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« Le penna d'ocaLi cannibbali »

Il Meo Patacca 12-2

Post n°1336 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Colcano i romaneschi allor la botte,
Poi ruzzicà la fanno, e drento resta
Il Giudìo, che gli dànno delle botte
Se gnente fora vuò caccia la testa.
Certo, che n'anderìa coll'ossa rotte
Se durasse per lui sì brutta festa,
Ma fu impedita dai patroni istessi
Di quel palazzo, con commanni espressi.

Parve a 'sti discretissimi signori
Un troppo strazio 'sto ruzzicamento,
Però mandorno giù li servitori
Per liberà l'Ebreo da quel tormento.
Fu da questi aiutato a scappà fori,
E nisciuno d'opporzi hebbe ardimento,
Ma in tel vedello poi così azzuppato,
Dal popolo lo strillo gli fu dato.

Pare un pulcino uscito dalla coccia.
Nel moverzi impicciato, e dove passa,
Mentre il vestito da ogni parte goccia,
Della su' bagnatura il segno lassa.
Ma quel ch'è peggio poi, giocanno a boccia
Stavano certi allor, che lui trapassa,
E mentre uno a strucchià si mette a posta,
Gli dà ne i stinchi una bocciata tosta.

Mezzo sciancato el povero Bacurre
Va inciampicanno, e in tel fuggì s'imbroglia,
L'azzoppatura gl'impedisce il curre,
E meno lo pò fà, più che n'ha voglia.
Innanzi e arreto il popolo gli scurre,
Lui con questo s'impiccia, e alfin si sbroglia.
Al Ghetto se ne va, ma 'l disgraziato
Non pò rentrà non pò, perch'è inserrato.

O adesso sì, che chalched'un l'accacchia,
E lui per questo più si spauricchia,
Lo salva un'osteria, che La Cornacchia
Fà per insegna, ove ogni dì sbevicchia;
Rentra, e dereto al banco s'accovacchia;
E attaccatosi all'oste, si rannicchia;
Ma più d'un sgherro a fargli s'apparecchia
Assai peggio dell'acqua della secchia.

I garzoni dell'oste allor abbracciano
Quelli, ch'a forza, di rentrà procurano,
Li trattengono, e poi fora li cacciano,
E lo scampo al Giudio così assicurano.
Serran la porta, e i sgherri allor s'affacciano
Alla mostra, ma l'osti, ecco la turano
Con le tele, e ciariti così restano
Coloro, che l'Ebreo più non molestano.

De 'ste difese, e de 'ste grazie ostesse
La causa fu, ch'era avventor antico,
E che lì fava gran baldorie, e spesse,
Se al par d'ogn'altro era del taffio amico.
Così più dell'amor fu l'interesse,
In liberallo da sì brutto intrico,
Anzi, che quanno affatto uscì de guai,
Li regalò assai ben lo Sciabbadai.

Ogni poco succedono 'sti casi,
Mò scappà gli riesce, e mò so presi
I meschini fuggenno, e quasi quasi,
Ne restan certi gravemente offesi.
Basta ch'un sgherro da lontano annassi
Ch'è Giudìo, quel che viè, ch'a passi stesi
L'arriva, e poi ne fanno altri sgherrosi
Strapazzi, poco men che sanguinosi.

Al Ghetto MEO fratanto se ne viene
De i garbugli all'avviso, et osservata
Così gran tibaldèa non si contiene
Di farci a prima vista una risata.
Fermo, chalche pochetto, s'intrattiene,
A vedè 'sta piacevole sgherrata,
Che tale gli pareva, anzi l'approva,
Perchè spiritosaggine ce trova.

Ma quanno lui si va accorgenno alfine,
Ch'i sgherri tutti so' infoiati a segno,
Che par voglino fa' delle ruine,
Che non hanno risguardo, nè ritegno;
Che già portano certi le fascine,
Pe' dar foco alle porte, e che l'impegno
È troppo ardito, fra sè stesso penza,
Di raffrenà una tanta impertinenza.

Già prevede quel mal, che pò succedere,
E che questa non è cosa da ridere,
E lassannoli fa', ben si pò credere,
Che quantità d'Ebrei s'habbia da uccidere.
Già sa ch'havranno li scontenti a cedere,
Se per paccheta già li sente stridere,
Che s'a i portoni lassa il foco accendere
El Ghetto allor non si pò più difendere.

Perchè ciò non si faccia, attorno gira,
A chi fa zenno, et a chi parla piano,
A chi forte, chi via pel braccio tira,
A chi leva li rocci dalle mano.
Brava, minaccia, e allor chi si ritira.
Senza fiatà, chi se ne va lontano,
E basti il dir ch'ogn'un l'orgoglio affiacca,
Pe' 'l rispetto, che porta a MEO PATACCA.

Ecco col giorno, viè a finì lo spasso
Dei radunati sgherri, e fu dismesso
L'assedio d'un essercito smargiasso,
Ch'a 'ste porte del Ghetto s'era messo.
Allor l'Ebrei, che l'ultimo sconquasso
Si credevano havè quel giorno stesso,
Vedenno il gran pericolo rimosso,
Si discacciorno ogni timor da dosso.

Così a bastanza il popolo si sfoga,
Et a PATACCA d'ubbidì non nega,
E a quell'autorità, che lui s'arroga,
Perchè per il ben pubrico l'impiega.
Procurò di sapè la Sinagoga.
Già liberata da sì brutta bega,
Chi quello sia, ch'umilia, e mette in fuga
'Sta Gente Sgherra, che con tutti ruga.

Ma senza uscir dal Ghetto in quella sera
Congregati i Bacurri in te li scoli,
Pe' discorrerla un pò, seppero ch'era
PATACCA il capitan de i sassaioli:
Un Giudio lo vedè da una ringhiera,
Dove havevano fatto i capannoli,
E fu quello, ch'a nolito le robbe
Gli dette da guerriero, e lo conobbe.

Fattasi la congrega, si risolze
Mandargli un bel regalo, e chi propose
Un sbruffo di monete, e chi non volze,
Chi penzò a gioie, e chi a diverze cose.
Ma d'ogn'altro Giudio meglio ci colze,
E con giudizio ci su' penzier espose,
Che fu molto a proposito l'Ebreo,
Che haveva visto, e cognosciuto MEO.

A tutti da costui fu suggerito,
Che saria stata cosa conveniente,
Il trovà quel medesimo vestito,
Che pigliò in presto, e fargliene un presente.
Per essere assai bello, e ben guarnito,
E aggiustato al su' dosso, certamente
Che havuto l'haverebbe molto a caro,
Più assai de chalche somma di denaro.

Piace il penziero, e in opera se mese,
E ce s'aggiunze ancora al vestimento
Un spadino galante alla Franzese,
Che havea la guardia et il puntal d'argento.
Un de i primi Rabbì cura se prese
D'annà da MEO pe' fargli el complimento
Con dir, che a lui tutti obbrigati sono
Li Jaccodimmi, e presentagli el dono.

Da 'sto Rabbì restò ben persuasa
La Sinagoga, e l'abbito, in tel vano
D'una canestra fonnarella e spasa,
Messo a cuperto fu da un taffettano.
Và lui da MEO, che s'era già la casa
Fatta insegnà, e 'na donna, da un mignano,
Dice ch'è uscito, e ch'a trovallo vada,
Che sta a parlà con un amico in strada.

Se gl'accosta el Rabbì, ch'un Giudiolo,
Che gli porta el regalo, s'è menato,
Lo sbarretta, e gl'inchina el cucuzzolo,
Gli fa il ringraziamento concertato;
Gli sporge il dono, e MEO lo scrope, e solo
Gli dà una vista, e dice, a lui voltato:
"L'accetto, lo gradisco, e a te lo rendo,
Perch'io dono le grazie, e non le vendo.

Voglio però, commanno, e s'ubbidisca,
Che quanno s'haverà l'avviso certo
Della vittoria, il Ghetto s'ammannisca
A far con noi le feste di concerto;
Nisciun ci sia di voi, che contradisca,
Ma siano tutti pronti, e te l'avverto,
Che se in questo s'ardisce di mancamme,
Oh allora sì, va 'l Ghetto a foco e a fiamme".

El Rabbì si spaventa a 'sta minaccia,
E quasi quasi trema de paura;
Che tutto si farà quel ch'a lui piaccia,
A nome dei compagni l'assicura;
Poi di novo s'arrisica, e si sfaccia,
Lo prega, lo riprega, lo scongiura,
Che accetti el dono, e MEO con albascìa
Fa un gesto di rifiuto, e marcia via.

Tornò al Ghetto costui, tutto ridisse,
Et in particolar l'ordine havuto.
Parze un pò duro, ma, che s'ubbidisce,
Fu dalla Sinagoga risoluto.
Aspettanno si stette, che venisse
Un più sicuro avviso, e alfin venuto,
L'Ebrei de fatto fecero le feste,
Ch'a loro già da MEO furno richieste.

Alle porte vicine a Pescaria
Gnente si fece, perchè dolorosa
È quella strada, e non si goderia,
Benchè ci fusse da vedè chalcosa;
Solo il portone di piazza Giudia
Con un'acconciatura luminosa,
Pe' forza sì, ma però bene ornorno,
Messici i lampadini, attorno attorno.

D'oglio e di cera se ne fa uno struscio,
A zaganelle e razzi si dà spaccio,
Delle botti si vede ancor l'abbruscio,
Che fanno in drento al Ghetto un focaraccio.
Non c'è finestra, non c'è porta o buscio,
Dove non ce se veda Ebreo mostaccio;
Stanno tutti a guardà, scionìti e perzi,
Cose nel Ghetto inzolite a vederzi.

Sul su' cavallo giostrator che vola,
MEO ci dette una scorza, in prescia in prescia;
E appena tempo havè, di darci sola,
In tel passàne, una guardata sbiescia.
Tanto però gli basta, e si consola,
Che 'sta festa a su' modo gli riescia.
Poi via scivola presto, e va a drittura
Dove ha negozio di più gran premura.

D'ordine suo le voci eran già sparze
Pe' Roma, che nisciun deva astenerze
Di rinovà le feste, e ben gli parze,
In quel jusso, che havea, di mantenerze.
Et ecco in giro machine e comparze,
O somiglianti, o almen poco diverze
Dalle già fatte prima, e piacquer forze,
O al paro, o più di quelle a chi ci accorze.

Più facile saria, che si contassero
In drento a un lago i ciuchi lattarini,
Che quanti giusto son, si computassero
L'Autunno, in un tinello, li moschini;
Ch'i peli tutti ancor si numerassero
Nelle barbe di cento levantini,
Ch'il numero raccoglier d'ogni festa,
Ma tutte io lasso, e sol dirò di questa.

For di piazza Navona, ma vicino
A un capo dell'istessa, in un biscanto,
C'è la famosa statua di Pasquino,
Che da per tutto nominata è tanto.
C'è uno spazio più in là, dove ha 'l confino
Della Cuccagna il vicolo, et alquanto
È largo, e attorno ha ricchi bottegari:
Ce fanno piazza li matarazzari.

S'affrontò, ch'in tel mezzo ammontonate,
In quantità di dicidotto, o venti,
C'erano grosse pietre ritrovate
Nel farzi d'una casa i fonnamenti.
Costorno, a forza d'argani tirate
In sopra a terra, assai monete e stenti,
Et ha MEO dalla sorte un gran favore,
Che su quel d'altri si pò far onore.

Su questi sassi el su' penzier lui fonna,
E gli pare haver trova una Cuccagna;
Quì Buda ci figura, e la fà tonna,
E di spenderci assai non si sparagna.
Di travi da per tutto la circonna,
E quantità di tela di Bevagna
Fa stirà intorno a quelli, et ecco finta
La fortezza real di muro cinta.

Compagni di valor mette quì drento,
C'han l'armi alla Turchesca, et i vestiti;
Questi son quasi in numero di cento,
E si mostrano all'opera ammanniti;
C'è poi con certi baffi da spavento,
El Bassà, che commanna, e tutti arditi
Par che stimino facile l'impresa,
Di far una bravissima difesa.

MEO de fora, a cavallo, c'ha in aiuto
Molti sui sgherri, che tenea nascosti,
La fà da commannante potenziuto,
Là te li mena, e te li mette ai posti.
Scurre in più parti, tutto faccennuto,
Sino, che con bell'ordine disposti
Vede sotto le mura assai valenti,
Pronti all'assalto, li su' combattenti.

Si finge de sparà l'artigliarìa,
Ma tal cosa non c'è, son mortaletti,
Che fan sentir guerrifica armonìa
Dal sono accompagnati dei moschetti;
Giusto di cannonesca batterìa
Le botte si figurano, e l'effetti.
Si finge ancora, che razzeschi fochi
Sieno mine, e si fa breccia in più lochi.

C'era chalch'uno, ch'alla tela accosto,
Ma di drento, un cortello haveva in mano,
E pe' non farzi vede, e star nascosto,
S'annava ringriccanno come un nano;
Ma allor quanno più cresce il tiritosto
Del foco, delle botte e del baccano,
Mentre el popolo sta senz'abbadarci,
Taglia el muro de canapa in più squarci.

 
 
 
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