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Il Trecentonovelle 66-70

Post n°1343 pubblicato il 09 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXVI

Coppo di Borghese Domenichi da Firenze, leggendo una storia del Titolivio, gli venne sí fatto sdegno che, andando maestri per danari a lui, non gli ascolta, non gli intende, e cacciagli via.

Fu un cittadino già in Firenze, e savio, e in istato assai il cui nome fu Coppo di Borghese, e stava dirimpetto dove stanno al presente i Leoni, il quale faceva murare nelle sue case; e leggendo un sabato dopo nona nel Titolivio, si venne abbattuto a una storia; come le donne romane, essendo stata fatta contra loro ornamenti legge di poco tempo, erano corse al Campidoglio, volendo e addomandando che quella legge si dirogasse. Coppo, come che savio fosse, essendo sdegnoso, e in parte bizzarro, cominciò in sé medesimo muoversi ad ira, come il caso in quella dinanzi a lui intervenisse; e percuote e 'l libro e le mani in su la tavola, e talora percuote l'una con l'altra mano, dicendo:
- Oimè, Romani, sofferrete voi questo, che non avete sofferto che re o imperadore sia maggior di voi?
E cosí si nabissava, come se la fante in quell'ora l'avesse voluto cacciare di casa sua.
In questa cosí fatta furia stando il detto Coppo, ed ecco venir li maestri e manovali che uscivano d'opera, e salutando Coppo, domandarono denari, come che molto il vedessino adirato. E Coppo come uno serpente volgesi a costoro, dicendo:
- Voi mi salutate, e io vorrei volentieri essere a casa il diavolo; voi mi chiedete danari delle case che mi acconciate, io vorrei volentieri ch'elle rovinasseno testeso, e rovinassonmi addosso.
Costoro si volgeano l'uno all'altro, maravigliandosi, dicendo:
- Che vorrebb'egli?
E dissono:
- Coppo, se voi avete cosa che vi spiaccia, noi siamo malcontenti; se noi possiamo fare alcuna cosa, che vi levassi dalla noia che avete, ditecelo, e farenlo volentieri.
Disse Coppo:
- Deh, andatevi con Dio oggi al nome del diavolo, ch'io vorrei volentieri non esser mai stato al mondo, pensando che quelle sfacciate, quelle puttane, quelle dolorose, abbiano aúto tanto ardire ch'elle sieno corse al Campidoglio per rivolere gli ornamenti. Che faranno li Romani di questo? ché Coppo, che è qui, non se ne puote dar pace: e se io potessi, tutte le farei ardere, acciò che sempre chi rimanesse se ne ricordasse: andatevene, e lasciatemi stare.
Costoro per lo migliore se n'andorno, dicendo l'uno all'altro:
- Che diavolo ha egli? e' dice non so che di romani: forse da stadera.
E l'altro dicea:
- E' conta non so che di puttane: avrebbegli la donna fatto fallo?
E uno manovale disse:
- A me pare che dica del capo mi doglio ; forse gli duole il capo.
Disse un altro manovale:
- A me pare che si dolga che gli sia versato un coppo d'oglio.
- Che che si sia, - dicon poi - noi vorremmo e' danari nostri, e poi abbia quel vuole.
E cosí deliberarono di non andare piú a lui per allora, ma di tornarvi la domenica mattina; e Coppo si rimase nella battaglia, della quale essendo la mattina raffreddo, e tornandovi e' maestri, diede loro ciò che doveano avere, dicendo che la sera avea altra maninconia.
Savio uomo fu costui, come che nuova fantasia gli venisse; ma ogni cosa considerata, ella si mosse da giusto e virtuoso zelo.


NOVELLA LXVII

Messer Valore de' Buondelmonti è conquiso e rimaso scornato da una parola che un fanciullo gli dice, essendo in Romagna.


Molti sono che viddono e udirono già messer Valore, e sanno, come che fusse reputato matto, quanto fu reo e malizioso. Egli erano poche cose di che non s'intendesse e ragionasse, con uno atto quasi di stolto. Essendo pervenuto a una terra una sera in Romagna, e favellando dov'erano Signori e gentili uomini, o che gli fusse fatto in prova fare, o che da sé lo facesse, venne un fanciullo, il quale era d'età forse di quattordici anni, e accostandosi a messer Valore, il cominciò a guatare in viso, dicendo:
- Vo' siete un grande calleffadore.
Messer Valore con la mano pignendolo da sé, dice:
- Va', leggi.
Costui fermo; e messer Valore dicendo per sollazzo con costoro dicea:
- Quale avete voi che sia la piú preziosa pietra che sia?
Chi dicea il balascio, chi 'l rubino, e chi l'elitropia di Calandrino, e chi una, e chi un'altra.
Dice messer Valore:
- Voi non ve ne intendete; la piú preziosa pietra è la macina del grano; e s'ella si potesse legare e portarla in anello, ogni altra pietra passerebbe di bontà.
Dice il fanciullo (e tira messer Valore per lo gherone):
- Mo qual volete voi piú, e qual val piú, o un balascio, o una macina?
Messer Valore guata costui, e scostagli la mano da sé, e dice:
- Vanne a casa, pisciadura.
E que' fermo. La brigata comincia a ridere e sí della macina da grano, e sí del detto del fanciullo. Messer Valore dice:
- Voi ridete? Io vi dico tanto, che io ho trovato esser maggior virtú in un piccolo sasso che non è macina da grano, che io non ho trovato né in pietre preziose, né in parole, né in erbe, e pur l'altro dí ne feci la sperienza, e sapete che si dice che in quelle tre cose lasciò Dio la virtú, e udite come, e credo che voi stessi il confesserete. Egli era l'altro dí un giovanetto su uno mio fico, e facevami danno, cogliendo que' fichi che v'erano su. Io cominciai a provar la virtú delle parole, dicendo: "Scendi giú, vanne"; e infine minacciando quanto potei, e' non si mosse mai per le mie parole. Veggendo che le parole non valeano, cominciai a cogliere dell'erbe, e facendo di quelle mazzuoli, le gittava, e davagli con esse alcuna volta, e le furono novelle, che mai si partisse. Veggendo che ancora non mi valevano l'erbe, misi mano alle pietre, e cominciai a gittare verso lui, dicendo: "Scendi giú". Com'egli vedde pur ricorre la seconda pietra, avendo gittata la prima, subito scese a terra del fico, e andossi con Dio. Questo non averebbe fatto quanti rubini e quanti balasci furono mai.
La brigata tutta con grande sollazzo dissono messer Valore aver ragione, e dire il vero; e 'l fanciullo guarda messer Valore con un atto malizioso, e dice:
- In fé di Dio, questo gentiluomo è molto amico delle pietre, e ne deve avere piena la scarsella.
E pongli mano a un carniere ch'egli avea. Messer Valore si volge, e dice:
- Vanne col malanno; chi diavol è questo fanciullo? Serebb'egli Anticristo?
Dice il fanciullo:
- Io non so che Anticristo; s'io potessi far quello che possono gli signori di Romagna, in fé di Dio, che io vi darei tante di queste pietre, che hanno sí gran virtú che portandole in Toscana voi ne andreste ben fornito.
Messer Valore quasi tutto scornato, udendo le parole di questo fanciullo, dice verso la brigata:
- E' non fu mai nessun fanciullo savio da piccolino che non fusse pazzo da grande.
Il fanciullo, udendo questo, disse:
- In fé di Dio, gentiluomo, voi dovest'essere un savio fantolino.
Messer Valore, strignendosi nelle spalle, disse:
- Io te la do per vinta.
E rimase quasi tutto smemorato, dicendo:
- Non trovai mai nessun uomo che mi mattasse, e uno fanciullo m'ha vinto, e matto.
Il piacere che quelli dattorno ebbono di ciò non è da domandare; e quanto piú ridevano, messer Valore piú imbiancava. Nella fine disse messer Valore:
- Chi è questo fanciullo?
Fugli detto come era figliuolo d'un uomo di corte, chiamato o Bergamino, o Bergolino. Disse messer Valore:
- E' m'ha sí bergolinato, che io non ho potuto dir parola, che non m'abbia rimbeccato.
Dice alcuno:
- Messer Valore, menatelo con voi in Toscana.
Dice messer Valore:
- Non che io lo meni in Toscana, io fuggirei di stare là, quando egli vi fusse: fatevi con Dio, e bastivi questo, ché se gli altri Romagnuoli sono della razza di questo fanciullo, e' non ne fia mai nessuno ingannato.
E cosí a Firenze si tornò scornato e beffato da uno fanciullo colui che tutti gli altri beffava.


NOVELLA LXVIII

Guido Cavalcanti, essendo valentissimo uomo e filosofo, è vinto dalla malizia d'un fanciullo.

La passata novella mi fa venire a mente questa che seguita, la quale fu in questa forma. Giucando a scacchi uno d'assai cittadino, il quale ebbe nome Guido de' Cavalcanti di Firenze, uno fanciullo con altri facendo lor giuochi, o di palla o di trottola come si fa, accostandosegli spesse volte con romore, come le piú volte fanno, fra l'altre, pinto da un altro questo fanciullo il detto Guido pressò; ed egli, come avviene, forse venendo al peggiore del giuoco, levasi furioso e dando a questo fanciullo, disse:
- Va', giuoca altrove.
E ritornossi a sedere al giuoco delli scacchi. Il fanciullo tutto stizzito piagnendo, crollando la testa s'aggirava, non andando molto da lunga, e fra sé medesimo dicea: "Io te ne pagherò." E avendo uno chiovo da cavallo allato, ritorna verso la via con gli altri, dove il detto Guido giucava a scacchi; e avendo un sasso in mano, s'accostò drieto a Guido al muricciuolo o panca, tenendo in su essa la mano col detto sasso, e alcuna volta picchiava; cominciando di rado e piano, e poi a poco a poco spesseggiando e rinforzando, tanto che Guido voltosi disse:
- Te ne vuoi pur anche? Vattene a casa per lo tuo migliore, a che picchi tu costí cotesto sasso?
E quello dice:
- Voglio rizzare questo chiovo.
E Guido agli scacchi si rivolge, e viene giucando.
Il fanciullo a poco a poco, dando col sasso, accostatosi a un lembo di gonnella o di guarnacca, la quale si stendea su la detta panca dal dosso di detto Guido, su essa accostato il detto chiovo con l'una mano, e con l'altra col sasso conficcando il detto lembo, e con li colpi rinforzando, acciò che ben si conficcasse e che 'l detto Guido si levasse; e cosí avvenne come il fanciullo pensò; ché 'l detto Guido essendo noiato da quel busso, subito con furia si lieva, e 'l fanciullo si fugge, e Guido rimane appiccato per lo gherone. Sentendo questo, e quel tutto scornato si ferma, e con la mano minacciando verso il fanciullo che fuggiva, dicendo:
- Vatti con Dio; che tu ci fusti altra volta!
E volendo spastoiarsi, e non potendo, se non volea lasserare il pezzo della guarnacca, gli convenne cosí preso aspettare tanto che venissono le tanaglie.
Quanto fu questa sottil malizia a un fanciullo, che colui che forse in Firenze suo pari non avea per cosí fatto modo fusse da un fanciullo schernito e preso e ingannato!


NOVELLA  LXIX

Passera della Gherminella, credendo trovare gente grossa per arcare, ne va in Lombardia, e trovandoli piú sottili che non volea, ritorna a fare il suo giuoco a Firenze.

Passera della Gherminella fu quasi barattiere, e sempre andava stracciato e in cappellina, e le piú volte portava una mazzuola in mano a modo che una bacchetta da Podestà, e forse due braccia di corda come da trottola, e questo si era il giuoco della gherminella, che tenendo la mazzuola tra le due mani e mettendovi su la detta corda, dandogli alcuna volta, e passando uno grossolano dicea:
"Che l'è dentro, che l'è di fuori?", avendo sempre grossi in mano per metter la posta.
Il grossolano veggendo che la detta corda stava, che gli parea da tirarla fuori, dicea di quello "che l'è di fuori", e 'l Passera dicea: "E che l'è dentro".
Il compagno tirava, e la corda, come che si facesse, rimanea e fuori e dentro come a lui piacea; e spesse volte si lasciava vincere per aescare la gente e dar maggior colpo. Quando con questo giuoco ebbe consumato quasi ogni uomo, e spezialmente sul canto de' Marignolli dove si vende la paglia, gli disse un dí uno che di questa sua arte con lui alcuna volta si trovava alla taverna:
- Passera, io m'ho pensato che, se tu vai in Lombardia, la gente v'è grossa, tu guadagnerai ciò che tu vorrai, e spezialmente a Como e Bergamo, che vi sono gli uomini che paiono montoni, sí sono grossi; e se tu vuogli, me ne verrò con teco.
Disse il Passera:
- Sie fatto; quando vogliamo?
- Andiamo in tal dí.
Venuto el dí posto, el Passera col suo consigliere si mosse, e giugnendo a Bologna, dove dall'albergo di Felice Ammannati erano molti e Fiorentini e Bolognesi, come Felice il vede, dice:
- Buon buono! Legatevi le borse, brigata, che ecco il Passera.
Il Passera si partí da giuoco il meglio che poté, e non gli parve di stare in Bologna, né di perdersi la fatica. L'altro dí pervenne a Ferrara; là fu ancora sí conosciuto che non vi approdò alcuna cosa. Andossene a Modona, e quivi in su la piazza tese la rete, là dove non pigliò alcuna cosa. Come va, o come sta, inteso che aveano el giuoco, ciascun s'andava con Dio. Andò a Reggio, e quivi misse innanzi il giuoco, e chiamando a sé gente.
- Che volete voi dire? Guardate questo giuoco.
L'uno tirava una reggiaria e l'altro un'altra: e 'l Passera si volge al consigliero e dice:
- Tu m'hai pur condotto bene.
E quel dice:
- Non ti sgomentare; andiamo pur oltre a Parma.
Provorono; chi dicea:
-E'tira quella cordella.
L'altro dicea:
- E' se la tiri, ché io non voglio apparare testeso giuoco nuovo.
E cosí o peggio a Piacenza, che ben lo piagentavano, dicendo:
- O barba, e che giuoco è questo?
E' poteva assai dire, ch'egli era quivi uccellato. A Lodi su la piazza lodavono il giuoco, e domandovonlo onde egli era. Giunto a Melano, dov'erano le buone borse, gli era detto:
- Mo guarda chi crede arcare li Melanesi!
E in tutte le terre passate non guadagnò soldi venti, che gli scotti gli erano costati piú di cento novanta.
Andaronsene a Como tosto tosto, credendo trovar quelli Comasini grossissimi; e là in su la piazza cacciò il Passera fuori la mazzuola e la cordella.
- Chi mette? e che l'è dentro?
Giugne l'uno e dice:
- A mi che fa?
E quel dice:
- E che l'è di fuori?
E un altro giugne, e dice:
- E che fa a mi?
Mai non gli fu fatta altra risposta.
Andaronsene a Bergamo, a Brescia, a Verona, a Mantova, a Padova e in molte altre terre, e non trovorono chi dicesse, se non: "A me che fa?" e "Che fa a mi?" o peggio tanto che, tornati a Firenze, il Passera trovò aver guadagnato lire quattro e soldi otto, e trovò avere speso in lui e nel consigliero lire quarantasette e soldi. Onde, per rifarsi, cominciò a tender la trappola in Firenze al luogo usato. Il primo dí che vi fu, correvano le genti come se mai non l'avessino veduto, credendo che 'l Passera fusse morto, e ciascuno gli facea festa; e chi piú era caduto alle sue reti per li tempi passati, piú di nuovo vi cadea, e guadagnò co' fatappi in pochi dí ciò ch'egli avea in Lombardia messo al di sotto: dicendo con assai poi questa novella, affermando che tra quanti luoghi avea cerchi, e in Lombardia e altrove, mai non avea trovata gente paolina come là dov'egli era nato.


NOVELLA LXX

Torello del Maestro Dino con uno suo figliuolo si mettono a uccidere dua porci venuti da' suo' poderi, e in fine, volendogli fedire, li porci si fuggono e vanno in un pozzo.


Nella nostra città fu uno pratico e avvisato uomo chiamato Torello del maestro Dino, al quale essendo venuto per le feste di Pasqua due porci da' suo' luoghi da Volognano, che pareano due asini di grandezza; e convenendo che cercasse chi gli uccidesse, acconciasse e insalasse, pensò che ciò non si potea fare senza buon costo; e pertanto disse al figliuolo:
- Ché non uccidiàn noi questi porci noi, e conciànli? noi abbiamo il fante, e risparmierenci i danari che vorrebbe chi gli acconciasse; e credo che noi farèn bene come loro.
E dice al figliuolo:
- Che di'?
E que' risponde:
- Dico che noi il facciamo.
- Or bene, troviamo due invoglie e uno coltellino bene appuntato, e metteremo l'uno in terra; e io - disse Torello - l'ucciderò, e voi lo terrete che non fugga.
Risposono che ben lo farebbono. Torello, recatosi in concio che era gottoso e debole, si mette il grembiule, e chinasi e fa chinare gli altri a pigliare il detto porco per le gambe, e fannolo cadere in terra: come gli è in terra, Torello che avea attaccato il coltellino alla coreggia, se lo reca in mano, e volendo fedire il porco per ucciderlo, e standoli col ginocchio addosso e senza brache, e 'l figliuolo essendo andato per un catino per la dolcia, appena era il ferro entrato nella carne un'oncia, che 'l porco cominciò a gridare; l'altro che era sotto una scala, sentendo gridare il compagno, corre e dà tra' calonaci di Torello. Come il ferito sente il compagno venuto alla riscossa, furiosamente dà un guizzo sí fatto che caccia Torello in terra. In questo giugne il figliuolo, e Torello dice:
- Tu se' stato tu che non torni mai.
- Anzi tu.
- Anzi tu.
E con questa tenzione, il porco uscito lor tra le branche, corre per uno androne, e l'altro porco drietoli, e dànno su per una scala. Torello levatosi, e 'l figliuolo, dicono:
- Ohimè! male abbiamo fatto.
Dànno su per la scala dietro a' porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di qua, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria tra bicchieri e orciuoli, per forma e per modo che pochi ve ne rimasono saldi.
Alla perfine il porco s'accostò al pozzo ch'era su la sala e gittòvisi dentro, e l'altro porco drietogli.
Quando Torello vede questo, dàssi delle mani su l'anche dicendo:
- Oimè, or siàn noi diserti -; e fassi alle sponde guardando nel pozzo. - Che faremo e che diremo?
Alla per fine voltosi al suo fante, il pregò per amor di Dio che si collasse nel pozzo, e togliesse un buon coltello appuntato e una fune, e o vivi o morti pensasse di legarli; ed egli e 'l figliuolo tirerebbon su la fune del pozzo, alla quale accomandasse li detti porci. Il fante bestia volle servire Torello, e preso il detto fornimento s'attaccoe alla fune del pozzo, e còllavisi entro. Come fu giunto giuso, e 'l porco ferito gli dà di ciuffo alla gamba, e quanto ne prese tanto ne levò.
Sentendo il fante il dolore del morso, comincia a gridare: "Accorr'uomo, oimè, oimè!" a sí alte voci che la vicinanza trasse, e truovano cosí fortunoso caso; e saputo come il fatto era ito, dicono a Torello:
- In buona fé, tu hai fatto un bel risparmio; quando tu riaverai questi porci, fara'celo assapere, e peggio è ch'egli averanno morto questo buon uomo che v'entrò dentro.
E fassi alcuno alla sponda dicendo:
- Se' tu vivo?
E quello dice:
- Oimè, per Dio! tirate la fune e io m'atterrò a essa per uscire di qui.
E 'l porco in quell'ora anco l'assanna; ed egli si volge in su:
- Oimè, tirate, ché, se voi non tirate, io son morto.
Alla fine tirarono la fune, come se attignessero acqua; ed eccoti il tristo su con una gamba guasta e tutta stracciata, che piú mesi ne penò a guarire, e gridava:
- Oimè! Torello, a che partito me avete messo? io non serò mai piú uomo.
Torello dicea:
- Sta' cheto; io ti farò medicare al maestro Banco che è molto mio amico, ma de' porci come si fa?
Dice il fante:
- Il pensiero sia vostro, che volete tòr l'arte a' tavernai.
Alla per fine e' s'andò per due beccai che desseno e consiglio e aiuto: e dissono voleano d'ogni porco fiorini uno a trargli del pozzo. Torello, veggendosi mal parato, disse:
- Sie fatto.
E domandorono se gli volea uccidere, però che laggiú convenía s'uccidessino. Disse di sí:
- Fate tosto, e fate come voi volete.
Allora l'uno s'armò come se andasse a combattere, e con uno coltello appuntato a spillo andò giuso, e brieve, dopo gran pena, gli uccise, e legati prima l'uno e poi l'altro alle funi del pozzo, gli tirorono fuori: dell'acconciatura poi gli pagò quello se ne venía, che fu forse un altro fiorino. L'acqua del pozzo rossa di sangue umano e di sangue porcino, convenne che in poco tempo si rimondasse, e lavasse il pozzo piú di otto volte, e costò bene fiorini tre. I porci non ebbono dolce, la carne fu tutta livida e percossa, e fu assai di peggio. Or questo risparmio fece questo valente uomo ch'e' porci valeano forse dieci fiorini ed egli ne spese poi forse altrettanti, senza le beffe che furono via piú.
La novella detta, per alcuno giovane fu già scritta, e molto piú lungamente, però che mette ch'e' porci andorono in cucina e in quella tempestorono ciò che v'era. E questo non fu vero; però che quello della cucina avvenne a uno gentiluomo de' Cerchi, vicino di Torello, che, sentendosi piú giovane e meglio in gambe di lui, volle provare d'uccidere un suo porco; il quale da lui fedito, come questo, sí gli uscí tra mani, e correndo su per la scala, imbrattando ogni cosa col sangue, n'andò in cucina, e là fece gran danno, tempestando ciò che v'era. Questi porci mi fanno ricordare d'alcun'altra novella, per lo serrarsi insieme, quando sono offesi, la quale racconterò qui da piede.

 
 
 
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