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« Er Cicerone concrude ...'A ciospa »

Er giorno der giudizzio

Er giorno der giudizzio

Però stateve attenti, gente mia,
Chè Iddio dar paradiso vede tutto,
E un giorno o l'antro che je pija in brutto,
Manna un diluvio e fa 'n'antra lescìa.

Non v'illudete si oggi er cielo è asciutto,
Perchè sta scritto ne la profezzia,
Che doppo la venuta der Messia,
'Sto monno porco deve annà' distrutto.

Se riapriranno abbissi e cataratte,
E andremo tutti quanti a precipizzio
Ne la valle der santo Giosafatte.

Lì, senza comprimenti, er Padreterno,
Ar sono de le trombe der Giudizzio,
Ce spedirà diretti giù a l'inferno.

Antonio Muñoz
L'Arca de Noè - Poemetto romanesco
Staderini Editore - Roma 1940
Sonetto XXVIII, pag. 38

Note [VS]:
Lescìa
[Belli]: Liscìa. Lisciva, ranno.
[Ravaro]: v. Liscìa. Lisciva, ranno, acqua bollita con cenere ed usata per imbiancare il bucato. Dal lat. lixivia.
Castelletti: Haio fornito de iettà la liscìa su la tinozza.
Berneri: Glie sa il capo lavà senza liscìa.
Zanazzo: Er callaro / de la liscìa co' 'n chilo de sapone.
Zanazzo: Porta via 'gni cosa come la lescìa. (Usi, costumi e pregiudizi dei romani, Parte II medicina popolare, 1. Come uno s'accorge che stà pper ammalasse: "De tutte le purghe, la ppiù mmèjo perché llava lo stommico, sbòtta, e pporta via 'gni cosa come la lescìa, è ll'ojo de rìggine."
[Vaccaro Ge, Voc.ro.Bell.]: (lat. lixivia, da lixia aqua, acqua bollita) n.f. Lesciva, Lisciva. Ranno. Nel seicento, liscia: Trista mine, che voglio fare? Forze che era bella forte quella liscia (C. Castelletti, Stravaganze d'amore, atto I, sc. 4); Lasseme jire a fornì de jettà quella poca liscia su lo cenneraccio (C. Castelletti, Stravaganze d'amore, atto II, sc. 12); Che se fà tanta puzza e sverniaria. Gli sa el capo lavà senza liscia (Berneri, Meo Patacca, IV, 48). Prov. Chi fa bene ar zomaro ce sprega lescia, tempo e sapone.
[Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani.]: liscìvia e liscìva: rum. lesie; prov. leissius; fr. lessive; cat. lleixu; sp. lesia: port. lixivia: =lat. lixivia da lix - genit. licis - acqua mista a cenere, che si riconnette a lixa antico nome dell'acqua: dalla stessa radici di liquidus, liquido (v. Liquido e cfr. Lesso). Ranno, ossia Dissoluzione alcalina, che serve a imbiancare i panni e si prepara facendo passare l'acqua calda sopra uno strato di cenere di legna o di soda. Deriv. Liscivàre; Liscivazione; Lisciviàle.
[Voc. Treccani]: liscìvia (pop. lisciva, ant. liscìa, region. lìscia, nel sardo di Gallura e in alcune zone del Veneto, dov'è pronunciata lìssia) s. f. [lat. lixivia, pop. lixiva, der. di lixa «ranno»]. - 1. Nell'uso com. in passato, la soluzione ottenuta trattando con acqua bollente la cenere di legno o di carbone di legna che, per il suo contenuto di carbonato di sodio e di potassio, era usata, prima dell'introduzione delle lavabiancheria per uso domestico e della diffusione dei moderni detersivi, come detergente per lavare i panni (sinon. di ranno): mettere la biancheria nella l.; anche, l'operazione stessa, o la sua preparazione, e il lavaggio dei panni con tale metodo: fare la liscivia. 2. Con sign. più tecnici: a. L. caustica, o dei saponi, soluzione più o meno concentrata (in genere al 33% circa) di idrossido di sodio o di potassio. b. L. detersiva o da bucato (o semplicem. liscivia), miscela di carbonato sodico e sapone, anche con perborato o perossido di sodio (a volte però il sapone manca del tutto). c. Nome dato impropriam. talora a soluzioni contenenti deboli percentuali di ipocloriti, usate per il candeggio dei tessuti.
liscìa s. f. - Forma ant. per liscivia (che diventa lìscia nel Veneto - dov'è localmente pronunciata lìssia - e nel sardo di Gallura).
ranno s. m. [voce di origine germ.]. - Soluzione o miscuglio di cenere di legno e acqua bollente, usati, soprattutto nel passato, come detergente per lavare i panni (è parola diffusa soprattutto in Toscana): fare il bucato col r.; mettere la biancheria nel r.; r. vergine, quello ottenuto con acqua non bollente passata su cenere vagliata e che s'adopera per lavare panni fini. Comune ancora il modo prov. perdere, o buttar via, o gettar via il r. e il sapone, perdere il tempo e la fatica: è inutile cercare di correggerlo, c'è da buttar via il r. e il sapone; chi lava il capo all'asino, perde il r. e il sapone (prov.).
T1-0369, Er marito stufo: "si ffussi un'antro in de li panni mia, / te vorebbe lavà ssenza lesscia / cuer cucuzzone sempre impimpinato." (S-0367)
T1-0972, Er peccato origginale: "E la cosa è bbenissimo aggiustata. / Nun aveva bbisoggno de lesscía / chi nnascé ccome un panno de bbucata."
T2-1160, La donna fregàle: "Oh a ppranzo sí, er mi' piatto me lo voto / che cce pare passata la lesscía: / a ppranzo sò davero un terremoto."
T2-1471, La lavannara: "Credete puro che la cosa è stata / pe vvia de la lesscía che mme l'ha incotti."
T2-1576, La ficcanasa: "Lavà la testa all'asino è l'istesso / che spregacce lesscía, tempo e ssapone. // Voi me parete a mmé ccome li preti," (S-1574)
T2-1897, Chi la fa, l'aspetta: "«Nun vedete? è ggià bbell'e ppreparata / la callàra pe bbulle la lesscía». / «Dico perché cciò un po' de bbiancheria..." (S-1862)
T2-2153, Er padrone scoccia-zzarelli: "E cche, pper dio!, sò ddiventato un vermine, / cenneraccio, lesscía, fanga, monnezza!..."
Lettera a G.B. Mambor, 1829: "Che già, come dice quello? lava la testa ar zomaro, ce perdi la lescìa e er zapone".
Zanazzo - Usi, costumi e pregiudizi dei romani, Parte II Usi, costumi, credenze, leggende e pregiudizi del popolo di Roma, 79. La novena a San Pantaleone: "Ma azzeccatece un po'? Doppo morta lei, er marito nun trovò de dietro a la tinozza de la liscìa, un pezzo de carta co' ttre nnummeri lampanti, che er sabbito appresso uscirno tutt'e ttre ccom'un razzo?!".
Antonio Muñoz, L'Arca de Noè, Er giorno der giudizzio: "E un giorno o l'antro che je pija in brutto, / Manna un diluvio e fa 'n'antra lescìa. // Non v'illudete si oggi er cielo è asciutto,"

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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