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Cercate Dio, fonte di vita!

Post n°1336 pubblicato il 19 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Il dolore e la sofferenza, guardati nella prospettiva di Cristo il risorto, rinvigoriscono la fede. Non è vero che il dolore sia rassegnazione, inerzia e abbandono a se stessi, ma al contrario vissuti nella speranza del ritorno del Cristo Gesù, assumono un valore altissimo, di redenzione e salvezza, per se stessi e per l’intero genere umano. E questo risulta tanto vero quanto crediamo alle sacre scritture, ad esempio il libro di Giobbe, dove si descrive la sofferenza di un uomo giusto, non colpevole, credente e fedele a Dio. Come leggere dunque il dramma umano della sofferenza alla luce della fede? È questo il tema centrale del libro di Giobbe, che grida il suo dolore per la sua immane sofferenza, mentre nel Vangelo si possono leggere della “reazioni di guarigione” da parte di Gesù quando gli portano «molti individui affetti da varie malattie». Perché la sofferenza avvicina a Dio, Gesù avrebbe potuto evitare, in quanto figlio di Dio la sofferenza, lo domandò nell’orto degli Ulivi, ma alla fine obbedì alla volontà del Padre suo.

 Tutto il libro di Giobbe mostra che è legittimo, eccome, gridare la propria sofferenza e la propria rabbia per il male che si vive. Giobbe arriva quasi a bestemmiare Dio per le sue sofferenze, contestando i suoi amici religiosissimi, che gli predicavano rassegnazione e obbedienza alla "volontà di Dio". E, alla fine del libro, Dio sanzionerà che solo Giobbe ha detto cose rette di lui (cfr. Gb 42,7).

La fede non comporta l'accettazione supina e vittimale di ogni tipo di sofferenza, non sarebbe possibile, non sarebbe umanamente possibile. Mai, nella Bibbia, si dice che Dio mandi le sofferenze, anzi, meglio, che "si serva" di esse per far capire qualche cosa all’essere umano. In molte espressione dei Salmi, preghiere modello della fede, l'essere umano "si sfoga" spessissimo con Dio per il dolore che sta patendo; come si fa, in genere, con le persone care più vicine e intime. In fondo rappresenta un appello al Signore per sentirsi tenuti per mano da Lui quando si patisce, quando si versano lacrime, un desiderio ardente di sentirlo vicino: è questo il sollievo che cerca ciascun individuo credente. Quindi non solo Giobbe, ma anche altri abbondanti testi biblici insistono nel mostrarci che la fede vera non patetica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che ci avvicini di più a Dio. Stupisce che, dopo tanti secoli, ancora oggi sia radicata una certa convinzione e una certa predicazione che ci sia in qualche modo Dio dietro al male che si soffre. Invece, Dio è amore, tutto e solo bene, e vita che splende, gioia che risuona nei cuori: non è in grado in nessun modo di concepire qualcosa di negativo, nemmeno come mezzo: patì Lui, purché non patissero i suoi figli, questo è il senso della croce di Gesù.

Anche Gesù non ha mai dato valore positivo al dolore. Di fronte alla sofferenza umana ha sempre mostrato tanta compassione - fino alle lacrime - e tanto impegno nel volerla sconfiggere: attraverso i segni di guarigione. I credenti venivano da Lui esonerati dal soffrire, attraverso i miracoli. Gesti che assumono dunque valore programmatico, perché costituiscono i primi segni del suo annuncio del Regno: per umanizzare l'uomo, Gesù viene a liberarlo dalla sofferenza, per coloro che in Lui confidano, non a schiacciarli nella rassegnazione.

«Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni»: Gesù non è venuto ad opprimere l'uomo con nuove pretese religiose, ma a liberarlo dai mali, fisici e interiori, che lo fanno soffrire.

Ci capita di ascoltare spesso la frase: «Nel mondo c'è più sofferenza che peccato». Anche oggi il Figlio di Dio vuole farsi presente e all'opera dove più c’è l'esistenza dell'uomo: nelle sue ferite. Egli vuole aprire i cuori degli uomini perché si facciano suoi occhi, suo cuore, sue mani nei confronti di chi soffre: i samaritani del buon Samaritano, perché nessuno rimanga abbandonato lungo la strada a soffrire. Per questo i cristiani devono essere cittadini del mondo: laddove c'è la pena di un uomo, lì si è di casa, perché lì c'è l'appello del Signore a farsi prossimi, lì si può ascoltare la sua voce a vivere la carità e si vede la sua volontà di cura, non di promuovere la sofferenza.
Oggi c'è poca fede non perché sono vuote le chiese, ma perché si svuotano i cuori. Infatti non esiste più neppure la compassione: Dio non vuole la sofferenza dell'uomo, ma quanti uomini vogliono la sofferenza di altri uomini come loro, magari per superficialità ed egoismo!

Gesù non si prodiga incessantemente nella guarigione dei malati. Esiste un limite alla sua attività di guarigione. Il primo è la necessità di attingere forza dal rapporto orante con il Padre, senza del quale anche le opere più significative diventano vuoto attivismo. Soprattutto oggi, che i pastori devono occuparsi di più comunità, si rischia di farsi prendere ed espropriare dalle molte cose da fare. C'è da ricordare che Gesù, prima di guarire la suocera di Pietro, le si è avvicinato e l’ha fatta alzare prendendola per mano: la cosa più importante è il contatto personale con le persone, farle sentire che in quel momento si è del tutto per loro, e non con il pensiero rivolto già alle prossime cose da fare. Questo contatto personale ha una forza di guarigione più grande della moltiplicazione delle Messe per non scontentare nessuno. Gesù inoltre si sottrae al rischio di diventare il semplice fornitore di miracoli di guarigione. Egli può prendersi cura dell'uomo perché si prende cura del suo rapporto con il Padre, da cui trae la forza necessaria che è l'amore. Solo così i gesti che Egli compie non rappresentano semplice soddisfazione del bisogno dell'uomo, ma segni della vicinanza di Dio all'uomo e alla sua condizione di sofferenza: diventano "sacramenti", che indicano, dentro i gesti umani più belli della cura dell'altro, la tenerezza di Dio per la fragilità delle sue creature e dei suoi figli.

 

 
 
 
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