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Il Malmantile racquistato 07-1

Post n°1796 pubblicato il 29 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

SETTIMO CANTARE.

ARGOMENTO.

Paride, dopo aver molto bevuto,
Entra d'andar al campo in frenesia;
E come il sonno avea pel ber perduto,
Perde nel gir di notte anche la via.
Cade in un fosso, onde a donargli aiuto
Corron le Fate, e gli usan cortesia;
Vien condotto in un antro, e per diporto
La storia gli è narrata di Magorto.

1
Vino tempera te, disse Catone,
Perchè si dee berne a modo e a verso;
E non come colà qualche trincone,
Che giorno e notte sempre fa un verso;
Ond'ei si cuoce, e perchè ci va a Girone (763),
La favola divien dell'universo:
E vede poi, morendo in tempo breve,
Ch'è ver, che chi più beve, manco beve.

2.
Se il troppo vino fa che l'uom soggiace
A tal error di tanto pregiudizio,
Chi non ne beve, e quello a cui non piace
A questo conto dunque ha un gran giudizio;
Anzichè no (764), sia detto con sua pace,
Perch'ogni estremo finalmente è vizio;
E se di biasmo è degno l'uno e l'altro,
Questo (765) ha il vantaggio, al mio parer, senz'altro.

3
Perchè se quel s'ammazza e non c'invecchia
Ed è burlato il tempo di sua vita,
Almen sente il sapor di quei ch'ei pecchia (766),
E tien la faccia rossa e colorita.
Burlar anche si fa chi va alla secchia,
E insacca senza gusto acqua scipita,
Che lo tien sempre bolso e in man del fisico,
Il qual l'aiuta a far morir di tisico.

4.
Però sia chi si vuole, egli è un dappoco
Chi 'mbotta al pozzo come gli animali;
S'avvezzi a ber del vino appoco appoco,
Ch'ei sa, che l'acqua fa marcire i pali;
Ma, com'io dico, si vuol berne poco:
Basta ogni volta cinque o sei boccali:
Perch'egli è poi nocivo il trincar tanto,
Com'udirete adesso in questo Canto.

5.
Omai serra gli ordinghi e le ciabatte
Chiunque lavora e vive in sul travaglio,
E difilato a cena se ha batte
A casa, o dove più gli viene il taglio.
Chi dal compagno a ufo il dente sbatte;
Tanti ne va a taverna, ch'è un barbaglio (767);
Parte alla busca; e infin, purchè si roda,
Per tutto è buona stanza, ov'altri goda.

6.
E Paride (768), ch'anch'egli si ritrova
A corpo voto in quelle catapecchie,
D'Amor chiarito figlio d'una lova (769),
Che svaligiar gli ha fatto le busecchie (770),
Dice al villan: Va' a comprarmi dell'uova,
Ecco sei giuli, tônne ben parecchie;
Piglia del pane, e sopra tutto arreca
Buon vino, sai! non qualche cerboneca (771).

7.
E se t'avanza poi qualche quattrino,
Spendilo in cacio; non mi portar resto.
Messer sine, rispose il contadino,
Io torrò, s'io ne trovo, ancor cotesto.
E partendo gli ride l'occhiolino,
Sperando (772) aver a far un po' d'agresto;
Ma facendo i suoi conti per la via,
S'accorge ch'e' non v'è da far calía (773).

8.
All'oste se ne va per la più corta,
E l'uova, il pane, e 'l cacio, e 'l vin procaccia
E fatto un guazzabuglio nella sporta,
Le quattro lire slazzera (774) e si spaccia.
L'altro l'aspetta a gloria, e in sulla porta,
Per veder s'egli arriva, ognor s'affaccia;
E per anticipare, il fuoco accende,
Lava i bicchieri e fa l'altre faccende.

9.
Perch'egli è tardi ed ha voglia di cena,
Poích'ogni cosa ha bell'e preparato,
Si strugge e si consuma per la pena,
Che lì non torna il messo nè il mandato;
Ma quand'ei vedde colla sporta piena
Giunger al fine il suo gatto frugato (775).
Oh ringraziato, dice, sia Minosse,
Ch'una volta le furon buone (776) mosse.

10.
Chiappa le robe, e mentre ch'ei balocca
In cuocer l'uova, e il cacio ch'è stupendo,
Sente venirsi l'acquolina in bocca,
E far la gola come un saliscendo.
Sbocconcellando intanto, il fiasco sbocca,
E con due man alzatolo, bevendo,
Dice al villan, che nominato è Meo
Orsù ti fo briccone (777), addio, io beo.

11.
Così per celia cominciando a bere,
Dagliene un sorso e dagliene il secondo,
Fe sì, che dal vedere (778) e non vedere
Ei diede al vino totalmente fondo.
A tavola dipoi messo a sedere,
Lasciato il fiasco voto sopra il tondo,
Voltossi a' dieci pan da Meo provvisti,
E in un momento fece repulisti.

12.
Dieci pan d'otto, e un giulio di formaggio
Non gli toccaron l'ugola: e s'inghiotte
Due par di serque (779) d'uova e da vantaggio;
Poi dice: o Meo, spilla quella botte
Che t'hai per l'opre, e dammi il vino assaggío;
Io vo' stasera anch'io far le mie lotte (780),
Bench'io stia bene, sia ripieno e sventri (781),
Perchè mi par ch'una lattata (782) c'entri.

13.
Il rustico, che dar del suo non usa,
Non saper, dice dove sia il succhiello;
Che per casa non v'è stoppa nè fusa,
E che quel non è vin, ma acquerello.
Ci vuol, risponde Paride altra scusa.
E rittosi, di canna fa un cannello;
E in sulla botte posto a capo chino,
Con esso pel cocchiume succia il vino.

14.
E perch'è buono, e non di quello il quale
È nato in sulla schiena (783) de' ranocchi,
A Meo, che piuttosto a carnovale
Che per l'opre lo serba, esce degli occhi,
E bada a dire: ovvia! vi farà male;
Ma quegli, che non vuol ch'ei lo 'nfinocchi,
Ed è la parte sua furbo e cattivo,
Gli risponde: oh tu sei caritativo!

15.
Non so, se tu minchioni la mattea (784),
Lasciami ber, ch'io ho la bocca asciutta;
Che diavol pensi tu poi ch'io ne bea?
Io poppo poppo, ma il cannel non butta.
Risponde Meo: poffar la nostra Dea
Che s'ei buttasse, la beresti tutta;
Oh discrezione! s'e' ce n'è minuzzolo.
Paride beve, e poi gli dà lo spruzzolo.

16.
Non vi so dir se Meo allor tarocca.
Ma l'altro, che del vin fu sempre ghiotto,
Di nuovo appicca al suo cannel la bocca,
E lascia brontolare. e tira sotto;
Ma tanto esclama, prega, e dàgli, e tocca,
Ch'ei lascia al fin di ber, già mezzo cotto;
Dicendo, ch'ei non vuoi che il vin lo cuoca;
Ma che chi lo trovò non era un'oca.

17.
Poichè dal cibo e da quel vin che smaglia
Si sente tutto quanto ingazzullito,
Risolve ritornare alla battaglia,
Donde innocentemente s'è partito
Chè scusa non gli pare aver che vaglia
Che non gli sia a viltade attribuito.
Così ribeve un colpettino, e incambio
D'andare a letto, s'arma e piglia l'ambio.

18.
Senza lume nè luce via spulezza (785),
E corre al buio, che nè anche il vento:
Non ha paura mica della brezza,
Perch'egli ha in corpo chi lavora drento;
Per la mota sibben si scandolezza,
Chè, dando il cul in terra ogni momento,
Quanto più casca e nella memma pesca,
Tanto più sente ch'ell'è molle e fresca.

19.
Dopoch'ei fu cascato e ricascato,
Per non sentir quel molle e fresco ancora,
Chè'l vino, e quanto dianzi avea ingubbiato,
Opra di dentro sì ma non di fuora,
Giunto al mulin, dal mezz'in giù sbracciato
Si sciaguatta (786) i calzoni in quella gora,
Per dopo nella casa di quel loco
Farsegli tutti rasciugare al foco.

20.
Mentre si china, dando il culo a leva,
E' fece un capitombolo nell'acqua;
Ond'avvien ch'una volta ei l'acqua beva
Sopra del vin, che mai per altro annacqua.
Quanto di buon si è, che s'ei voleva
Lavare i panni, il corpo anche risciacqua:
E divien l'acqua sì fetente e gialla,
Che i pesci vengon tutti quanti a galla.

21.
Le regole ben tutte a lui son note,
Che insegnò, per nuotar bene, il Romano (787):
Distende il corpo, gonfie fa le gote.
Molto annaspa col piede e colla mano.
Intanto si conduce fra le ruote,
Che fan girando macinare il grano;
Ben se n'avvede, e già mette a entrata (788)
Di macinarsi, e fare una stiacciata.

22.
In questo che il meschin già si presume
D'andar a far la cena alle ranocchie,
Aprir vede una porta, e in chiaro lume
Sventolar drappi e campeggiar conocchie;
Chè le Naiadi ninfe di quel fiume,
Coronate di giunchi e di pannocchie (789),
Corrono ad aiutarlo, infin ch'a riva.
Là dove il dì riluce in salvo arriva.

23.
E vede all'ombra di salcigne, frasche,
Fra le più brave musiche acquaiuole (790),
Parte di loro al suon di bergamasche (791),
Quinte e seste tagliar le capriuole.
Chi tien che queste ninfe sien le lasche,
Chi le sirene ed altri le cazzuole (792).
Io non so chi di lor dia più nel buono,
E le lascio nel grado ch'elle sono.

24.
Ognun si tenga pure il suo parere;
O quelle o altre, a me non fa farina (793).
Bastivi per adesso di sapere
Che queste non son bestie da dozzina;
E s'ella non m'è stata data a bere,
Elle son Fate c'han virtù divina;
E che sia il vero, fede ve ne faccia
Il Garani scampato dalla stiaccia.

25.
Il quale così molle e sbraculato (794)
Il cadavero par di mona Checca (795),
Ch'essendo stato allor disotterrato,
Abbia fatto alla morte una cilecca (796).
Si scuote e trema sì, ch'io ho stoppato (797)
Per San Giovanni (798) il carro della Zecca;
E mentr'ei si dibatte e il capo serolla,
Il pavimento e i circostanti ammolla.

26.
Ma le Fate, che specie son di pesce
Ed hanno il corpo a star nell'acqua avezzo,
Più che l'esser bagnate a lor rincresce
Il vederlo così fradicio mezzo;
Perciò lo spoglian; ma perchè riesce,
Quando un vuol far più presto, stare un pezzo,
Per trattenerlo, mentr'or questa or quella
L'asciuga, una contò questa novella.

27.
Furo un tratto una dama e un cavaliero
Moglie e marito, in buono e ricco stato,
Che fatti vecchi contro ogni pensiero,
Dopo d'aver qualche anno litigato
La grinza pelle con un cimitero,
Convenne loro al fin perdere il piato,
E senza appello aver a far proposito
Di dar per sicurtà l'ossa in deposito.

28.
Lasciaron due figliuoli, i più compiti
Che 'l mondo avesse mai sulle sue scene;
Perch'essi avevan tutt'i requisiti
Dovuti a un galantuomo e a un uom dabbene;
Aggiunto che di soldi eran gremiti
(Chè questo in somma è quel che vale e tiene);
Stavan d'accordo in pace ed in amore.
Ed eran pane e cacio, anima e cuore.

29.
Cosa che fare in oggi non si suole,
perchè i fratelli s'han piuttosto a noia:
E se lor han due cenci o terre al sole,
All'un mill'anni par che l'altro muoia.
E questo è il ben ch'al prossimi si vuole!
E siam di così perfida cottoia,
Che sebben fosser anche al lumicino,
E' non si sovverrebbon d'un lupino.

30.
Perch'e' sono una man di mozzorecchi;
Al contrario costor, di chi io favello,
I quai di cortesia furon due specchi
E trattavan ciascun da buon fratello,
S'avrebbon portat'acqua per gli orecchi.
E si servian di coppa (799) e di coltello:
E per cercar dell'uno il bene stare,
L'altro voluto avrebbe indovinare.

31.
Essendo un giorno insieme ad un convito.
Quand'appunto aguzzato hanno il mulino (800)
E mangian con bonissimo appetito,
Non so come, il maggior detto Nardino.
Nell'affettar il pan tagliossi un dito,
Sicch'egli insanguinò il tovagliuolino;
E parvegli sì bello a quel mo intriso,
Ch'ei si pose a guardarlo fiso fiso.

32.
E resta a seder lì tutto insensato,
Ch'ei par di legno anch'ei come la sedia;
Può far, tanto nel viso è dilavato,
Colla tovaglia i simili (801) in commedia.
E mirando quel panno insanguinato
Ormai tant'allegria muta in tragedia;
Mentre nel più bel suon delle scodelle
Si vede ognun riposar le mascelle.

33.
E tutti quei che seggon quivi a mensa,
i servi, i circostanti ed ogni gente,
Corrongli addosso, chè ciascun si pensa
Che venuto gli sia qualch'accidente;
Nè sanno che il suo male è in quella rensa (802),
Com'appunto fra l'erba sta il serpente;
Rensa non già, ma lensa (803), onde il suo cuore
Preso al lamo col sangue aveali Amore.

34.
Che gli par di veder, mentre in quel telo
Contempla in campo bianco i fior vermigli,
Un carnato di qualche Dea di cielo
Composta colassù di rose e gigli.
E sì gli piace, e tanto gli va a pelo.
Che finalmente, mentrech'ei non pigli
Una moglie d'un tal componimento.
Non sarà de' suoi di mai più contento.

35.
E già se la figura nel pensiero
E bianca e fresca e rubiconda e bella,
Co' suoi capelli d'oro e l'occhio nero,
Che più nè men la mattutina stella
E come ch'ei la vegga daddovero,
Divoto se le inchina e le favella,
E le promette, s'egli avrà moneta,
Di pagarle la Fiera all'Improneta (804).

"Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

Note:
(763) GIRONE (giro). Villaggio a tre miglia da Firenze.
(764) ANZICHÈ NO. Pare che sia usato in senso di Ma, anzi no.
(765) QUESTI. L' astemio ha l'utilità dello star sempre in cervello, ma non altro; ma non sente nessun piacere.
(766) PECCHIA. Succia, come pecchia.
(767) BARBAGLIO. Ciò che abbarbaglia; una meraviglia.
(768) PARIDE ecc. Vedi c. III, 11.
(769) LOVA. Lupa, meretrice.
(770) BUSECCHIE. Tasche.
(771) CERBONECA. Vino fradicio.
(772) SPERANDO d'appropriarsi l'avanzo del danaro.
(773) CALÌA, Rimasugli dell' oro o argento che si lavora. Qui, avanzo.
(774) SLAZZERA. Cava fuori e paga; dal Lazzare, veni foras.
(775) GATTO FRUGATO. Uomo accorto.
(776) LE FURON BUONE MOSSE dicesi quando i barberi del palio vengono davvero, dopo che molte volte si è sentito invano gridar dalla gente: Eccoli! Eccoli!
(777) BRICCONE. Brindisi.
(778) DAL VEDERE ecc. In un batter d' occhio.
(779) SERQUA. Dozzina, 12 uova.
(780) LOTTE. Forze.
(781) SVENTRI. Scoppi.
(782) LATTATA, proprio è Orzata; ma vale anche portata di nuovo vino dopo molto mangiare e bere.
(783) IN SU LA SCHIENA ecc. in pantani o stagni, che non è buono.
(784) MINCHIONI LA MATTEA. Burli. Vedi c. IV, 15.
(785) SPULEZZA. Va via in furia.
(786) SCIAGUATTARE. Frequentat. di sciacquare.
(787) IL ROMANO fu uno stufaiuolo, che insegnava nuotare alla gioventù fiorentina.
(788) METTE A ENTRATA. Tien per certo; dall'allibrare a entrata che fanno i computisti il danaro ricevuto.
(789) PANNOCCHIE. Spighe della saggina, panico e simili.
(790) MUSICHE ACQUAIUOLE. Ranocchie.
(791) BERGAMASCA. Un certo ballo.
(792) CAZZUOLE. Animaletti neri del genere de' batraciani.
(793) NON FA FARINA. Non m'importa e non mi frutta nulla.
(794) SBRACULATO. Senza brache o calzoni.
(795) MONA CHECCA chiamavano i fanciulli fiorentini uno scheletro rivestito, che solevasi esporre nei sotterranei della Basilica di San Lorenzo, il 2 novembre.
(796) CILECCA, Celia, burla.
(797) HO STOPPATO. Vedi c. III, 34.
(798) PER SAN GIOVANNI. Il giorno di San Giovanni, patrono di Firenze, soleva il magistrato della zecca mandare in offerta un gran carro in forma piramidale, assai alto (e però facile a scuotersi e tremare), con in cima un uomo legato a un palo, che rappresentava il Santo. Dice il Biscioni che questa usanza fu abolita perchè, fra le altre indecenze, la plebe soleva dire a quel figuro che era stato legato al palo, san Giovanni birbone.
(799) SERVIR DI COPPA ecc. Far da coppiere e da scalco; farsi scambievolmente ogni maggior servizio.
(800) AGUZZATO IL MULINO. Vedi c. IV, 58.
(801) I SIMILI. Titolo di commedia in cui due personaggi, simili in modo da scambiarsi, sono cagione di mille equivoci.
(802) RENSA. Tela di lino fina; da Rems ove fabbricavasi.
(803) LENSA o Lenza, filo dell'amo.
(804) L' IMPRUNETA è a cinque miglia da Firenze.

(segue)

 
 
 
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