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« La bontà provvisoriaMonte Gennaro ... »

Il Trecentonovelle 81-84

Post n°1364 pubblicato il 14 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXXXI

Uno Sanese, stando da casa i Rossi in Firenze, avendo prestato danari a uno di loro, va dov'e' giuoca e colui, veggendolo, e avendo vinto, comincia a biastemare, e 'l Sanese dice che non gli de' dar nulla.

Nel tempo che molti gentiluomini, avendo perduta la signoria di Siena, furono confinati molti di loro chi qua e chi là, fu confinato tra gli altri uno Nastoccio o Minoccio de' Saracini, il quale tolse una casa a pigione da casa i Rossi; e là dimorando, era usante, come sono li Sanesi, ed era giucatore di tavole bonissimo. Aveva prestato costui a un Borghese de' Rossi circa fiorini dieci, ed era passato ben due mesi che riavere non gli potea. Ora questo Sanese, essendo da alcuni vicini invitato di bere, dice l'uno:

- Io ho fatto venire un fiasco di vino di villa, andianne a bere.

Dice il Sanese:
- Per lo santo sangue di Dio, che non potrebbe esser buono Iddio, se fusse in fiasco; e ancora si laverebbe prima un ventre che un bicchiere casereccio: andiàncene alla taverna, ché è qui presso un buon vino al Canto a' quattro paoni.

La brigata, udendo li piacevoli motti del Sanese, non seppono disdire. Andarono a bere con lui alla taverna; e avendo quasi beúto quello che piacea loro, venne un suo compagno a dirli che colui che gli dovea dare dieci fiorini giucava a tavole da casa i Gucciardini, e che avea vinto ben trenta fiorini. Udendo il Sanese questo, disse a' compagni:
- Deh, andiamo di quassú dal pozzo Toscanegli, e torneremo in giú verso il ponte, ché m'è detto che 'l tale giuoca, e ha vinto; forse mi renderà dieci fiorini.
Mossonsi, dicendo:
- Fa' la via a tuo senno, e noi seguiremo.

E cosí andando, come costui si venne appressando, e Borghese, veggendolo, comincia adirarsi e percuotere le tavole, come se mai non avesse vinto; e come il Sanese gli fu presso, piú mostrava Borghese l'ira, volgendo il viso al cielo, e biastemando tutta la corte del paradiso.
Giunto il Sanese, e veggendo gli atti dolorosi di Borghese, e immaginando che ciò facea ad arte, per non aver materia di pagare, dice a Borghese:
- Ciòe, non biastemare, tu non mi dee dare cavelle.

Borghese col busso delle tavole, e col furore, fece orecchi di mercatante, onde il Sanese s'andò con Dio, con intenzione di non addomandarli e di non averli mai.
Avvenne da ivi a certi dí che Borghese, giucando e avendo perduto, volea accattare denari, ed essendovi il Sanese, lo richiese di prestanza, dicendo:
- Io ti debbo dare dieci fiorini; prestamene cinque, e fieno quindici.
Il Sanese risponde:
- A me non déi tu dar cavelle.

Dice Borghese:
- Come? Io ti debbo pur dar dieci fiorini; al corpo e al sangue, che io te gli darò domane.
Il Sanese dice:
- Io ti dico che non debbo avere da te nulla.
E colui pur rimettesi. E 'l Sanese mai non disse altro, che:
- A me non déi tu dare cavelle.
E cosí si rimase la cosa; e non credo che mai gli riavesse; ché se quel gentiluomo de' Rossi avesse aúto conoscimento, se non gli dovesse mai aver renduti al Sanese, gli dovea rendere, per la piacevolezza delle parole usate verso lui.

 

NOVELLA LXXXII

Uno Genovese quasi uomo di corte per una festa che si fa a Melano, giugne dinanzi a messer Bernabò, il quale, volendo vedere come sostiene al bere, il fa provare con un gran bevitore suo famiglio; e 'l Genovese il vince.

Quando messer Marco Visconti primogenito di messer Bernabò menò la donna sua che avea nome madonna Isabetta della casa di Baviera, o di quelle maggiori della Magna, capitò a questa corte, com'è d'usanza, uno Genovese piacevolissimo, ed era come uno uomo di corte, bevitore era grandissimo e mai il vino non gli facea noia. Avvenne che costui andò a vicitare messer Bernabò, e stando dinanzi a lui inginocchioni, e dicendo sue novelle, e messer Bernabò, considerando, come colui che conoscea gli uomini all'alito, il lasciò star piú d'un'ora, che mai non disse che si levasse. Alla per fine, dolendo al Genovese le ginocchia, da sé stesso si levò, dicendo:
- Signor mio, io non posso piú stare inginocchioni.
Il signore guarda costui, e dice:
- Tu déi essere uno obbriaco.
Dice il Genovese:
- Io non sono obbriaco, Signore; ma beo volentieri.
Dice messer Bernabò:
- Se tu bei cosí volentieri, vuo' tu bere a prova con un mio famiglio?
Dice il Genovese:
- Utinam, Domine.
Dice messer Bernabò:
- Aspetta un poco -; e fa chiamare il bevitore suo.
Il qual, subito fu dinanzi a lui, dice il signore:
- Vien za; vuo' tu fare a prova di bere con costui?
E quegli risponde:
- Signore, volentiera.
- Or mo via, - dice il signore, - qualunche vincerà, io gli farò un dono com'io crederrò che lo meriti; e colui che perderà, converrà che bea dodici tratti della mia malvasía.
- Sia con Dio, - dissono i bevitori.

Allora il signore dice a' servi:
- Andà addurre uno boccale d'Orlando.
E vanno, e recono uno quarto di un vino bianco, o di Creti, o donde che si fosse, che era sí grande che pochi uomini erano che n'avessono beúto tre volte che non rimanesseno ammazzati. E perché questo vino era cosí grande, e cosí vincea ciascuno, e però il signore il chiamava Orlando. Ora, apparecchiato il vino, e molti bicchieri lavati, dice il signore:
- Pigliàve per la mano, e cominciate a ballare.
E quelli cosí fanno. E 'l signore gli chiama, e dice:
- Date bere a ciascuno tre muiuoli.
E cosí feciono; poi gli facea ballare. Il Genovese ballava molto piú destro.
Chiamatigli la seconda volta, dice:
- Date sei bicchieri a bere a ciascuno.
E cosí beono: poi fa loro ripigliare il ballo.

Il Genovese salta, che parea un beccherello. Il bevitore di messer Bernabò comincia a innaspare da piede. Sono chiamati la terza volta, e dato nove bicchieri per uno; ripigliano il terzo ballo. Il Genovese fa scambietti, lanciandosi in alto piú destro che se fosse stato una lontra; il bevitore del signore non si poteva azzicare, e andava a onde, come se fosse in fortuna. La quarta volta beve il Genovese dodici bicchieri; quel del signore, che era nell'altro mondo, appena gli poté bere; pur gli bevve, sforzandosi quanto poteo.

Ed entrando nel quarto ballo, nel quale il Genovese facea cose maravigliose, l'altro ogni passo era per cadere, e nella fine cadde in terra disteso. Com'elli cadde, il Genovese a cavalcioni li salí addosso; e pregò il signore che lo dovesse far cavaliere in sul corpo di quello obbriaco; e 'l signore disse che lo meritava bene, e fecelo cavaliere in su l'ubbriaco.

Fatto cavaliere, il Genovese guarda il signore, e dice:

- Con vostra licenza, volete voi che io facci lui cavaliere bagnato sí come merita?

Dice il signore:

- Fa' ciò che tu vuogli.

Il Genovese mette mano alle brache, e scompisciò l'obbriaco con piú orina che non avea beúto malvagía, che ne avea bevuto trenta bicchieri; e scompisciato che l'ebbe, col mazzapicchio gli dié tale in su la gota che s'udí come se fussi stata una gran gotata, e disse:

- Questa è la gotata ch'io ti do; e voglio che per mio amore tu abbi nome messer Cattivo.

E cosí fu sempre chiamato.

Quando messer Bernabò ebbe assai di queste cose riso, fece portare il corpo di messer Cattivo dal cortile, dov'erano le stalle de' cavalli suoi, e feciolo gittar su un monte di letame, dicendo:

- Tu l'hai fatto cavalier pisciato, e io lo farò cavalier sconcacado; e te, che meriti d'avere onore, voglio che sia a mia provvisione per quello che tu domanderai (e fa venire due bellissime robbe, e donògliele), e come tu hai battezzato lui messer Cattivo, e io voglio battezzar te messer Vinci Orlando.

E cosí fu sempre chiamato.

A cui vien fatta una cosa o bella o laida, dinanzi a un signore, quando è ben disposto, li vien ben fatto, come venne a questo Genovese: ma a molti è incontrato già il contrario, perché l'animo d'un signore parrà talora cheto, e tra sé medesimo combatte con diverse genti e in diverse parti. Piú sicuro saria, a chi 'l può fare, di non s'impacciare, e non sarà impacciato.

 

NOVELLA LXXXIII

A Tommaso Baronci, essendo de' Priori, sono fatte da' Priori tre piacevoli beffe.

Essendo de' Priori ne' loro tempi Marco del Rosso degli Strozzi, e Tommaso Federighi, e Tommaso Baronci, e altri, avvenne, come spesso interviene, che volendo pigliare il detto Marco e Tommaso Federighi alcuno piacere d'alcuno de' compagni, ebbono procurato Tommaso Baronci esser quello di cui gran piacere si potea pigliare. Essendo il detto Tommaso Baronci Proposto, uno suo paio di scarpette co' becchetti grosse (essendo andato al letto) gli arrovesciorono una sera; e la mattina, levandosi, e sonando in fretta a' collegi, mettendosi le dette scarpette al buio, essendo sollecitato, n'andò nella udienza; e là postosi a sedere, statovi gran pezza, tanto che tutti i collegi v'erano, Marco guardando a' pie' di Tommaso, disse:

- Che è questo Proposto? Vuo' tu andare a cacciare con coteste scarpette?

Quelli guatale e dice:

- Come! che mala ventura è questa? Elle non paiono le mia, benché io non le veggo bene, se io non ho gli occhiali.

E cavossi gli occhiali da lato, e misseseli, e con essi si chinava quanto potea, facendosi verso la finestra; ciascun guatava che scarpette son quelle.

Dicea Tommaso:

- Elle non sono le mie, ch'ell'aveano i becchetti, e queste non l'hanno.

Alla per fine se n'andò alla camera sua, e là se le cavò, e guata e riguata; il Toso famiglio, che v'era presente, disse:

- Tommaso, queste scarpette sono state arrovesciate -; e mostrògli i becchetti, ch'erano dentro.

Dice Tommaso:

- Toso, tu di' vero; che serebbe stato questo?

Quel rispose:

- Io non so; il meglio che ci sia è dirizzarle.

E tra egli e 'l Toso ebbono che fare, anzi che l'avessino addirizzate, ben insino a terza; e pur si passò Tommaso senza darsi piú briga. Marco e Tommaso il dí medesimo feciono un altro giuoco, che gli fororono l'orinale, dove, stando in sul letto ritto, orinava la notte, e riposonlo nel luogo suo; e la sera a cena, essendo su la mensa di molti capponi arrosto, Tommaso Baronci, come Proposto, diede uno cappone al Toso, e disse:

- Va', mettilo nella cassa mia; e domattina il porterai alla Lapa, - cioè alla moglie.

Toso cosí fece. Marco, e Tommaso Federighi, veduto questo, quando ebbono cenato, segretamente feciono pigliare una gatta di quelle della casa, e tolto il cappone, che era nella cassa, vi missono la gatta, e dentro ve la serrarono. E cosí disposto e l'orinale e la gatta, aspettarono il tempo che la detta loro faccenda ordinata venisse a quel fine che desideravono.

Andatisi al letto tutti li signori, su la mezza notte e Tommaso si rizza sul letto, pigliando l'orinale, facendo quello che era usato. Marco, che era desto, dice:

- O Proposto, tu ci desti ogni notte con questo tuo orinare.

Tommaso stillava su per lo letto, e fece orecchi da mercatante, e appiccando l'orinale s'avvide ogni cosa esser ita su per lo letto, e colicandosi, appena trovò un poco d'asciutto. Levandosi la mattina, venendo il Toso ad aiutarlo vestire, dice Tommaso:

- Toso mio, io sono vituperato, e non so che mi fare; la cotal cosa m'è intervenuta; l'orinale mostra che sia rotto; istanotte, orinandovi entro, com'io soglio, tutta l'orina è ita per lo letto, e se i miei compagni veggono, diranno v'abbia pisciato.

Disse il Toso:

- Io v'ho detto piú volte che sarebbe meglio uscire un poco fuore del letto, però che 'l vetro scoppia molte volte, e spezialmente per l'orina, e ciò che v'è dentro s'esce di fuori.

Dice Tommaso:

- Ben la pisceremo! o perché terre' io l'orinale, s'io dovesse uscir del letto?

Dice il Toso:

- E' mi pare che ci sia pisciato troppo: - e stende il copertoio - ecco, io porterò le lenzuola a casa vostra, e dirò che me ne dia un altro paio.

Dice Tommaso:

- Non fare; se la Lapa le vedesse cosí conce, io non arei poi pace con lei; ma fa' com'io ti dirò: portera'le a casa tua, e da'le a qualche feminetta, che le lavi in acqua fresca e asciughile, e non dire di cui siano, e poi le porterai a casa, ma fa' che oggi siano asciutte, e poi le porterai, e allora vorrò che porti il cappone.

E Toso cosí fece, che portò le lenzuola, e fecele lavare, e subito le pose ad asciugare, e asciutte che furono, el Toso le rapportò a Tommaso, il quale el commendò della sollecitudine che aveva aúta, di far fare un bucato senza fuoco, e disse:

- Vie' qua, andiamo per quel cappone, che la Lapa è una donna diversa, e s'ella dicesse nulla delle lenzuola, veggendo il cappone, si rattempererà un poco.

E cosí ragionando Tommaso col Toso, giunsono alla camera, e Tommaso aprendo la cassa, dov'era il cappone, e la gatta schizza fuori, e dàgli nel petto; il quale impaurito lascia cadere il coperchio, e fuggesi fuori tutto smarrito, che quasi era per perdersi affatto. Marco, e l'altro Tommaso, passeggiavano di rincontro per vedere a che la novella dovesse riuscire, e giunti dov'era Tommaso, dicono:

- Che avesti, che tu fuggisti fuor della camera?

Dice Tommaso:

- Io credo che fusse il nimico di Dio; e serà stato quello che m'arrovesciò le scarpette.

Disse il Toso:

- A me parve egli una gatta.

Disse Tommaso:

- Ben, che fu gatto maschio: e' mi parve tre cotanti che una gatta.

Disse il Toso:

- Andiamo alla cassa, e datemi il cappone, ch'io il porti.

E tornano ad aprirla; e apertala, sul tagliere non era alcuna cosa.

Dice Tommaso:

- Oimè! che 'l Toso arà detto il vero, ch'ella s'ha manicato il cappone.

Dice Marco e 'l compagno:

- Onde v'entrò la gatta? ha la cassa gattaiuola?

E 'l Baroncio trae fuora le masserizie, e guatando dice:

- Io non ci veggo né gattaiuola, né buca.

Dice Tommaso Federighi:

- E' m'avvenne una volta, ch'io fui de' signori, com'ora, simil caso; e brievemente, quando io mandai il famiglio col tagliere, che 'l mettesse nella cassa, una gatta v'era entro a dormire: e' non se n'avvedde, e mangiossi quello ch'era sul tagliere, e poi se n'uscí in questa forma che questa.

- Mala ventura, che cosí nuova fortuna non m'avvenne mai piú, e credo che da ieri in qua sia dí ozíaco per me. Or ecco, io non credo mai compiere questo officio che io ritorni alla Lapa mia, che con lei non ho mai paura; e qui ci starò oggimai con gran temenza, però che io credo che tra queste camere sia qualche mala cosa.

Vo' dite pur: gatta, gatta: arrovesciommi la gatta le scarpette, e anco altro, che fu peggio?

Dice Marco:

- E' può ben essere: a cotesto vagliono molte orazioni e paternostri; abbine consiglio con questi maestri in teologia.

E mandò tre dí per certi teologhi, li quali li dierono consiglio ch'egli orasse e dicesse paternostri otto dí dalle quattro ore insino a mattutino; e questo consiglio fu fattura de' due compagni.

Il detto Tommaso, come invilito dalla paura, cosí fece che otto notti quasi non dormí, armandosi con molti paternostri, acciò che 'l nimico non entrasse piú nella cassa, e scemato quaranta libbre, finí l'officio, e tornossi alla Lapa, nelle cui braccia prese gran sicurtà, dicendole che non volea mai piú esser de' Priori, però che 'l demonio era in quelle camere, e a lui avea fatto le cose scritte di sopra, raccontandogliele a una a una: e con questa credenza stette finché visse, che fu poco.

Per le simplicità di molti si muovono spesso de' savi a fare cose da trastulli, per passar tempo; ché benché gli uomini siano signori, perché spesso hanno malinconie, pare che non si disdica fare simili cose per sollazzare la mente.

 

NOVELLA LXXXIV

Uno dipintore sanese, sentendo che la moglie ha messo in casa un suo amante, entra in casa e cerca dell'amico, il quale trovando in forma di crocifisso, volendo con un'ascia tagliarli quel lavorío, il detto si fugge, dicendo: "Non scherzare con l'ascia".

Fu già in Siena uno dipintore, che avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana, ed era assai bella, la quale un Sanese buon pezzo avea vagheggiata, e anco avea aúto a fare con lei, e alcuno suo parente piú volte gliel'avea, detto, e quel nol credea. Avvenne un giorno che, essendo Mino uscito di casa, ed essendo per alcuno caso andato di fuori per vedere certo lavorío, soprastette la notte di fuori. L'amico della donna, di ciò avvisato, la sera andò a stare con la moglie del detto dipintore a suo piacere. Come il parente sentí questo, che avea messo le spie per farnelo una volta certo, subito andò di fuori dove Mino era, e tanto fece che, dicendo per certa cagione dovere andare e tornare dentro, fu mandato uno con le chiavi dello sportello: e questo parente, uscendo fuori, lasciò quello delle chiavi dello sportello che l'aspettasse, e andò a Mino, el quale era a una chiesa presso a Siena; e giunto là disse:

- Mino, io t'ho detto piú volte della vergogna che mogliera fa a te e a noi, e tu non l'hai mai voluto credere; e però, se tu ne vuogli esser certo, vienne testeso e troverra'loti in casa.

Costui subito fu mosso e intrò in Siena per isportello; e 'l parente disse:

- Vattene a casa, e cerca molto bene, però che, come ti sentirà, l'amico si nasconderà, come tu déi credere.

Mino cosí fece, e disse al parente:

- Deh, vienne meco; e se non vuogli entrare dentro, statti di fuori.

E quel cosí fece.

Era questo Mino dipintore di crocifissi piú che d'altro, e spezialmente di quelli che erano intagliati con rilevamento; e aveane sempre in casa, tra compiuti e tra mani, quando quattro e quando sei; e teneagli, com'è d'usanza de' dipintori, in su una tavola, o desco lunghissimo, in una sua bottega appoggiati al muro l'uno allato all'altro, coperti ciascuno con uno sciugatoio grande; e al presente n'avea sei, li quattro intagliati e scolpiti, e li due erano piani dipinti, e tutti erano in su uno desco alto due braccia, appoggiati l'uno allato all'altro al muro, e ciascuno era coperto con gran sciugatoi o con altro panno lino. Giugne Mino all'uscio della sua casa, e picchia. La donna e 'l giovane, che non dormiano, udendo bussare l'uscio, subito sospettano che non fosse quello che era; e la donna, senza aprire finestra o rispondere, cheta cheta va a uno piccolo finestrino, o buco che non si serrava, per vedere chi fosse; e scorto che ebbe essere il marito, torna allo amante, e dice:

- Io son morta: come faremo? il meglio ci sia è che tu ti nasconda.

E non veggendo ben dove, ed essendo costui in camicia, capitorono nella bottega dov'erano li detti crocifissi.

Disse la donna:

- Vuo' tu far bene? sali su questo desco e pònti su uno di quelli crocifissi piani con le braccia in croce, come stanno gli altri, e io ti coprirrò con quel panno lino medesimo, con che è coperto quello; vegna cercando poi quanto vuole che io non credo che in questa notte e' ti truovi, e io ti farò un fardellino de' panni tuoi e metterògli in qualche cassa, tanto che vegna il dí; poi qualche santo ci aiuterà.

Costui, come quello che non sapea dove s'era, sale sul desco e leva lo sciugatoio, e in sul crocifisso piano si concia proprio, come uno de' crocifissi scolpiti, e la donna piglia el panno lino e cuoprelo, né piú né meno, com'erano coperti gli altri, e torna a dirizzare un poco il letto che non paresse vi fusse dormito se non ella; e tolto le calze, e scarpette, e farsetto, e gonnella e l'altre cose dello amante, subito n'ebbe fatto un assettato fardellino e mettelo tra altri panni. E ciò fatto, ne va alla finestra, e dice:

- Chi è?

E que' risponde:

- Apri, io son Mino.

Dice quella:

- O che otta è questa? - e corre ad aprirli.

Aperto l'uscio, e Mino dice:

- Assai m'ha' fatto stare, come colei che se' stata molto lieta che io ci sia tornato.

Disse quella:

- Se tu se' troppo stato, è defetto del sonno, però che io dormiva e non t'udía.

Dice il marito:

- Ben la faremo bene.

E toglie uno lume e va cercando ciò che v'era insino a sotto il letto.

Dice la moglie:

- O che va' tu cercando?

Dice Mino:

- Tu ti mostri nuova; tu 'l saprai bene.

Dice quella:

- Io non so che tu ti di': sapera'tel pur tu.

Andando costui cercando tutta la casa, pervenne nella bottega, dov'erano li crocifissi. Quando il crocifisso incarnato lo sente ivi, pensi ciascuno come gli parea stare; e gli convenía stare come gli altri che erano di legno; ed egli avea il battito della morte. Aiutollo la fortuna, ché né Mino né altri mai averebbe creduto essere in quella forma colui che era nascoso. Stato che Mino fu nella bottega un poco, e non trovandolo, s'uscí fuori. Era questa bottega con una porta dinanzi, la quale si serrava a chiave di fuori, però che uno giovene che stava col detto Mino, ogni mattina l'apriva come s'aprono l'altre, e dalla parte della casa era uno uscetto là, donde il detto Mino entrava nella bottega; e quando ne uscía della bottega e andavane in casa, serrava il detto uscetto a chiave, sí che il vivo crocifisso non se ne poteva uscire, se avesse voluto.

Essendosi combattuto Mino il terzo della notte, e non trovando alcuna cosa, la donna s'andò al letto, e disse al marito:

- Va' tralunando quantunche tu vuogli; se tu ti vuogli andare al letto, sí ti va'; e se no, va' per casa come le gatte, quanto ti piace.

Dice Mino:

- Quand'io arò assai sofferto, io ti darò a divedere che io non sono gatta, sozza troia, che maladetto sia il dí che tu ci venisti.

Dice la moglie:

- Cotesto potre' dir'io: è bianco, o vermiglio quello che favella?

- Io tel farò bene assapere innanzi che sia molto.

Dice quella:

- Va' dormi, va', e farai il tuo migliore, o tu lascia dormir me.

Le cose per istracca si rimasono per quella notte; la donna s'addormentò, e ancora egli andò a dormire. Lo parente, che di fuori aspettava come la cosa dovesse riuscire, standovi insino passata la squilla, se n'andò a casa, dicendo: "Per certo, in tanto che io andai di fuori per Mino, l'amante se ne sarà andato a casa sua".

Levatosi la mattina Mino molto per tempo, e ancora ragguardando per ogni buco, nella fine, avendo assai cercato, aprí l'uscetto e venne nella bottega: e 'l suo garzone aperse la porta di fuori da via della detta bottega.

E in questo, guardando Mino questi suoi crocifissi, ebbe veduto due dita d'uno piede di colui che coperto stava.

Dice Mino fra sé stesso: "Per certo che quest'è l'amico". E guardando fra certi ferramenti, con che digrossava e intagliava quelli crocifissi, non vidde ferro esser a lui piú adatto che un'ascia che era tra essi. Presa quest'ascia, e accostatosi per salire verso il crocifisso vivo, per tagliargli la principal cosa che quivi l'avea condotto, colui, avvedutosi, schizza con un salto, dicendo:

- Non ischerzar con l'asce.

E levala fuori dell'aperta porta; Mino drietoli parecchi passi, gridava: "Al ladro, al ladro"; colui s'andò per li fatti suoi.

Alla donna, che tutto avea sentito, capitò un converso de' frati predicatori che andava con la sporta per la limosina per lo convento. Andato su per le scale, come talora fanno, disse:

- Frate Puccio, mostrate la sporta, e io vi metterò del pane.

Quegli la diede. La donna, cavato il pane, vi misse il fardellino che l'amante avea lasciato, e sopra esso gittò suso il pane del frate e quattro pani de' suoi, e disse:

- Frate Puccio, per amor d'una donna che recò qui questo fardellino dalla Stufa, dove pare che il tale ier sera andasse, io l'ho messo sotto il pane nella vostra sporta acciò che nessuno male si potesse pensare; io v'ho dato quattro pani; io vi priego (ché egli sta presso alla vostra chiesa) quando n'andate, che voi glielo diate a lui, che 'l troverrete a casa; e ditegli che la donna della Stufa gli manda i suoi panni.

Dice Fra Puccio:

- Non piú! lasciate far me.

E vassi con Dio; e giugnendo all'uscio dell'amante, mostrando chieder del pane, domandava:

- Ècci il tale?

Colui era nella camera terrena; udendosi domandare, si fece all'uscio, e dice:

- Chi è là?

Il frate va a lui, e dàgli i panni, dicendo:

- La donna della Stufa ve li manda.

E colui gli dié duo pani, e 'l frate partissi. E l'amante considera bene ogni cosa, e subito ne va al campo di Siena, e fu quasi de' primi vi fusse quella mattina, e là facea de' suoi fatti, come se mai tal caso non fusse avvenuto. Mino quando ebbe assai soffiato, essendo rimaso scornato del crocifisso, che s'era fuggito, ne va verso la moglie dicendo:

- Sozza puttana, che di' che io sono gatta, e che io ho beúto bianco e vermiglio, e nascondi i bagascioni tuoi in su' crocifissi; e' convienne che tua madre il sappia.

Dice la donna:

- Di' tu a me?

Dice Mino:

- Anche dico alla merda dell'asino.

- E tu con cotesta ti favella, - disse la donna.

Dice Mino:

- E anche non hai faccia, e non ti vergogni? che non so ch'io mi tegno che io non ti ficchi un tizzon di fuoco nel tal luogo.

Dice la donna:

- Non saresti ardito, s'io non ho fatto l'uomperché; ché alla croce di Dio! stu mi mettessi mano addosso non facesti mai cosa sí caro ti costasse.

Costui dice:

- Deh, troia fastidiosa, che facesti del bagascione uno crocifisso, che cosí gli avess'io tagliato quello che io volea com'egli s'è fuggito.

Dice la donna:

- Io non so che tu ti beli: qual crocifisso si poté mai fuggire? non sono egli chiavati con aguti spannali? e se non fusse stato chiavato, e tu te ne abbi il danno, se s'è fuggito però che egli è tua colpa, e non mia.

Mino corre addosso alla donna e cominciala a 'ngoffare:

- Dunque m'hai tu vituperato e anco m'uccelli?

Come la donna si sente dare, che era molto piú prosperevole che Mino, comincia a dare a lui; da' di qua, da' di là, eccoti Mino in terra e la donna addossoli, e abburattalo per lo modo. Dice la donna:

- Che vuoi tu dire? Pigliala comunche tu vuoi, che vai inebbriando di qua e di là, e poi ne vieni in casa e chiamimi puttana; io ti concerò peggio che la Tessa non acconciò Calandrino: che maladetto sia chi mai maritò nessuna femina ad alcuno dipintore, ché siete tutti fantastichi e lunatichi, e sempre andate inebbriando e non vi vergognate.

Mino, veggendosi mal parato, priega la donna che lui lasci levare, e ch'ella non gridi, acciò che i vicini non sentino, che, traendo al romore, non trovassino la donna a cavallo. Quando la donna udí questo, dice:

- Io vorrei volentieri che tutta la vicinanza ci fosse.

E levossi suso, e cosí si levò Mino col viso tutto pesto; e per lo migliore disse alla donna che gli perdonasse, ché le male lingue gli avevano dato a creder quello che non era, e che veramente quello crocifisso s'era fuggito per non essere stato confitto. E andando il detto Mino per Siena, era domandato da quel suo parente che l'avea indotto a questo:

- Come fu? come andò?

E Mino gli disse che tutta la casa avea cerco e che mai non avea trovato alcuno; e che, guatando tra' crocifissi, l'uno gli era caduto sul viso, e avealo concio come vedea. E cosí a tutti e' Sanesi che domandavano: "Che è quello?" dicea che uno crocifisso gli era caduto sul viso.

Ora cosí avvenne, che per lo migliore si stette in pace dicendo fra sé medesimo: "Che bestia son io? io avea sei crocifissi e sei me n'ho: io avea una moglie e una me n'ho; cosí non l'avess'io! a darmi briga, potrò arrogere al danno, come al presente m'è incontrato; e s'ella vorrà esser trista tutti gli uomini del mondo non la potrebbono far esser buona"; se non intervenisse già come intervenne a uno nella seguente novella.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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