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Bacco in Toscana

Post n°1588 pubblicato il 07 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Bacco in Toscana
di Francesco Redi
Edizione 1685 (versione tratta da: Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta e P. P. Ferrante, Torino, Einaudi, 1964 vol II).

Il testo del ditirambo, con introduzione critica di notevole valore, si triva anche sul sito Classici Italiani.

Dell’Indico Orïente
Domator glorïoso, il Dio del Vino
Fermato avea l’allegro suo soggiorno
Ai colli Etruschi intorno;
E colà dove imperïal palagio
L’augusta fronte in vêr le nubi innalza,
Su verdeggiante prato
Con la vaga Arïanna un dì sedea,
E bevendo e cantando
Al bell’idolo suo così dicea:

Se dell’uve il sangue amabile
Non rinfranca ognor le vene,
Questa vita è troppo labile,
Troppo breve e sempre in pene.
Sì bel sangue è un raggio acceso
Di quel Sol che in ciel vedete;
E rimase avvinto e preso
Di più grappoli alla rete.
Su su dunque in questo sangue
Rinnoviam l’arterie e i musculi;
E per chi s’invecchia e langue
Prepariam vetri maiusculi:
Ed in festa baldanzosa
Tra gli scherzi e tra le risa
Lasciam pur, lasciam passare
Lui, che in numeri e in misure
Si ravvolge e si consuma,
E quaggiù Tempo si chiama;
E bevendo, e ribevendo
I pensier mandiamo in bando.

Benedetto
Quel Claretto,
Che si spilla in Avignone,
Questo vasto bellicone
Io ne verso entro ’l mio petto;
Ma di quel, che sì puretto
Si vendemmia in Artimino,
Vo’ trincarne più d’un tino;
Ed in sì dolce, e nobile lavacro,
Mentre il polmone mio tutto s’abbevera,
Arïanna, mio Nume, a te consacro
Il tino, il fiasco, il botticin, la pevera.
Accusato,
Tormentato,
Condannato
Sia colui, che in pian di Lecore
Prim’osò piantar le viti;
Infiniti
Capri e pecore
Si divorino quei tralci,
E gli stralci
Pioggia rea di ghiaccio asprissimo:
Ma lodato,
Celebrato,
Coronato
Sia l’eroe che nelle vigne
Di Petraja e di Castello
Piantò prima il Moscadello.
Or che stiamo in festa e in giolito,
Béi di questo bel crisolito,
Ch’è figliuolo,
D’un magliuolo
Che fa viver più del solito:
Se di questo tu berai,
Arïanna mia bellissima,
Crescerà sì tua vaghezza,
Che nel fior di giovinezza
Parrai Venere stessissima.
Del leggiadretto,
Del sì divino
Moscadelletto
Di Montalcino
Talor per scherzo
Ne chieggio un nappo;
Ma non incappo
A berne il terzo;
Egli è un vin, ch’è tutto grazia,
Ma però troppo mi sazia.
Un tal vino
Lo destino
Per stravizzo e per piacere
Delle vergini severe,
Che racchiuse in sacro loco
Han di Vesta in cura il foco;
Un tal vino
Lo destino
Per le dame di Parigi,
E per quelle,
Che sì belle
Rallegrar fanno il Tamigi:
Il Pisciancio del Cotone,
Onde ricco è lo Scarlatti,
Vo’ che il bevan le persone,
Che non san fare i lor fatti.
Quel cotanto sdolcinato,
Sì smaccato,
Scolorito snervatello
Pisciarello di Bracciano,
Non è sano,
E il mio detto vo’ che approvi
Ne’ suoi dotti scartabelli
L’erudito Pignatelli;
E se in Roma al volgo piace
Glielo lascio in santa pace:
E se ben Ciccio d’Andrea
Con amabile fierezza,
Con terribile dolcezza,
Tra gran tuoni d’eloquenza,
Nella propria mia presenza
Innalzare un dì volea
Quel d’Aversa acido asprino,
Che non so s’è agresto, o vino,
Egli a Napoli sel bea
Del superbo Fasano in compagnia,
Che con lingua profana osò di dire
Che del buon vino al par di me s’intende;
Ed empio ormai bestemmiator pretende
Delle Tigri Nisee sul carro aurato
Gire in trionfo al bel Sebeto intorno;
Ed a quei lauri, ond’àve il crine adorno,
Anco intralciar la pampinosa vigna,
Che lieta alligna in Posilippo e in Ischia;
E più avanti s’inoltra, e infin s’arrischia
Brandire il Tirso e minacciarmi altero:
Ma con esso azzuffarmi ora non chero;
Perocché lui dal mio furor preserva
Febo e Minerva.
Forse avverrà, che sul Sebeto io voglia
Alzar un giorno di delizie un trono:
Allor vedrollo umilïato, e in dono
Offerirmi devoto
Di Posilippo e d’Ischia il nobil Greco;
E forse allor rappattumarmi seco
Non fia ch’io sdegni, e beveremo in tresca
All’usanza tedesca;
E tra l’anfore vaste e l’inguistare
Sarà di nostre gare
Giudice illustre e spettator ben lieto
Il Marchese gentil dell’Oliveto.
Ma frattanto qui sull’Arno
Io di Pescia il Burïano,
Il Trebbiano, il Colombano
Mi tracanno a piena mano:
Egli è il vero oro potabile,
Che mandar suole in esilio
Ogni male inrimediabile;
Egli è d’ Elena il Nepente,
Che fa stare il mondo allegro
Da i pensieri
Foschi e neri
Sempre sciolto, e sempre esente.
Quindi avvien, che sempre mai
Tra la sua filosofia
Lo teneva in compagnia
Il buon vecchio Rucellai;
Ed al chiaror di lui ben comprendea
Gli atomi tutti quanti e ogni corpusculo
E molto ben distinguere sapea
Dal mattutino il vespertin crepusculo,
Ed additava donde avesse origine
La pigrizia degli astri e la vertigine.
Quanto errando, oh quanto va
Nel cercar la verità
Chi dal vin lungi si sta!
Io stovvi appresso, ed or godendo accorgomi,
Che in bel color di fragola matura
La Barbarossa allettami,
E cotanto dilettami,
Che temprare amerei l’interna arsura,
Se il greco Ippocrate,
Se il vecchio Andromaco
Non me ’l vietassero,
Né mi sgridassero,
Che suol talora infievolir lo stomaco;
Lo sconcerti quanto sa;
Voglio berne almen due ciotole,
Perché so, mentre ch’io votole,
Alla fin quel che ne va.
Con un sorso
Di buon Còrso,
O di pretto antico Ispano,
A quel mal porgo un soccorso,
Che non è da cerretano:
Non sia già che il cioccolatte
V’adoprassi, ovvero il tè,
Medicine così fatte
Non saran giammai per me:
Beverei prima il veleno
Che un bicchier, che fosse pieno
Dell’amaro e reo caffè:
Colà tra gli Arabi,
E tra i Giannizzeri
Liquor sì ostico,
Sì nero e torbido
Gli schiavi ingollino.
Giù nel Tartaro,
Giù nell’Erebo
L’empie Belidi l’inventarono,
E Tesifone e l’altre Furie
A Proserpina il ministrarono;
E se in Asia il Musulmanno
Se lo cionca a precipizio,
Mostra aver poco giudizio.
Han giudizio, e non son gonzi,
Quei toscani bevitori,
Che tracannano gli umori
Della vaga e della bionda,
Che di gioja i cuori inonda,
Malvagía di Montegonzi;
Allor che per le fauci e per l’esofago
Ella gorgoglia e mormora,
Mi fa nascer nel petto
Un indistinto incognito diletto,
Che si può ben sentire,
Ma non si può ridire.
Io nol nego, è prezïosa,
Odorosa
L’Ambra liquida cretense;
Ma tropp’alta ed orgogliosa
La mia sete mai non spense;
Ed è vinta in leggiadria
Dall’etrusca Malvagía:
Ma se fia mai che da cidonio scoglio
Tolti i superbi e nobili rampolli
Ringentiliscan su i toscani colli,
Depor vedransi il naturale orgoglio,
E qui dove il ber s’apprezza
Pregio avran di gentilezza.
Chi la squallida Cervogia
Alle labbra sue congiugne
Presto muore, o rado giugne
All’età vecchia e barbogia:
Beva il sidro d’Inghilterra
Chi vuol gir presto sotterra;
Chi vuol gir presto alla morte
Le bevande usi del Norte.
Fanno i pazzi beveroni
Quei Norvegi e quei Lapponi;
Quei Lapponi son pur tangheri,
Son pur sozzi nel loro bere;
Solamente nel vedere,
Mi fariano uscir de’ gangheri.
Ma si restin col mal die
Sì profane dicerie,
E il mio labbro profanato
Si purifichi, s’immerga,
Si sommerga
Dentro un pecchero indorato,
Colmo in giro di quel vino
Del vitigno
Sì benigno,
Che fiammeggia in Sansavino;
O di quel che vermigliuzzo,
Brillantuzzo
Fa superbo l’Aretino,
Che lo alleva in Tregozzano,
E tra’ sassi di Giggiano.
Sarà forse più frizzante,
Più razzente e più piccante,
O coppier, se tu richiedi
Quell’Albano,
Quel Vaiano,
Che biondeggia,
Che rosseggia
Là negli orti del mio Redi.
Manna dal ciel su le tue trecce piova,
Vigna gentil, che questa ambrosia infondi;
Ogni tua vite in ogni tempo muova
Nuovi fior, nuovi frutti e nuove frondi;
Un rio di latte in dolce foggia e nuova
I sassi tuoi placidamente inondi;
Né pigro giel, né tempestosa piova
Ti perturbi giammai, né mai ti sfrondi,
E ’l tuo Signor nell’età sua più vecchia
Possa del vino tuo ber con la secchia.
Se la druda di Titone
Al canuto suo marito
Con un vasto ciotolone
Di tal vin facesse invito,
Quel buon vecchio colassù
Tornerebbe in gioventù.
Torniam noi trattanto a bere;
Ma con qual nuovo ristoro
Coronar potrò ’ bicchiere
Per un brindisi canoro?
Col Topazio pigiato in Lamporecchio,
Ch’è famoso castel per quel Masetto,
A inghirlandar le tazze or m’apparecchio,
Purché gelato sia e sia puretto,
Gelato, quale alla stagion del gielo
Il più freddo aquilon fischia pel cielo.
Cantinette e cantimplore
Stieno in pronto a tutte l’ore
Con forbite bombolette
Chiuse e strette tra le brine
Delle nevi cristalline.
Son le nevi il quinto elemento,
Che compongono il vero bevere:
Ben è folle chi spera ricevere
Senza nevi nel bere un contento:
Venga pur da Vallombrosa
Neve a iosa:
Venga pur da ogni bicocca
Neve in chiocca;
E voi, Satiri, lasciate
Tante frottole e tanti riboboli,
E del ghiaccio mi portate
Dalla grotta del monte di Boboli.
Con alti picchi
 De’ mazzapicchi
Dirompetelo,
Sgretolatelo,
Infragnetelo,
Stritolatelo,
Finché tutto si possa risolvere
In minuta freddissima polvere,
Che mi renda il ber più fresco
Per rinfresco del palato,
Or ch’io son morto assetato.

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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