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Il Sole di Stagno - Romanzo

 

Il Sole di Stagno - Vincenzo Aiello - con-fine ed. - Bologna, 2006

C'è qualcosa che accomuna questo racconto di Aiello al grandioso romanzo di Walter Siti, Troppi paradisi. Così lontani e tra di loro diversi, entrambi si sono proposti di tematizzare il tempo, fissandolo alla svolta del secolo e del millennio. Per narrare come storia la contemporaneità e la propria stessa esperienza, senza consegnarsi all'autobiografia, bisogna scegliere una lingua e giova inoltre (secondo me) una cornice esplicita di referenti cronologici. Che annunci subito il carattere del testo, di selettiva ricostruzione. Distante dal testo soggettivo della semplice memoria. È il problema che Aiello, nella sua prova d'esordio, ha in parte eluso, affidandosi ai soli dati interni. Quanto alla lingua invece, o meglio alla voce di scrittore, ha usato felicemente, la sua, che nella nuova generazione è una delle più personali.

Lidia De Federicis (L'Indice dei Libri) 

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"Palude? Il centro delle storie reflue di Pennacchi"

Post n°902 pubblicato il 31 Dicembre 2011 da VincenzoAiello68
 

Avevo già letto “Palude (Donzelli, 1995)” dello scrittore di Littoria-Latina Antonio Pennacchi, che allora aveva il sottotitolo, “Storie d’amore, di spettri e di trapianti”. Era stata una folgorazione. Ma l’avevo letto da un’amica e non ne possedevo copia. Ora un’altra amica mi ha regalato l’edizione Dalai in commercio “Palude (pagg. 238, euro 17.50)” e me lo sono riletto. Premetto che io ho una simpatia anche per l’uomo Pennacchi che ha veramente fatto l’operaio, che si è veramente laureato, che quando va alle presentazione s’incazza ancora come un operaio anche se ha una cultura umanistica che io sento solida e passionale. Non mi affascina molto – pur essendo io di sinistra – il giochetto fascista? , comunista? , fascio comunista? , che si fa sullo scrittore. Quando leggo i libri io penso alla storia ed alla lingua. E, “Palude”, è proprio, come recita il nuovo sottotitolo Dalai – “Dove tutto ha avuto inizio” – la costituzione repubblicana formale e sostanziale della narrativa pennacchiana. Ci sono autori anche molto famosi e molto letti che basano le loro novelle su storie asfittiche: a Pennacchi, invece, le storie gli scappano dalle mani. La lingua? Quest’impasto alto-basso, popolare-colto, è paragonabile solo ad altri esperimenti letterari: a Camilleri ed al suo vigatese, e se mi permettete – sono anche napoletano – a quell’esperimento linguisticamente fine sul piano del dialetto che ha fatto Pietro Treccagnoli in “Non lo chiamano veleno (Avagliano, 2006)”. Altro non so dirvi, se non che leggere Pennacchi mi fa ridere, piangere e riflettere sul nostro sventurato Paese che ha però anche un popolo lavoratore che capisce e che a volte produce anche collettori di storie, postmoderni Omero.

Vincenzo Aiello   

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Commenti al Post:
luigiderosa1
luigiderosa1 il 02/01/12 alle 18:55 via WEB
Anche se è superfluo, bella recensione Vincenzo.
 
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