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« Eccavolo se aveva ragione!Quale dei due? »

De claris mulieribus 12

Post n°1870 pubblicato il 27 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

CAPITOLO XII.
Tisbe donzella di Babilonia.

Tisbe, vergine di Babilonia, diventò famosa fra gli uomini più per lo fine dello sciagurato amore, che per altra opera. E benchè noi non possiamo avere ajuto da’ nostri passati di che parentado questa sia nata, fu nondimeno creduto, che ella fusse vicina congiunta in Babilonia di Piramo, giovanetto di sua etade. I quali per la vicinanza vivendo insieme continuamente, adoperò in quelli, essendo fanciulli, la puerile affezione che per iniqua fortuna, crescendo gli animi, eglino diventati bellissimi, crebbe in grandissimo ardore, e quello in sè mostravano ancora con cenni alcuna volta, sopravvenendo la maggiore etade. È certo, essendo già grandicella Tisbe, cercando i parenti maritarla, cominciarono a tener quella in casale comportando questo amendue molto gravemente, e cercando sollecitamente per che via almeno potessero parlare alcuna volta insieme, trovarono in una parte nascosa della casa una fenditura di parete non veduta per infino allora da alcuno, alla quale fenditura andando nascosamente amendue più volte per usanza, favellando alquanto insieme, per la parete che era in mezzo, non vergognandosi, allargavasi la licenzia di manifestare la sua intenzione, sicchè spesse volte manifestarono i sospiri, le lagrime, i desiderj, e tutte le loro passioni: alcuna volta pregavano per la pace de’ suoi animi: abbracciandosi, baciavansi con pietà, fè, e perpetuo amore. Ma finalmente crescendo l’ardore, cominciarono a fuggire, e determinarono nella seguente notte ingannare i suoi, e uscirsi di casa, e andare a un bosco presso alla città ad una fonte presso alla sepoltura del re Nino e che aspettasse quello che andasse più tardi. Tisbe, forse più calda di amore, ingannò i suoi; con un mantello addosso sola di mezzanotte uscì fuori prima, e facendole lume la luna, andò senza paura a quel bosco, e spettando presso alla fontana, levando sollecita la testa per ogni movimento di cose, fuggì per uno lione che veniva alla fontana, lasciando per disavventura il mantello. Lo lione pasciuto, poi che ebbe bevuto, trovò lo mantello, stracciollo con le unghie, e lasciollo alquanto insanguinato, e partissi. In quel mezzo similmente Piramo uscito di casa arrivò al bosco, e trovò lo mantello, e stando attento per la tacita notte, e vedendo quello stracciato; pensò che Tisbe fusse stata divorata da quella fiera, e con molto pianto rinsonava in quel luogo chiamandosi misero, essere stato cagiona di crudel morte all’amata fanciulla; e dispregiando vivere più, tratta fuori la spada, ch’egli avea portata con seco, disposto morire presso alla fontana, alla quale esso era già presso, se la ficcò nel petto. Istante Tisbe pensando che lo lione fosse partito, e avesse bevuto, acciocchè non paresse avere ingannato l’amante, per non tenere quello sospeso in aspettare, pianamente cominciò a tornare alla fontana. Alla quale essendo già presso, sentendo Piramo ancora sbattersi, impaurita poco meno tornò addietro. E finalmente per lo lume della luna s’accorse che egli era lo suo Piramo, e andata correndo ad abbracciarlo, trovò quello giacere nel sangue che era uscito dalla ferita, e già essere allo estremo della morte. La quale, come ella lo vide, dapprima impaurita, finalmente trista, con grandissimo pianto sforzossi indarno di darli aiutorio, e baciandolo e abbracciandolo per lungo spazio, ma non potendo torgli alcuna parola, e sentendo che non apprezzava i baci, poco d’innanzi desiderati con tanto ardore, e vedendolo morto finire, pensò, ch’egli fusse morto perchè non l’avesse trovata, e disposesi all’acerba morte con l’amato giovane, confortandola insieme l’amore e il dolore. E tratta la spada della ferita, con grandissimo lamento chiamò lo nome di Piramo, e pregollo almeno, che guardasse la sua Tisbe alla morte, che egli aspettasse la sua anima nel partire, acciocchè fussino insieme in qualunque parte, o sedie dove eglino andassero. E (che maraviglia è a dire) lo intelletto di quello mancando, sentì la voce dell’amata fanciulla, e non comportando, ovvero non potendo negare l’ultima dimandagione, aperse gli occhi aggravati da morte, guardando quella che il chiamava. La quale subito si lascia cadere sopra lo coltello di quel giovine, e sparto lo sangue, seguì l’animo di quello che era ferito. E così l’odiosa fortuna non potè vietare che lo infelice sangue d’amendue si mischiasse insieme, la quale non aveva comportato che si giugnessero insieme con piacevole abbracciare. E chi non avrà compassione a quei giovani, chi non darà almeno una lagrima a sì infelice morte, sarà di pietra. Quegli si amarono in puerizia, e per questo non meritarono isciagurata morte; perchè peccato di giovanile etade non è orribile peccato per quelli che sono isciolti di matrimonio, il quale poteva seguire; e forse peccarono i miseri parenti. Appoco appoco per certo si debbono frenare le volontà degli uomini, acciocchè, volendo contrastare al subito suo imperio, non si sospingano per disperazione a pericolo. La passione desiderosa e senza temperanza, è quasi come una pestilenzia e un tormento de’ giovani, nei quali certamente egli si dee portare con paziente animo; perchè, volendo così la natura delle cose, avviene questo infino che noi siamo forti per la etade, quando noi ci pieghiamo ad avere figliuoli; acciocchè l’umana generazione non manchi, indugiando lo ingenerare alla vecchiezza.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 
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