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« Quarche consijioLa bontà provvisoria »

Il Trecentonovelle 76-80

Post n°1362 pubblicato il 14 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXXVI

Matteo di Cantino Cavalcanti stando su la piazza di Mercato con certi, uno topo gli entra nelle brache, ed egli tutto stupefatto se ne va in una tavola, dove si trae le brache, ed è liberato dal topo.

E' non è molt'anni, che in casa Cavalcanti fu un gentiluomo chiamato Matteo di Cantino, il quale io scrittore e molti altri già vedemmo. Era stato il detto Matteo di Cantino ne' suoi dí e giostratore e schermitore; e ogni altra cosa com'altro gentiluomo seppe fare; era sperto e pratico com'altro suo pari e costumato. Essendo d'età di settant'anni, e molto prosperoso, ed essendo il caldo grande (però che era di luglio), e avendo le calze sgambate, e le brache all'antica co' gambuli larghi in giuso, dicendosi novelle in un cerchio, dov'erano e gentiluomini e mercatanti in su la piazza di Mercato Nuovo; e 'l detto Matteo essendo nel detto cerchio, venne per caso che una brigata di fanciulli di quelli che servano a' banchieri, che là sono, con una trappola, dove aveano preso un topo, e con le granate in mano si fermano in sul mezzo della piazza e pongono la trappola in terra, e quella posta in terra, aprono la cateratta; aperta la cateratta, il topo esce fuori, e corre per la piazza: li fanciulli con le granate menando, correndogli dietro per ucciderlo, ed egli volendosi rimbucare, e non veggendo dove, corre nel cerchio, dov'era il detto Matteo di Cantino, e accostatoglisi alle gambe, salendo su subito verso il gambule, entrò nelle brache. Sentendo ciò Matteo, pensi ciascuno come gli parve stare. Egli uscí tutto fuor di sé, li fanciulli l'aveano perduto di veduta:
- Ov'è? dov'è?
L'altro dicea:
- E' l'ha nelle brache.
La gente trae; le risa son grandi. Matteo, come fuori della memoria, se ne va in una tavola; gli fanciulli con le granate drietogli, dicendo:
- Caccial fuori; e' l'ha nelle brache.
Matteo agguattasi dietro all'appoggio del banco, e cala giú le brache. De' fanciulli erano dentro con le granate, gridando:
- Caccial fuori, caccial fuori.
Giunte le brache in terra, il topo schizza fuori. Li fanciulli gridano:
- Eccolo, eccolo: al topo, al topo: e' l'avea nelle brache; alle guagnele! E'mandò giú le brache.
Gli fanciulli uccidono il topo, Matteo rimane che parea un corpo morto; e piú dí stette, che non sapea dove si fosse. E' non è uomo, che non fosse scoppiato di risa, che l'avesse veduto, com'io scrittore che 'l vidi. Brievemente e' si botò alla Nunziata di non portare mai in tutta la sua vita piú le calze sgambate, e cosí attenne.
Che diremo de' diversi casi che avvengono? Per certo che mai non credo n'avvenisse nessuno cosí nuovo, né cosí piacevole. Starà l'uomo con gran pompa e superbia, e una piccola cosa il metterà a dichino; anderà sgambato per le pulci, e uno sorgo l'assalisce in forma che esce di sé. E' non è sí piccola ferucola che non dea che fare all'uomo: e l'uomo anco le vince tutte, quando si dispone.


NOVELLA LXXVII

Due hanno una quistione dinanzi a certi officiali, e l'uno ha dato all'un di loro un bue, e l'altro gli ha dato una vacca, e l'uno e l'altro s'ha perduta la spesa.

In una città di Toscana, la quale per onestà non dirò qual fusse né ancora dirò quali officiali, né in tutto né in parte, fu già, e forse ancor dura, un grande officio di valenti cittadini, i quali aveano grandissima balía e di ragione e di fatto a terminar le questioni che interveniano e tra' cittadini, e tra' contadini; avvenne per caso che due ricchi uomini mercatanti di bestie aveano quistione di lire trecento o piú tra loro; e venne la quistione dinanzi a questo officio: e non terminandosi tosto a modo che l'uno di loro volea, e avendo paura non gli fusse fatto torto, pensò fare qualche dono a uno di quelli del detto officio, il quale fusse da piú e meglio il potesse aiutare. Ebbe considerato quello che egli immaginava. Aveva una possessione, la quale era bella e buona, ma l'uomo non era addanaiato sí che di buoi la tenesse ben fornita; e pensò di scoprirglisi, e andare a lui, e raccomandandosi perché lo mantenesse e favellasse nelle sue ragioni, e donargli un bue, ché molti n'avea; e come ebbe pensato, cosí fece. E l'amico non si fece molto dire, che si tolse il detto bue.
L'altro, che avea la quistione con questo che avea donato il bue, non sapiendone alcuna cosa, gli fu venuto un medesimo pensiero, dicendo: "Il tale è il maggior uomo dell'officio; io gli vorrei fare qualche bel dono, acciò che mi sostenesse nelle mie ragioni"; e pensò lo stato suo, e ch'egli avea un luogo bello da tener bestie grosse; e per non essere abbiente di danari, non ve le tenea. E però andò a raccomandarsi a lui, e donògli una vacca, dicendo:
- Io voglio che voi la tenghiate per mio amore nel vostro luogo.
Costui se la tolse, e ha avuto il bue e la vacca, e niuno non sa dell'altro alcuna cosa: se non che da ivi a pochi dí essendo li due boattieri con la quistione dinanzi al detto officio, e rovesciandosi quasi la cosa addosso a quello che avea donato il bue; e li compagni diceano a quello da piú dell'officio:
- Ciò che te ne pare, quello parrà a noi.
E quelli stava cheto, e non facea parola. Colui che avea dato il bue a costui, che stava mutolo, aspettando da lui avere soccorso, e vedea che non dicea parola, esce fuori con la voce, e dice:
- O che non favelli, bue?
E quei risponde:
- Perché la vacca non mi lascia.
L'uno si volge di qua e l'altro di là.
- Che vuol dire quello che costui ha detto?
E domandandolo, e' diede loro a credere che dicea a sé medesimo; e l'officiale, che avea detto della vacca, disse loro che gli era uno proverbio, che sempre questi mercatanti di bestie usavano quando aveano quistione, ponendo nome a chi avea il migliore della quistione, bue, e a chi avea il peggiore, vacca.
Avvenne poi, come che s'andasse, che quello della vacca vinse il piato; forse ne fu cagione che la vacca, quando fu donata, era pregna, e in quel tempo che si diede la sentenzia, fece un vitello.
Ora cosí spesse volte gli animali inrazionali sottopongono quelli che sono razionali, a confusione di molti comuni, dove non si può aver ragioni, se lepri, o capriuoli, o porci salvatichi non compariscono. E io per me, veggendo questa gelosa consuetudine, farei innanzi un mio figliuolo cacciatore, che legista. E non dirò quello che seguita, per vantarmi d'averlo detto per grandissima virtú, ma averlo detto come uomo, aiutato da maggiore signore; ché la parola non fu mia, ma sua. Io era podestà d'una terra dov'io descrissi le predette novelle; e venendo uno terrazano di quella a domandare di grazia alcuna cosa, la quale, avendola fatta, era e mia disgrazia e mia vergogna, io gliela negai, e non la feci.
Partitosi costui da me, disse alcuno:
- Messer lo Podestà, voi avete perduta una lepre; però che colui che non avete servito in quella sua domanda, è uno buon cacciatore, e avea disposto di mandarve una lepre, se voi l'aveste servito.
E io risposi:
- Se mi avesse data la lepre, io l'arei mangiata e patita; ma la vergogna non si sarebbe mai patita.
E cosí è veramente, come che io mi confesso essere in ciò peccatore come gli altri; ma egli è una gran miseria che una piccola cosa, che all'appetito diletti e dura un attimo, e subito è corrotta, sottoponga e vinca la ragione d'onore, che dura sempre. Ora ne cogliesse e incontrasse a tutti, come incontrò a quel mercatante che donò il bue: e a chi o per avarizia o per gola sottopone la ragione, giú pel palato fusse saziato con quello fu saziato Crasso.


NOVELLA LXXVIII

Ugolotto degli Agli si lieva una mattina per tempo, ed essendoli poste le panche da morti all'uscio, domanda chi è morto égli risposto che è morto Ugolotto, onde ne fa gran romore per tutta la vicinanza.

E' non è vent'anni che fu un Ugolotto degli Agli nella città di Firenze, il quale era magro, asciutto e grande, e avea bene ottant'anni; e sempre, perché era uso nella Magna, volea favellar tedesco; e sempre gli dilettò tenere sparviere, ed era pauroso della morte piú che altro uomo. E come spesso avviene, che nelle gran terre è di nuovi uomini, cosí fra gli altri uno, che avea nome... del Ricco, vocato Ballerino di Ghianda, andò una notte, ché spesso andava attorno, e picchiò l'uscio d'Ugolotto. Ugolotto, che avea la camera sopra l'uscio, si destò, e levatosi, si fece alla finestra. Ballerino tirasi a drieto, e Ugolotto dice:
- Chi è la?
Dice Ballerino:
- Sete voi Ugolotto, voi?
Dice Ugolotto:
- Sí, sono.
Dice Ballerino:
- Sia col malanno, e con la mala pasqua, che Dio sí vi dia.
Dice Ugolotto:
- Aspetta un poco, aspetta un poco -; e piglia una sua spada rugginosa e antica, e scende giú per la scala, percotendo sí la detta spada che Ballerino l'udisse, acciò che si fuggisse.
Ballerino, che ogni cosa udía, e sentiasi bene in gambe, si ferma, e aspetta quello che Ugolotto dee fare. E cosí Ugolotto apre l'uscio, e stropiccia la spada al muro.
- Chi è la? ove se', ladroncello?
Ballerino comincia a latrare, o baiare come un cane, e fare come quando al cane sono tirati gli orecchi. Ugolotto fassi innanzi, e dice:
- Aspetta un poco, aspetta -; e colui fassi in drieto, e continuo l'aizzava, tanto facendo cosí che la famiglia d'uno esecutore, giunto di poco in officio, sopravvenne. Ballerino, che era bene in gambe, levala; e Ugolotto con la spada riman preso, ed ènne menato a furore. E giunto a Palagio l'esecutore domanda; la famiglia dice che 'l trovorono fuori con la spada gnuda. Parve all'esecutore una nuova cosa, e subito il volea mettere alla colla, se non che uno gli disse:
- Costui è vecchio, come vedete; lasciatelo stare di qui domattina, e saprete la verità.
E cosí fece, e con tutto che lo esecutore udisse quello per che Ugolotto era uscito di casa con la spada, non c'era modo (però che egli era de' grandi, e 'l detto esecutore è sopra loro con gli ordini della Justizia) che non lo volesse condennare per turbare il pacifico stato. Alla per fine con molte preghiere se ne levò e fece pagare al detto Ugolotto per la spada lire cinquantadue e mezzo; e tornossi a casa, rammaricandosi, quando in latino e quando in tedesco, di questa noia a lui fatta e della sventura che gli era occorsa. Ma egli stette poco che gl'intervenne peggio che peggio.
L'altra mattina seguente fu andato alla campana da casa Tornaquinci, dove sempre stanno beccamorti alla bottega d'uno speziale, e appena che si vedesse lume, fu bussato, e detto che mandassino a casa gli Agli, che era morto Ugolotto; quanto io, credo che costui fusse anco Ballerino di Ghianda, o Pero del Migliore, che con lui usava.
Come i beccamorti sentirono questo, subito furono presti, e mandorono a spazzare a casa gli Agli e porre le panche.
Ugolotto, levandosi per tempo, però che non potea dormire per la malenconia delle lire cinquantadue e mezzo che avea pagate, giugne all'uscio per uscir fuori, e veggendo queste panche poste, dice a quelli che le poneano:
- O chi è morto?
E que' rispondono:
- E morto Ugolotto degli Agli.
E Ugolotto dice:
- Come, diavol, morto Ugolotto degli Agli! ècci piú Ugolotto di me?
- Noi non ne sappiamo nulla, - rispondono coloro, - né conosciamo Ugolotto; noi facciamo quello che c'è detto.
Ugolotto grida:
- Portate via le panche, che siate mort'aghiado.
Costoro senza toccarle se ne vanno, e diconlo a' beccamorti; li quali, ciò udito, ne vanno là, e come veggono Ugolotto nella via, tutti spaventano:
- Che vuol dir questo?
E Ugolotto fassi incontro a loro, e dice:
- Qual Ugolotto è morto, che siate tagliati a pezzi? per lo corpo di Dio, s'io fussi giovane, come già fui, che voi non faresti mai metter piú panche ad uomo che morisse.
Quelli diceano:
- Voi avete ragione; se colpa ci è, ell'è di chi cel venne istamane a dire.
- O chi fu? - dice Ugolotto.
Dicono coloro:
- Egli era sí per tempo che noi non lo potemmo scorgere.
Dice Ugolotto:
- Serà stato un ladroncello, che mi fece pagare ieri lire cinquantadue e soldi dieci.
Dicono quelli:
- E se voi il sapete, non ne riputate noi.
Dice Ugolotto:
- Io non lo so, chi fosse non posso sapere; ma io me n'andrò testeso all'esecutore -; e messosi in via, cosí fece.
I beccamorti, che aveano tese le panche per beccare, sanza alcun utile se le riportorono a casa; ed Ugolotto si dolse allo esecutore, e del primo caso e del secondo. L'esecutore, avendo la cosa scorta, fra sé medesimo ne cominciò a pigliar diletto; e voltosi a Ugolotto, disse:
- Gentiluomo, avvisiti tu di nessuno che queste cose ti faccia?
Dice Ugolotto:
- Io non mi posso immaginare chi sia.
Disse l'esecutore:
- Pensaci suso, e se nessuno indizio mi darai, lascia fare a me.
Ugolotto disse di farlo, e partissi, pensando e ripensando, tanto che per lo pensare e la vecchiezza e' stette buon pezzo che parea tralunato; e nella fine si diede pace, e innanzi che passassino quindici mesi, le panche si posono da dovero, e fussene fuori.
Perché questo Ugolotto era ubbioso di temer la morte, però trassono nuovi uccelli aver diletto di lui. E veramente ella fu cosa da un suo pari, da darsene e pena e fatica; e a quelli che 'l feciono, fu il contrario; ché se fussi stato un uomo paziente dovea lasciare andare e ridersene, e al pagare de' beccamorti se n'avrebbe riso anco elli.


NOVELLA LXXIX

Messer Pino della Tosa, essendo a uno corredo in casa di messer Vieri de' Bardi, ha una quistione con uno cavaliere, e messer Vieri l'assolve e fa rimanere il cavaliere contento.

Al tempo che messer Vieri de' Bardi vivea a un suo corredo andorono a mangiar con lui molti notabili cittadini cavalieri, tra' quali fu messer Pino della Tosa, uomo grandissimo della nostra città. Il quale messer Pino con un altro cavaliere vennono a ragionare de' fatti di Firenze; ed è vero che 'l detto messer Pino sempre cavalcava una mula, la quale avea tenuta gran tempo. E cosí, ragionando, di parole in parole, vennono in una questione, che 'l cavaliere dicea:
- Con quante barbute si correrebbe Firenze?
Dicea messer Pino:
- Correrebbesi con duecento.
Dicea il cavaliere:
- Non si correrebbe con cinquecento.
E messer Pino ridea, e dicea:
-  E'mi darebbe cuore di correrla con centocinquanta.
E l'altro se ne facea beffe, e dicea cose assai, volendo tener fermo el numero suo. Abbattessi messer Vieri alla detta questione, e dice:
- Di che contendete voi?
- Contendiamo cosí e cosí.
Dice messer Vieri:
- Che dice messer Pino?
Risponde il cavaliero:
- Dice che correrebbe Firenze con centocinquanta barbute.
Dice messer Vieri:
- Io l'ho molto per certo, che correrebbe Firenze, e con assai minor quantità, però che egli ha fatto via maggior fatto, che l'ha signoreggiata con una mula già fa cotant'anni -; e contò un gran numero.
Gli altri cavalieri, che questo udirono, dissono veramente che messer Vieri avea dato buon judizio, e che egli credeano che per la ragione che messer Vieri avea detta, non che messer Pino corresse con centocinquanta lance Firenze, ma che la correrebbe con un asino, quando elli volesse.
E oggi si può molto piú credere questa novella, però che sono assai, che senza cavallo, o asino, e senza correrla, la signoreggiano; e ancora dirò una cosa piú forte, che la signoreggiano senza fare iustizia.


NOVELLA LXXX

Boninsegna Angiolini, essendo in aringhiera bonissimo dicitore, su quella ammutola come uomo balordo, e tirato pe' panni, mostra agli uditori nuova ragione di quello.

Anticamente nella città di Firenze si ragunava il consiglio in San Piero Scheraggio, e ivi si ponea o era di continuo la ringhiera; di che, essendo nel detto luogo ragunato una volta il consiglio ed essendo fatta la proposta, com'è d'usanza, Boninsegna Angiolini, savio e notabile cittadino, si levò, e andò su la ringhiera, e cominciando il suo dire bene e pulitamente, com'era uso, come fu a un passo dove conchiudere dovea quello ch'egli avea detto, e quel subito, com'uomo aombrato, non dice piú; ma sta su la ringhiera buona pezza, e alcuna cosa non dicea. Maravigliandosi gli uditori, e spezialmente gli signori Priori che erano di rincontro a lui, mandorono un loro comandatore a Boninsegna a dirli che seguisse il suo dire; e 'l comandatore subito va appiè della ringhiera, e tirando Boninsegna pel gherone, dice per parte de' Signori, che segua il suo dire. E Boninsegna, un poco destatosi, dice:
- Signori miei, e savi consiglieri, io venni in questo luogo per dire il mio parere su le vostre proposte, e cosí avea fatto insino che io giunsi al passo dov'io ammutolai. E dicovi, Signori, che non che io mi ricordi di cosa che io dovessi dire, ma io sono quasi uscito di me medesimo, veggendo i goccioloni che in quello muro che m'è dirimpetto sono dipinti; ché per certo e' sono i maggiori goccioloni che io vedessi mai. E ancora c'è peggio, che morto sia a ghiado il dipintore che gli dipinse, che dovett'esser forse Calandrino che fece loro le calze vergate e scaccate; sappiate, Signori, chi mai portò calze cosí fatte? di che io vi dico, Signori, che mi si sono sí traversati nel capo, che se non escono, né ora né mai non potrò dire cosa che io voglia.
E scese della ringhiera.
A' Signori e a quelli del consiglio parve questa nuova cosa, e ciascuno ridendo guatava quelli goccioloni. Chi dice:
- O bene! non è egli una nuova cosa a vederli?
L'altro dicea:
- Io non vi posi mai piú mente; chi sono elli?
L'altro dicea:
- E' si potrebbe dire di quelle, che disse una volta uno Sanese sul campo di Siena. Passando uno, che era vestito mezzo bianco e mezzo nero, tutto da capo infino a piede, eziandio coreggia e scarpette; e l'uno disse: "Chi è quello?", e 'l Sanese rispose: "E' tel dice"; io non so chi costoro siano, ma e' tel dicono.
L'altro dicea:
- E' sono profeti.
E l'altro dicea:
- E' sono patriarchi
Come che si sia, e' sono lunghissimi, come ancora oggi si vede, dallo spazzo insino al tetto; e considerandogli ciascuno, come gli considerò Boninsegna, forse che quello che intervenne a lui interverrebbe a molt'altri, e spezialmente veggendogli con le calze vergate e scaccate.
E però veramente al dicitore, che ha a dire bene alcuna cosa, non gli conviene avere l'animo né il pensiero se non solo a quello che dé' dire, però che ogni piccola cosa, che viene alla mente fuori della sua diceria, lo impedisce per forma che spesse volte rimane in su le secche, ed è incontrato già a perfetti dicitori.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
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