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Edvard Munch. Arte4

Post n°3639 pubblicato il 01 Marzo 2010 da artfactory
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La morte reale della madre si può così sovrapporre a momenti in cui per il piccolo Edvard la madre era come morta in quanto assorbita dalla nascita dei tre fratelli. Possiamo anche pensare a quanta depressione deve esserci stata in questa donna, malata di tubercolosi, al pensiero di dover così presto lasciare tutti i suoi figli. Il legame fecondo tra i genitori è strutturante nei confronti della mente del bambino, in funzione della presenza reale del padre fra il bambino e la madre che permette quella separazione che distingue le identità e determina la creazione di quello spazio di vuoto e di assenza necessario perchè si sviluppi il pensiero e la funzione simbolica (v. anche Di Chiara e coll., 1985), e che determina quella "perdita metaforica" di cui ci parla Green (1980). Il padre che, peraltro, attribuendosi la "colpa" della morte della madre viene a configurare questo elemento di separazione nei termini di un oggetto persecutorio vissuto in modo paranoide. Vissuto questo che accompagnerà per tutta la vita Munch, impedendogli di vivere le situazioni di competizione maschile nei confronti della donna in modo "fisiologico". Nel momento in cui questa perdita si pone non più come metaforica ma reale, l'oggetto verso cui indirizzare il proprio sforzo introiettivo si configura come una assenza persecutoria, in quanto ancora carica della colpa del soggetto da un lato, e che inoltre porta via con sè le parti del sè vitale identificate in esso. Il bambino di fronte alla perdita della madre, per mantenere con essa una qualche forma di relazione, tende ad attribuirsi la responsabilità degli eventi, la morte o la malattia. Le motivazioni per cui la madre si ritira dal rapporto sono per il bambino incomprensibili: si viene cioè a configurare quella "perdita di senso" di cui parla Green. Per il bambino la scomparsa della madre viene tradotta in una colpa, "legata alla sua maniera di essere, piuttosto che a qualche desiderio proibito; di fatto gli viene proibito di essere" (Green, 1980, p.277). Il bisogno dell'oggetto determina così una situazione paradossale in quanto per ristabilire l'unione con l'oggetto perduto si può ricorrere non ad una autentica riparazione, che comporterebbe la presenza di un oggetto e un mondo interni già sufficientemente sviluppati, ma ad un'identificazione mimetica "allo scopo, visto che non è possibile possedere l'oggetto, di continuare ad averlo, diventando non solo come l'oggetto ma l'oggetto stesso. Questa identificazione, condizione della rinuncia all'oggetto e della sua contemporanea conservazione secondo una modalità cannibalica, è fin da subito inconscia" (p. 276). Il centro della mente del soggetto è così occupato dalla "madre morta".

Ancora Green, in questo splendido saggio, nota come il primo movimento appariscente di questo dramma sia di natura preconscia, e cioè il disinvestimento dell'oggetto. Nell'opera di Munch questo disinvestimento può essere reperito nella caratteristica che possiamo ritrovare nel dipinto La madre morta e la bambina, come osservato sopra, della attribuzione di tutto il carico emotivo della scena alla sorella Sophie. Il primo tempo del trauma, secondo la dizione dei Baranger e Mom (1987), resta inscritto nella mente di Edvard: è "tenuto a mente". A proposito Bleger osserva: "Può darsi che il 'tenere a mente' sia un'equazione simbolica, e che invece il pensare sia già un'operazione in cui si utilizzano dei simboli. Pertanto, l'equazione simbolica non è una confusione tra il simbolo e ciò che viene simbolizzato, ma l'interiorizzazione di un nucleo sincretico nel quale coesistono ancora l'oggetto e la sua rappresentazione astratta (mentale), senza che siano tuttavia completamente discriminati. Il 'tenere a mente' è, geneticamente, anteriore al pensiero e non discrimina tra parola e pensiero" (1967, p. 249). La lezione bioniana permette di superare certi punti di questa concezione, e sicuramente un "engramma mnestico" non può essere considerato un pensiero con un pensatore. Il ricordo deve trovare il proprio senso nel suo collocarsi in una prospettiva storica dello sviluppo del Sè. "Intorno all'evento traumatico si organizza così nella storia del soggetto un'area astorica, fuori dal tempo e fuori dal conflitto. Qualcosa su cui non è mai stato possibile 'chiudere un occhio', su cui gli occhi sono rimasti 'sbarrati'" (Barale, 1996, p.445); sbarrati come gli occhi della sorella, nel dipinto sopra ricordato, fissati nel ricordo come in uno specchio, che rimanda la propria esperienza ma collocandola in un altrove in funzione della sua non tollerabilità.

La scena della morte della madre e il suo configurarsi come una scena vista allo specchio riporta ad una fondamentale funzione materna che si interrompe drammaticamente lasciando il bambino solo con la sua angoscia impensabile: esattamente quella che Winnicott descrive così efficacemente e poeticamente nel capitolo di Gioco e realtà su "La funzione di specchio della madre". "Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge" (1971, p.191). Ma cosa succede se la madre, e più in generale l'ambiente materno, non possono più guardare? I bambini, dice Winnicott, "guardano e non si vedono". L'ambiente così funziona veramente solo da specchio, che rimanda al mittente, immodificata, l'immagine che gli viene proposta. E qui Munch guarda e non si vede, può vedere la sorella e la scena retrostante, ma lui non si vede. Il volto di Sophie viene così a rappresentare il proprio volto non visto dalla madre. La scena e le emozioni correlate restano impresse nella sua mente come in una pellicola fotografica non sviluppata, allo stato virtuale, senza poter transitare nella mente adulta che le possa "sviluppare". L'occhio sbarrato registra la scena che resta in un qualche luogo della mente conservato con le caratteristiche di un'allucinazione. Bion ci ha insegnato a considerare le allucinazioni come evacuazioni all'esterno di contenuti non pensabili e contenibili nella mente, attraverso un'inversione della funzione degli organi di senso. Questi ricordi sembrano conservarsi con tutte le loro caratteristiche di non-pensabilità e di non-contenibilità esattamente con le caratteristiche delle allucinazioni, ma all'interno della mente. Il venir meno della funzione di rèverie materna fa sì che le "tracce mnestiche grezze slegate da un contesto rappresentativo linguistico" (Giaconia e Racalbuto, 1997) debbano attendere delle nuove situazioni in cui l'originaria rèverie materna possa essere riparata, ovvero il contenuto traumatico possa essere allucinato nuovamente all'esterno, in una situazione in cui vi sia un oggetto che possa dare a questo movimento un significato creativo. E' quello che avviene quando i pazienti hanno "allucinazioni" nel trattamento (v. Bion, 1958), è quello che è avvenuto in Munch, e nell'artista in generale, quando nel medium artistico trova la possibilità di elaborare, almeno parzialmente, la propria sofferenza mentale. Il fatto che questa elaborazione sia parziale non dipende tanto dal fatto che l'artista non svolge un trattamento analitico, quanto dal fatto che l'oggetto sia riparabile. Come osserva Green (1990, p.298-299) non si può ripristinare una funzione di rèverie che non sia stata inscritta nella mente del bambino, così non si può riparare un oggetto, o dare all'oggetto una funzione di rèverie, se questi non contiene in sè la possibilità di averla. Così il paziente può evocare le sue figure originarie, ma se in queste non è rintracciabile una qualche funzione positiva, non la si può nemmeno creare a posteriori. In questo senso perchè la creatività possa svilupparsi è necessario che l'oggetto "si lasci riparare".

Nell'esperienza di Munch questo percorso è stato in parte possibile, evidentemente in quanto non aveva a che fare solo con una madre "morta", ma anche con una madre "viva". Le tracce mnestiche grezze hanno trovato all'interno della sua mente la possibilità di essere trattenute non solo come in una cripta, nel senso in cui ne parlano Abraham e Torok (1987), ovvero come un lutto non elaborabile, ma anche come reliquia, oggetto virtuale e labile, che deve essere recuperato attraverso il lavoro del lutto. Come una pellicola fotografica impressionata non deve prender luce prima che il processo di sviluppo la abbia fissata in un'immagine utilizzabile per essere riprodotta, così la reliquia deve essere conservata al riparo da agenti che potrebbero distruggerla definitivamente, senza possibilità di recupero. Come osserva Fèdida: "La relique ... rappellerait que le deuil, avant de se concevoir en un travail, protège l'endeuillè contre sa propre destruction ... l'endeuillè n'a pas encore perdu son partenaire" (1978, p. 70). E' proprio sulla base di questa presenza viva che la creatività, il pensiero, possono svilupparsi attraverso il "lavoro del negativo" (Green, 1993), in cui il distacco dalla madre non generi quel vuoto incolmabile e infinito nel quale il Sè sprofonda, ma uno spazio di assenza "metaforica" (Green, 1980; Di Chiara, 1985) che stimola la funzione della memoria, della temporalizzazione e della simbolizzazione, ovvero gli elementi della creatività. E' in questo contesto, alla presenza dell'oggetto conservato vivo e con funzione di rèverie, che le tracce mnestiche grezze possono essere concepite come conosciuto non pensato, che in presenza dell'oggetto trasformativo possono essere integrate nel patrimonio del Sè (Bollas, 1989). La memoria così può avere la sua funzione strutturante nella crescita del Sè in quanto "la ripetizione ... possa essere pensata nei termini di un ricorso a categorie affettive già utilizzate" (Modell, 1990, p.95), che sono categorie che hanno a che fare con le modalità di cura della madre nei confronti del bambino, quindi categorie relazionali. In altri termini si può parlare di memoria allorchè vi è pensiero, in caso contrario si potrebbe parlare di "memorie come allucinazioni ". Nel recupero graduale dell'oggetto trasformativo, vivo e capace di rèverie, si può quindi passare "dall'allucinazione al sogno" (Ferro, 1988, 1992), in un percorso che permette di rendere tollerabile un dolore mentale fino a quel momento non contenibile. Come osserva Ferro: "l'allucinazione ... mi sembra recuperabile al pensiero, attraverso un percorso intersoggettivo, basato non tanto su una decifrazione interpretativa, quanto su operazioni di rèverie/trasformazione: queste ultime aventi di fronte le vere allucinazioni, per oggetto non il contenuto di queste, ma il panico, il terrore, la confusione a esse correlati" (1992, p. 124). La produzione artistica di Munch si pone programmaticamente di fronte al panico, al terrore, alla confusione, non simbolicamente attraverso un processo di occultamento da interpretare, ma tende a fare oggetto della sua rèverie il contenuto emozionale autentico del ricordo-allucinazione. Una intersoggettività si è quindi potuta costruire all'interno della sua mente, attraverso degli oggetti primari che hanno mantenuta viva la relazione con la "madre": la zia, la sorella Inger, e chissà quali altri.

Ciò che è stato possibile nella vita di Munch non sembra possibile nella storia di persone che hanno avuto vicende traumatiche simili, ma che divengono pazienti molto gravi. Questo diverso destino sembra in molti casi determinato dalla presenza svuotante della "madre morta", buco mentale che priva delle funzioni basali e minimali affinchè l'esperienza della separazione e dell'individuazione dall'oggetto primario divenga tollerabile. In quei casi in cui sembra veramente di trovarsi di fronte ad una situazione in cui l'oggetto materno non risulta riparabile, in quanto non ha mai sviluppato delle funzioni materne differenziate, capaci di contenere l'emozione, essa pertanto deve essere evacuata in uno spazio claustrofobico, il corpo, o agorafobico, legato alla sensazione di smembrarsi nel vuoto infinito, in ogni caso spazi lontani in maniera assoluta dalla pensabilità. Come ricorda Borgogno, il trauma "relega la relazionalità e la soggettività non nominate, non accolte e violate nel corpo... dove la paralisi della libido e della vitalità, per così dire spaventate e traumatizzate, vengono ad esprimere l'impotenza, il terrore, l'orrore e il dolore..." (1997, p. 281); qui si parla delle nevrosi di guerra studiate da Ferenczi, una situazione che comporta una vulnerabilità, una mortificazione che possono a buon titolo essere riportate regressivamente alla condizione di vulnerabilità del bambino. Queste situazioni così gravemente mortificanti, come anche quelle di cui ha parlato recentemente Ruth Barnett (1997), di separazioni e orrore innominabile, riguardante i bambini ebrei profughi in Inghilterra e drammaticamente separati dalle famiglie destinate all'eccidio, non abbisognano purtroppo solo di condizioni storiche particolari e, speriamo, irripetibili, ma possono riprodursi nella vita dei singoli, quando l'assenza di amore per la vita di certe condizioni di follia, si riversa anche sui figli. In quelle situazioni cliniche caratterizzate da disturbi del pensiero, quelle che Munch ha "schivato" attraverso la sua arte, l'esperienza mentale non può passare dall'allucinazione al sogno, trasformare gli elementi b attraverso una funzione a in oggetti pensabili, in primo luogo sognabili; questi restano come elementi indigeribili, in uno stato di scissione in cui l'esperienza viene registrata "da una parte del soggetto che 'sa e vede tutto' ma non sente; e un'altra parte che 'soffre' ma 'non capisce' ed è 'impotente' e 'inerme' nel suo muto dolore", come dice ancora Borgogno parafrasando l'eccezionale Ferenczi del Diario clinico. "Il ricordo è possibile soltanto se l'Io, sufficientemente consolidato (integrato o divenuto tale), resiste alle influenze esterne, ne subisce l'effetto che però non determina spaccature" (Ferenczi, 1932, p. 280); ovvero: per poter ricordare, inserire il ricordo in una trama temporale e narrativa, cioè storica, è necessario un mondo interno in cui gli oggetti che sostengono e permettono la funzione del pensiero, siano introiettati e conservati in uno spazio vivo e accessibile della mente (v. anche Ferro, 1996). Questa condizione interna credo che sia stata la chiave di volta della vita di Munch, quella che gli ha permesso attraverso lo schermo delle sue tele di non essere annientato nel vuoto della follia, in una tensione costante di lotta. Il dolore e l'angoscia che Munch esprime nella sua opera non hanno mai il carattere di una riflessione compiaciuta sulla propria miseria, un estetizzante rimestarsi in una condizione esistenziale ascetica. "L'ascesi deve consumare, distruggere, evacuare tutti i pensieri, tutti i desideri della creatura...L'annientamento ascetico è così radicale che si è potuto confonderlo con l'annientamento malinconico, senza vedere che tra questi due annullamenti la differenza è quella che separa la disperazione dalla speranza" (Starobinski, 1994). In Munch il dolore mentale è qualcosa che rappresenta sempre il frutto di un'esperienza, sofferta fino all'estremo, ma sempre tesa al legame e alla speranza di una sua ricostituzione.

 

Nota

Le illustrazioni dei dipinti di Munch sono presenti nei volumi indicati in bibliografia, e inoltre in diversi siti di internet:

www.museumsnett.no/nasjonalgalleriet
www.artchive.com
www.artonline.it
www.postershop.com
sunsite.sut.ac.jp
sunsite.unc.edu

 

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