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Il Meo Patacca 12-3

Post n°1338 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

C'è di sassi un montone, sù ce sale
MEO, ch'all'istante da cavallo smonta,
Lo seguitano i sui con furia tale,
Che parono de razza rodomonta;
El nemico sul muro ecco s'assale,
Una squadra coll'altra ecco s'affronta,
E questo stesso, in altre parti pure
Si fà, dove ci son nove aperture.

A corpo a corpo col Bassà baffuto,
MEO combatte in maniere così strane,
Che pare un odio vero habbiano havuto,
E che in realtà si dian botte da cane;
Fa ogn'un di loro il bravo e 'l menacciuto,
Con vere sciable, e vere dorindane,
Et alla disperata si lavora,
Conforme fanno l'altri sgherri ancora.

Par, che la vita mettino a sbaraglio;
Stanno tutti però con avvertenza
Di menà sol di piatto e no di taglio,
Bastandogli del vero l'apparenza.
Male non se ne fà, se no pe' sbaglio,
Et a chi tocca, bigna havè pacenza;
Pur ch'uno mostri spirito, e bravura,
Benchè ferito sia non se ne cura.

Più d'un tamburro allor, più d'una tromba
Sonà si sente e urtandosi ogni sferra,
Ogni sciabla, uno strepito ribomba,
Che pare giusto, de vedè una guerra.
Chi pe' la breccia scivola, e giù piomba,
Chi come morto, sta disteso in terra,
Chi cede ai colpi, e chi parate ha franche,
E 'sta buglia si fa con armi bianche.

C'è chi a vento, gagliarde moschettate
Giù dalla strada alla fortezza spara,
Con simili altr'e tante archibusciate,
C'è chi di drento gli risponne a gara.
C'è chi rifibbia ancor saioccolate,
E chi le scanza, e chi non le ripara;
Ma consistono queste in torzi, e coccie,
Et in carte aggrugliate, come boccie.

Taccola ancora col Bassa rugante
MEO PATACCA, e non lassa di straccallo,
Te gl'alza in su la gnucca uno spaccante,
E infiacchito colui, non pò parallo.
Te gl'appiatta la sciva in sul turbante M
a par che dia di taglio, e lui sà fallo
Così ben, così presto, che fa crede,
Gl'habbia arrivato al capo, a chi sta a vede.

De fatto, il Turco allora tracollò
Fingenno non potersi regger più,
Sopra la breccia languido restò,
A cianche larghe con la panza in sù.
Ch'era affatto sballato dimostrò,
E seppe MEO, perchè assai lesto fù,
Visto giù steso il perfido Bassà,
Prima d'ogn'altro, in te la piazza entrà.

Più a resistere allor non furno boni
I Turchi senza 'l capo, assai scontenti,
E li sgherri di MEO, come lioni,
Entrorno pe' sbranà li difennenti.
Questi già s'offerivano priggioni,
Mentre si cognoscevano perdenti,
Ma quelli sordi a barbare preghiere,
Tutti accopporno, senza da' quartiere.

De 'st'assalti, e 'st'acciacchi, è ver che finti
Son tutti i casi, e che son giochi, e spassi,
Che sono amichi i vincitori e i vinti,
Che fanno da poltroni anche i smargiassi,
Che vivi quelli son, ch'arreto spinti
Cascano come morti in sopra ai sassi,
E puro allor ch'una fintiva è questa
C'è chalch'un, ch'in realtà ferito resta.

Benchè ogni botta data sia de piatto,
Non fa in tel capo troppo bon effetto,
Perchè, chi mena, mai non fece il patto,
D'esser i colpi a misurà suggetto.
C'è poi, chi in tel cascà male s'è fatto,
Le coste urtanno su le pietre, o 'l petto,
Dà al popolo terror danno verace,
Solo il danno ch'è finto, è quel che piace.

Ma con tutti 'sti chiaiti, oh che baldoria!
Oh che festa si fà da chi è presente!
Pe' principal autor della vittoria
MEO, da per tutto celebrà si sente.
Lui, se ne sta in tel mezzo, e con gran boria,
Ma collera si piglia, e giustamente,
In tel vedè, ch'a un tratto, la canaglia
Si porta via li pezzi di muraglia.

Fava di questa tela capitale,
Havenno disegnato di donalla
A Nuccia, che mostrò bravura tale,
Che lo fece invoglia di regalalla.
Anzi, ch'un certo affetto maritale
Gl'incominzò a venir, e d'accettalla
Pe' sua sposa, allor propio si risolze,
Però del latrocinio assai si dolze.

Stava Nuccia vestita alla zerbina
La gran festa a vedè su 'na loggetta,
Che trovata gli haveva una vicina,
E sverzellava allegra, e sfarzosetta.
Pe' parè giusto poi 'na Paladina,
Se tiè carica, in mano una terzetta,
E un'altra accanto, e quelle son, che MEO,
Già donate gl'haveva in sul Tarpèo.

Si picca di sgherretta, et alli spari,
Ch'alle finestre, o su le porte, o fora,
Fanno a onor di PATACCA i bottegari,
Accoppia lei le sue sparate ancora.
Dello spirito, ch'ha da segni ciari,
Quanto scarica più, più s'avvalora,
Fa vedè, ch'a dispetto della gonna,
Vanta maschio valore in cor di donna.

PATACCA a una tal vista ce s'ingrassa,
Lei se n'accorge, e di sparà non cessa;
Già, d'essere glie pare una gradassa,
Facenno prove da capitaniessa.
Lui scegne, e lì da lei, più volte passa,
Di falla diventa MEA PATACCHESSA
Gli viè la voglia, e in quella poi si fissa,
Nè l'incertezza e il cor fanno più rissa.

Parendogli un'amazzone guerriera,
Vedenno ch'al suo genio s'assomiglia,
Sposalla intenne in quella stessa sera,
E renner al su' affetto la pariglia.
Di sgherri haveva attorno una gran schiera,
Di questi alcuni pochi se ne piglia,
E li mena con lui là dove stava
Nuccia con le terzette, a fa' la brava.

Arriva sotto e raschia, e lei lo sente,
E puntuale a quello corrisponne,
Ma con un raschiettino differente,
E graziosetto, ad uso delle donne.
Dice lui sotto voce, se al presente
Salir potrìa de sopra, e lei risponne,
Che ne domanderà, pe' convenienza,
Ai patroni de casa la licenza.

Abbitavano quì moglie e marito,
Che fecero non solo dei parenti,
A quella festa un general invito,
Ma dell'amiche ancora e conoscenti.
Perchè dunque PATACCA sia servito,
Parla Nuccia all'istessi, e assai contenti
Quelli coll'altri tutti si mostrorno,
Anzi sommo favore lo stimorno.

Come che haveva MEO gran nominanza
Pe' le su' tante grolie, hebbero a caro
Tutti di ritrovarzi a st'incontranza,
E de fa' onore a chi ha valor sì raro.
Perchè trattato fusse con creanza,
Della casa il patron, ch'era merciaro,
Scese col lume, (e Nuccia vien d'appresso)
Giù alla porta, a riceverlo lui stesso.

Quanno s'accorze MEO, che già veniva
Gente a raprirgli, e che salir poteva,
Far volze una cascata assai curriva,
Che il puntiglio d'onor lo mette a leva.
Ordina a un sgherro suo, che lo serviva,
Allor che pe' 'ste feste lui spenneva,
Che crompi de' confetti, e che c'infraschi
Nocchie, pistacchi, e pigli vino a fiaschi.

Rapre il patron la porta, e assai sparate
Non di bocche di foco, ma di carne
Furno intese in tel fa' cerimoniate
Tutti due, quante mai seppero farne.
Così fu MEO con le su' camerate
Introdutto, ma Nuccia pe' mostrarne
La contentezza, c'ha mentre lui sale,
Te lo salamalecca a mezze scale.

De sopra appena arriva MEO, ch'ogn'uno
Perchè stima ne fa, s'arrizza in piede,
Ma lui ch'incommodà non vuò nisciuno,
Fa istanza a tutti, che si torni a sede.
S'assettano le donne, ma ciasch'uno
Dell'homini profidia, e non vuò cede.
PATACCA incoccia, e litiga un pezzetta,
Ma co' i su' sgherri, è ad ubbidì costretto.

A tutti fa un saluto circolare,
Poi con prosopopèa cominza a dire:
"Io ben conosco, e non lo so negare,
Signori miei! che troppo fu il mio ardire.
Certo vi son venuto a disturbare,
Ma spero che m'habbiate a compatire;
Nostrodine lo sà, che fece errore,
Ma causa fù del mancamento Amore.

Di lor altri ad ogn'un serva d'avviso,
Ch'io porto antico, et obrigato affetto
Alla signora Nuccia, e che fu intriso
Sempre il mio cor d'amore, e di rispetto".
(Quì l'occhi abbassa, e si fa roscia in viso
Nuccia con un modesto sogghignetto),
"Ma voglio, che cognosca in questa sera
S'è questa mia benevolenza vera.

Mentre che botte spara, e che sgherreggia
Com'una romanesca Bradamanta,
Da me 'l suo gran valore si vagheggia,
E 'sto mio core stupido s'incanta,
In vede, che com'io quasi guerreggia.
Subbito un bel penziero me se pianta
In tel mezzo alla gnucca, e tra me stesso
Dico: "Mia sposa, io voglio farla adesso".

Perch'habbia effetto mò, quel che penzai,
Vorria quì propio dargliene la fede,
E de 'sta confidenza, che pigliai
Di venir qua, perdon da me si chiede".
Sì presto un tal favor non sperò mai
Nuccia, ch'incontro a MEO PATACCA sede,
Bench'habbia gusto granne de 'sta cosa,
Pure, ce fa un tantin la schizzignosa.

Prima, smorta divien, poi colorita.
Fissa in terra li sguardi, e poi li volta
Inverzo MEO, ma solo alla sfuggita,
E torna ad abbassalli un'altra volta.
Se ne sta savia savia, et intesita,
Vergognosetta alfin, la lingua sciolta
In parole dolcissime, gli dice:
"Più che sposa io sarà Sua servitrice".

Allor di prausi ribombò la stanza,
E si dettero segni d'allegria,
Lodandosi da quella radunanza
Dell'uno e l'altra la galanteria;
Poi della fede la reciprocanza
Dei circostanti ogn'un vedè vorria,
Et ecco, che in un subbito si fece
Tra li due sposi il cinque e cinque a diece.

Già prima biscottini, e ciammellette
Crampo haveva el patron pe' farzi onore,
E appena 'sto bel fatto succedette,
Che lì portà li fece dal fattore:
Erano più bacili, e poco stette
A ritornà lo sgherro spennitore.
Li rinfreschi s'uniscono, e d'accordo
Si dà principio al general bagordo.

S'alza la grolia s'alza, e si sboccona,
E certo, non ne manca del dolciume;
Ce n'è a bizzeffe de 'sta robba bona,
E quì dir si potria: s'affoga Fiume.
Nuccia fa la figura di patrona,
E nisciun propio, senza lei prosume
Di toccà gnente, e al solito ogni cosa,
Prima ch'a ogn'altro, portasi alla sposa.

Ma lei che non si perde in te la folla,
Ch'è giovane sacciuta e pizzutella,
Di provedè le femmine s'accolla
El peso, e dà la parte a questa e a quella.
Così fa MEO coll'homini, e satolla
Ne resta la brigata, e si sbordella,
Ma solo in brinzi e prausi, e perchè brilla
D'allegrezza ogni cor, però si strilla.

Tutti doppo da casa insieme uscirno,
E a spasso in giro pe' le feste annorno,
Molt'altri sgherri poi con MEO s'unirno,
E lui con la sua sposa accompagnorno.
Li "Eh! viva", a piena bocca si sentirno,
E non sol, per un pezzo seguitorno,
Ma pe' le strade sempre più crescerno,
E li dui sposi gran piacer n'haverno.

Vistosi intorno MEO popolo assai,
Si ferma, e dice: "O cari amici miei!
Sappiate, che finor tra me penzai,
Che troppo è quell'onor, ch'io ricevei.
È ver che pe' 'ste feste fatigai,
Ma una minima parte non facèi
Di quello che dovevo, e non so poi,
Perch'io tante onoranze habbi da voi.

Ma sia quel che si vuò, tutti ringrazio
D'un tamanto favor, e v'assicuro,
Che di quanto già feci, io non so' sazio,
Ch'altri acquisti, e vittorie mi figuro.
Allor farò de i Turchi un novo strazio;
Per l'onor mio, per la mia sposa, il giuro.
Quante sconfitte havranno, io già l'aspetto,
Di far tant'altre feste v'imprometto".

O mò sì, che per aria i strilli vanno,
E le grolie di MEO pel tavoliere;
Quelli, ch'inteso el su' parla non hanno,
Che cosa ha ditto cercon di sapere;
Ci han gusto loro pur, mentre lo sanno,
Così han fine le feste, e a più potere
Strilla dei sgherri allor la comitiva:
"Eh viva sempre MEO PATACCA, eh viva!".

Fine del Duodecimo ed ultimo Canto.

 
 
 
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