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Yo Yo Mundi - Munfrà

Post n°137 pubblicato il 03 Settembre 2011 da syd_curtis
 


"Sto ascoltando dal mio Monferrato (l'unico per noi astigiani) detto basso (ma sono questioni che riguardano il corso del fiume) questo magnifico disco degli YoYo Mundi dedicato a queste terre (loro e mie). Sto apprezzando la tristezza colorata che hanno queste canzoni, in cui il frequente uso del tono minore (questione che riguarda l'armonia) non crea tristezza e abbandono, ma danza continua di luce e ombra. Come danzava ai bei tempi il Monferrato, pieno di storie e tipi di ogni genere, piemontese, lombardo e ligure, cosmopolita e ricco di grano e rugiada, opulento come una bella polenta, con strade piene di miraggi e incantesimi. Su questi antichi sobbalzi in due quarti e tre quarti, gli Yo Yo hanno lavorato con eccellenti orchestrazioni che infiammano e corteggiano la scatola magica, la fisarmonica, torre di Babe e regina di Saba"

(Paolo Conte)

 

Tristezza colorata e polenta opulenta. Si potrebbe chiuderla qui, rimandando semmai all'ascolto di Léngua ed ssu, lingua di sole, un valzerino in tre quarti che fa ridere e piangere, summa tenerissima di ciò che si può trovare in Munfrà. La si dovrebbe chiudere qui, perché del resto che altro aggiungere alle parole del Maestro di Asti, asciutto, preciso, lontano lontano dalla retorica che incatena le tante recensioni di questo album degli Yo Yo Mundi reperibili in rete.

Non c'è modo, credo, di raccontare un territorio se non sfiorandolo con la sua propria lingua, o quel che ne è rimasto, e con gli strumenti della musica popolare (anche qui, quel che ne è rimasto). Altre parole incancreniscono, fanno dolciastro, tirano in ballo cose - la poesia della vita contadina-il ritmo delle stagioni-i segugi che rincorrono le prede e via affastellando luoghi comuni su luoghi comuni - che non appartengono a questo album e agli YYM. E' tristezza colorata, come scrive Conte, uno sguardo che sfiora e allude, soprattutto là dove si nasconde nel dialetto, nella fisarmonica; musica che pare uscita da un'osteria, in un giorno di festa, verrebbe da dire sottovoce.

Lo dico sommessamente, sconfessando(mi): non so nemmeno quanto tutto ciò sia rappresentativo del Monferrato o non piuttosto proiezione nostalgica di uno stato d'animo, rievocazione struggente di ciò che non è più (e probabilmente non è mai stato, non in questa forma). E' tale la distanza che separa questi tempi nostri dal mondo di polenta e fisarmonica, che ognuno ha sentito raccontare dai nonni, che a tratti pare tutto fantasmatico, incantesimo, poesia di carta velina. Tra il poeta e la realtà c'è sempre na bela corba ed niule. Mi scappa da soffiarmi il naso, vabbè. L'attacco di léngua ed ssu mi straccia il cuore, lo giuro, fratelli.

«È come una lingua di sole, che lecca la piana come la bagna addormentata sul peperone. È un tuono lontano che percuote il mio cielo, una carezza sul pelo, un colpo di cannone. Chiedi a questa terra quali erano i cani e quali i padroni e chi erano le madri e chi i pasticcioni... Chiedi a questa lacrima quali erano i grappoli che non hai masticato e a questa strada di polvere dove sono finiti i passi che non hai danzato».

 
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