile, e mi immobilizzò sotto di lui. Poi cerco di ficcarmi la lingua in bocca. 

I baci, quelli veri, sono petali di rosa, i suoi invece erano morsi di una bestia feroce. Mi strappava i vestiti. Sentivo le sue mani insinuarsi nelle mie parti più intime, sentivo contro il mio corpo tutta la durezza e la violenza del suo desiderio di avermi. 

Mi strappò le mutandine, riuscì ad allargarmi le gambe e fu dentro di me. Mi sembrò di finire sott’acqua. Annegavo. Non respiravo più. Annegavo nel dolore, nella disperazione, e sentivo un dolore bruciante, come se mi stessero squartando. 

Mi teneva stretta per i polsi, e si affannava sopra di me. Io lo supplicavo, piangevo, ma lui continuava a mordermi, a spingere. Riuscii a liberare una mano e lo colpii un paio di volte. Allora lui mi diede uno schiaffo tremendo. Più un pugno che uno schiaffo. Mi uscì il sangue dal naso, e mi colò sulle labbra come una lacrima rossa. Aveva un sapore vagamente metallico.

Il dolore di quello schiaffo scatenò in me una reazione furiosa. Ripresi a lottare, proprio quando forse lui credeva di avermi ormai sottomessa. Lottai con tutte le mie forze, con tutta l’energia nascosta nell’ultima cellula di ogni muscolo, lottai con quella disperazione con cui si combatte quando si sa che in gioco c’è il tutto per tutto.

Appena riuscivo ad allontanare un po’ la sua faccia dalla mia, oppure a staccare il suo artiglio dal mio seno, lui mi picchiava di nuovo. E mi mordeva. Questo, questo più delle botte, mi faceva andar fuori di testa: essere morsa, come una preda vera, come se lui mi stesse divorando.

Lottai fino alla fine, con le tempie che mi pulsavano, con l’odore del suo sudore che mi inondava il cervello, dibattendomi in quell’auto come un animale preso nella rete. E lui giù altre sberle, sempre più forti. Il suo respiro s’era fatto ruvido, affannoso. Mi lasciò le mani, e mi strinse in un abbraccio così forte che non riuscivo quasi più a respirare. Provai a colpirlo ancora, sulla schiena, sulla testa, ma adesso lui sembrava diventato insensibile. Gemeva, ma non per i miei colpi. Gemeva di piacere, mentre io morivo sotto di lui.

Alla fine, sfinita, la mia resistenza cessò. Scivolai in una specie di incoscienza. Cominciarono a venirmi in mente fantasie impossibili. 

Immaginai che apparisse mia nonna Janina... Sì, che lei – che era stata una madre per me, e tante volte mi aveva protetta – spuntasse lì dal nulla e venisse a salvarmi. La immaginai così intensamente che chiudendo gli occhi la vidi aprire lo sportello della macchina. Mi sorrideva, con quel sorriso un po’ stanco ma pieno di dolcezza che hanno le persone anziane, e mi diceva “Vieni Ania, andiamo...”. E mi portava via con sé, come quando ero bambina e lei veniva a prendermi all’asilo, e tornavamo insieme a casa, mano nella mano. 

A casa, a casa mia. Al sicuro.

Ma la mia casa, mia nonna, la mia vita di appena qualche mese prima, erano più lontane delle stelle che intravedevo nel cielo fuori del finestrino appannato di quell’auto maledetta. Erano irragiungibili, irreali. 

Lui continuava a premere il suo corpo sul mio, abrutito dall’eccitazione. Ad un tratto pensai che mi avrebbe uccisa davvero. Che dopo avermi stuprata mi avrebbe tagliato la gola e mi avrebbe buttata a calci fuori della macchina. Come una cosa vecchia, che ormai non serve più.

Così la mia vita sarebbe finita con un necrologio di due righe, nelle pagine di cronaca di un giornale locale. È proprio questo che capita a tante ragazze: arrivano in Italia con una valigia carica di sogni, e si ritrovano su un marciapiede: “Giovane polacca trovata morta sulla tangenziale di Torino...”, questo sarebbe stato il riassunto di tutta la mia esistenza, il succo amaro dei miei sogni. 

Questo sarebbe rimasto di me, della principessa che avevo creduto di essere quando m’illudevo di abitare in un castello incantato: il cadavere di una ragazzina usata e poi gettata via. 

La gente avrebbe letto la notizia sul giornale, magari facendo colazione al bar, e qualcuno avrebbe mormorato ridacchiando: “Tanto quelle sono tutte troie, sono loro che se le vanno a cercare...”. 

Chi mi avrebbe cercata? Nessuno. E dove poi? Nessuno avrebbe mai saputo più niente di me. Ero una clandestina, quelli del locale mi avevano preso i documenti... Non sarebbe stato possibile neanche identificarmi. Ero nulla. Come se non fossi mai esistita. Un nome scritto sull’acqua, una voce che si perde nel vento.

Fu un momento spaventoso, il più terribile di tutta la mia vita.

“Ti piace, eh?”, mi sussurrava lui nell’orecchio, con la sua voce da maiale. “Dimmelo che ti piace!” 

Tutto cominciò a girare intorno a me. Avevo gli occhi aperti, ma non vedevo altro che ombre confuse. Sentii una gran pesantezza, provai una specie di vertigine come se stessi precipitando nel vuoto. La voce di mia nonna mi riecheggiava in testa: “Eccoci a casa...”, diceva, “perché non vai a giocare con la tua sorellina?”. 

Sentii un urto di vomito, un fremito che mi percorse tutto il corpo, mormorai qualcosa che non ricordo più, e infine svenni.

 

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