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« Il Malmantile racquistato 04-2'Na lucertola? »

Vita Nova 31-35

Post n°1748 pubblicato il 15 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

XXXI

[XXXII] Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia trestizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole dolorose; e però propuosi di fare una canzone, ne la quale piangendo ragionassi di lei, per cui tanto dolore era fatto distruggitore de l'anima mia; e cominciai allora una canzone, la quale comincia: Li occhi dolenti per pietà del core. E acciò che questa canzone paia rimanere più vedova dopo lo suo fine, la dividerò prima che io la scriva: e cotale modo terrò da qui innanzi. Io dico che questa cattivella canzone ha tre parti: la prima è proemio; ne la seconda ragiono di lei; ne la terza parlo a la canzone pietosamente. La seconda parte comincia quivi: Ita n'è Beatrice; la terza quivi: Pietosa mia canzone. La prima parte si divide in tre: ne la prima dico perché io mi muovo a dire; ne la seconda dico a cui io voglio dire; ne la terza dico di cui io voglio dire. La seconda comincia quivi: E perché me ricorda; la terza quivi: e dicerò. Poscia quando dico: Ita n'è Beatrice, ragiono di lei; e intorno a ciò foe due parti: prima dico la cagione per che tolta ne fue; appresso dico come altri si piange de la sua partita, e comincia questa parte quivi: Partìssi de la sua. Questa parte si divide in tre: ne la prima dico chi non la piange; ne la seconda dico chi la piange; ne la terza dico de la mia condizione. La seconda comincia quivi: ma ven trestizia e voglia; la terza quivi: Dànnomi angoscia. Poscia quando dico: Pietosa mia canzone, parlo a questa canzone, disegnandole a quali donne se ne vada, e stèasi con loro.

Li occhi dolenti per pietà del core
hanno di lagrimar sofferta pena,
sì che per vinti son remasi omai.
Ora, s'i' voglio sfogar lo dolore,
che a poco a poco a la morte mi mena,
convènemi parlar traendo guai.
E perché me ricorda ch'io parlai
de la mia donna, mentre che vivia,
donne gentili, volontier con vui,
non vòi parlare altrui,
se non a cor gentil che in donna sia;
e dicerò di lei piangendo, pui
che si n'è gita in ciel subitamente,
e ha lasciato Amor meco dolente.
Ita n'è Beatrice in l'alto cielo,
nel reame ove li angeli hanno pace,
e sta con loro, e voi, donne, ha lassate:
no la ci tolse qualità di gelo
né di calore, come l'altre face,
ma solo fue sua gran benignitate;
ché luce de la sua umilitate
passò li cieli con tanta vertute,
che fé maravigliar l'etterno sire,
sì che dolce disire
lo giunse di chiamar tanta salute;
e félla di qua giù a sé venire,
perché vedea ch'esta vita noiosa
non era degna di sì gentil cosa.
Partìssi de la sua bella persona,
piena di grazia, l'anima gentile,
ed èssi gloriosa in loco degno.
Chi no la piange, quando ne ragiona,
core ha di pietra sì malvagio e vile,
ch'entrar no 'i puote spirito benegno.
Non è di cor villan sì alto ingegno,
che possa imaginar di lei alquanto,
e però no li ven di pianger doglia;
ma ven trestizia e voglia
di sospirare e di morir di pianto,
e d'onne consolar l'anima spoglia,
chi vede nel pensero alcuna volta
quale ella fue, e com'ella n'è tolta.
Dànnomi angoscia li sospiri forte,
quando 'l pensero ne la mente grave
mi reca quella che m'ha 'l cor diviso;
e spesse fiate pensando a la morte,
vènemene un disio tanto soave,
che mi tramuta lo color nel viso.
E quando 'l maginar mi ven ben fiso,
giùgnemi tanta pena d'ogne parte,
ch'io mi riscuoto per dolor ch'i' sento;
e sì fatto divento,
che da le genti vergogna mi parte.
Poscia piangendo, sol nel mio lamento
chiamo Beatrice, e dico: - Or se' tu morta? -;
e mentre ch'io la chiamo, me conforta.
Pianger di doglia e sospirar d'angoscia
mi strugge 'l core ovunque sol mi trovo,
sì che ne 'ncrescerebbe a chi m'audesse:
e quale è stata la mia vita, poscia
che la mia donna andò nel secol novo,
lingua non è che dicer lo sapesse.
E però, donne mie, pur ch'io volesse,
non vi saprei io dir ben quel ch'io sono,
sì mi fa travagliar l'acerba vita;
la quale è sì 'nvilita,
che ogn'om par che mi dica: - Io t'abbandono -,
veggendo la mia labbia tramortita.
Ma qual ch'io sia, la mia donna il si vede,
ed io ne spero ancor da lei merzede.
Pietosa mia canzone, or va piangendo,
e ritruova le donne e le donzelle,
a cui le tue sorelle
erano usate di portar letizia;
e tu, che se' figliuola di trestizia,
vatten disconsolata a star con elle.

XXXII

[XXXIII] Poi che detta fue questa canzone, sì venne a me uno, lo quale, secondo li gradi de l'amistade, è amico a me immediatamente dopo lo primo; e questi fue tanto distretto di sanguinitade con questa gloriosa, che nullo più presso l'era. E poi che fue meco a ragionare, mi pregòe ch'io li dovesse dire alcuna cosa per una donna che s'era morta; e simulava sue parole, acciò che paresse che dicesse d'un'altra, la quale morta era certamente. Onde io accorgendomi che questi dicea solamente per questa benedetta, sì li dissi di fare ciò che mi domandava lo suo prego. Onde poi pensando a ciò, propuosi di fare uno sonetto nel quale mi lamentasse alquanto, e di darlo a questo mio amico, acciò che paresse che per lui l'avessi fatto; e dissi allora questo sonetto, che comincia: Venite a 'ntender li sospiri miei. Lo quale ha due parti: ne la prima, chiamo li fedeli d'Amore che m' intendano; ne la seconda, narro de la mia misera condizione. La seconda comincia quivi: li quai disconsolati.

Venite a 'ntender li sospiri miei,
oi cor gentili, chè pietà 'l disia:
li quai disconsolati vanno via,
e s'e' non fosser, di dolor morrei;
però che gli occhi mi sarebber rei,
molte fiate più ch'io non vorria,
lasso! di pianger sì la donna mia,
che sfogasser lo cor, piangendo lei.
Voi udirete lor chiamar sovente
la mia donna gentil, che si n'è gita
al secol degno de la sua vertute;
e dispregiar talora questa vita
in persona de l'anima dolente
abbandonata de la sua salute.

XXXIII

[XXXIV] Poi che detto èi questo sonetto, pensandomi chi questi era a cui lo intendea dare quasi come per lui fatto, vidi che povero mi parea lo servigio e nudo a così distretta persona di questa gloriosa. E però anzi ch'io li dessi questo soprascritto sonetto, sì dissi due stanzie d'una canzone, l'una per costui veracemente, e l'altra per me, avvegna che paia l'una e l'altra per una persona detta, a chi non guarda sottilmente; ma chi sottilmente le mira, vede bene che diverse persone parlano, acciò che l'una non chiama sua donna costei, e l'altra sì, come appare manifestamente. Questa canzone e questo soprascritto sonetto li diedi, dicendo io lui che per lui solo fatto l'avea. La canzone comincia: Quantunque volte, e ha due parti: ne l'una, cioè ne la prima stanzia, si lamenta questo mio caro e distretto a lei; ne la seconda mi lamento io, cioè ne l'altra stanzia si comincia: E' si raccoglie ne li miei. E così appare che in questa canzone si lamentano due persone, l'una de le quali si lamenta come frate, l'altra come servo.

Quantunque volte, lasso! , mi rimembra
ch'io non debbo giammai
veder la donna ond'io vo sì dolente,
tanto dolore intorno 'l cor m'assembra
la dolorosa mente,
ch'io dico: - Anima mia, chè non ten vai?
chè li tormenti che tu porterai
nel secol, che t'è già tanto noio,
mi fan pensoso di paura forte -.
Ond'io chiamo la Morte,
come soave e dolce mio riposo;
e dico: - Vieni a me - con tanto amore,
che sono astioso di chiunque more.
E si raccoglie ne li miei sospiri
un sòno di pietate,
che va chiamando Morte tuttavia:
a lei si volser tutti i miei disiri,
quando la donna mia
fu giunta da la sua crudelitate;
perché 'l piacere de la sua bieltate,
partendo sé da la nostra veduta,
divenne spirital bellezza grande,
che per lo cielo spande
luce d'amor, che li angeli saluta
e lo intelletto loro alto, sottile
face maravigliar, sì v'è gentile.

XXXIV

[XXXV] In quello giorno nel quale si compiea l'anno che questa donna era fatta de li cittadini di vita eterna, io mi sedea in parte ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette; e mentre io lo disegnava, volsi li occhi, e vidi lungo me uomini a li quali si convenia di fare onore. E riguardavano quello che io facea; e secondo che me fu detto poi, elli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse. Quando li vidi, mi levai, e salutando loro dissi: «Altri era testé meco, però pensava». Onde partiti costoro, ritornàimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d'angeli: e facendo ciò, mi venne uno pensero di dire parole, quasi per annovale, e scrivere a costoro li quali erano venuti a me; e dissi allora questo sonetto, lo quale comincia: Era venuta. Lo quale ha due cominciamenti, e però lo dividerò secondo l'uno e secondo l'altro. Dico che secondo lo primo, questo sonetto ha tre parti: ne la prima, dico che questa donna era già ne la mia memoria; ne la seconda, dico quello che Amore però mi facea; ne la terza, dico de gli effetti d'Amore. La seconda comincia quivi: Amor che; la terza quivi: Piangendo uscivan for. Questa parte si divide in due: ne l'una dico che tutti li miei sospiri uscivano parlando; ne la seconda dico che alquanti diceano certe parole diverse da gli altri. La seconda comincia quivi: Ma quei. Per questo medesimo modo si divide secondo l'altro cominciamento, salvo che ne la prima parte dico quando questa donna era così venuta ne la mia memoria, e ciò non dico ne l'altro.

Primo cominciamento

Era venuta ne la mente mia
la gentil donna che per suo valore
fu posta da l'altissimo Signore
nel ciel de l'umiltate, ov'è Maria.

Secondo cominciamento

Era venuta ne la mente mia
quella donna gentil cui piange Amore.
Entro 'n quel punto che lo suo valore
vi trasse a riguardar quel ch'eo facia.
Amor che ne la mente la sentia,
s'era svegliato nel destrutto core,
e diceva a' sospiri: «Andate fore»;
per che ciascun dolente si partia.
Piangendo uscivan for de lo mio petto
con una voce che sovente mena
le lagrime dogliose a li occhi tristi.
Ma quei che n'uscian for con maggior pena,
venian dicendo: «Oi nobile intelletto,
oggi fa l'anno che nel ciel salisti».

XXXV

[XXXVI] Poi per alquanto tempo, con ciò fosse cosa che io fosse in parte ne la quale mi ricordava del passato tempo, molto stava pensoso, e con dolorosi pensamenti tanto che mi faceano parere de fore una vista di terribile sbigottimento. Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta. Onde, con ciò sia cosa che quando li miseri veggiono di loro compassione altrui, più tosto si muovono a lagrimare, quasi come di se stessi avendo pietade, io senti' allora cominciare li miei occhi a volere piangere; e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi partio dinanzi da li occhi di questa gentile; e dicea poi fra me medesimo: «E' non puote essere che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore». E però propuosi di dire uno sonetto, ne lo quale io parlasse a lei, e conchiudesse in esso tutto ciò che narrato è in questa ragione. E però che per questa ragione è assai manifesto, sì nollo dividerò. Lo sonetto comincia: Videro li occhi miei.

Videro li occhi miei quanta pietate
era apparita in la vostra figura,
quando guardaste li atti e la statura
ch'io faccio per dolor molte fiate.
Allor m'accorsi che voi pensavate
la qualità de la mia vita oscura,
sì che mi giunse ne lo cor paura
di dimostrar con li occhi mia viltate.
E tòlsimi dinanzi a voi, sentendo
che si movean le lagrime dal core,
ch'era sommosso da la vostra vista.
Io dicea poscia ne l'anima trista:
«Ben è con quella donna quello Amore
lo qual mi face andar così piangendo».

Dante Alighieri
(segue)

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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