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Il Meo Patacca 12-1

Post n°1331 pubblicato il 08 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO DODICESIMO

ARGOMENTO

L'avviso in Roma vie, che Buda è presa
Da' nostri, et in un subbito fu detto,
che co' i Turchi, l'Ebrei l'havean difesa,
Onde fu dato un fiero assalto al Ghetto.
MEO ferma il chiasso, e finge (doppo intesa
La vera nova), a Buda assedio stretto,
E l'acquisto ne fa. Nuccia animosa
Spara terzette, e lui però la sposa.

Già del Sol la lunatica sorella,
Che mò scarza è di luce, e mò n'abbonna,
Più volte in ciel co' la su' faccia bella
S'era fatta vedè, guanciuta e tonna.
Già tutta del zodiaco la stradella
E 'l su' carnale dalla cioma bionna,
Due volte, delle tenebre a dispetto,
Scurza haveva sul Lucido Carretto.

In Roma allor aspettativa granne
C'era d'un'altra et importante nova,
Ogni poco, un avviso se ne spanne,
Diverzo un altro poi se ne rinova;
Sempre fa, sempre reprica domanne
A i novellisti MEO, quanno li trova,
Ch'assai d'havè gli preme, e ci sta all'erta,
Di nova impresa una notizia certa.

Già gli va pe' la gnucca, e già architetta
Un non so che di granne in tel penziero,
Però chalchosa di sentir aspetta,
E di poterzi assicurà del vero.
Ogni volta, ch'arriva una staffetta,
O capitanno va chalche curriero,
Te gli viè addosso subbito la smania
Di sapè, se venuto è da Germania.

La gran faccenna haveva già intrapresa
El vincitor essercito Alemanno,
D'assedià Buda, così ben difesa
Sotto il commando del Bassà Ottomanno.
S'aspettava sentir che fusse presa,
Ma l'avviso s'annava prolonganno,
Ch'a dire il vero, essendo forte assai,
Pe' potella abbuscà, c'eran de' guai.

Quand'ecco a un tratto, un bisbiglià si sente
Tra 'l popolo, un susurro, un'allegria;
Currono più perzone assai contente,
Altre vanno a sapè, che cosa sia.
Si fa un gran parapiglia, e finalmente
Si dice giusto quel, ch'ogn'un vorria,
Ch'appunto allor la nova era arrivata,
Che Buda in man de' nostri era cascata.

Che co' 'na resistenza assai cocciuta
Sino all'estremo, in sopra a la muraglia,
Havevano li Turchi sostenuta
Una sanguinosissima battaglia;
Che s'era alfine la vittoria havuta,
Perche la nostra fu gente de vaglia;
Che con i Turchi ancor furno veduti
Far l'Ebrei, su le mura, i menacciuti.

Sul mezzo dì, pe' la città si sparze
'Sta nova appena, e la sentì la plebbe,
Ch'arrabbiata di collera tutt'arze,
E li Giudii, già lapidà vorrebbe.
Cominzano i regazzi a radunarze,
Marciano verzo il Ghetto, e allora s'hebbe
Pacchetta dall'Ebrei; ma si trovorno
In un attimo pronti, e lo serrorno.

Il Ghetto è un loco al Tevere vicino
Da una parte, e dall'altra a Pescaria;
È un recinto di strade assai meschino,
Ch'è ombroso, e renne ancor malinconia,
Ha quattro gran portoni, e un portoncino;
Il dì s'apre, acciò el trafico ce sia,
Ma dalla sera, inzino a giorno ciaro,
Lo tiè inserrato un sbirro portinaro.

Cominza intanto ad attaccà la buglia
Quantità di sgherretti ciumachelli.
Non ci son forzi tante mosche in Puglia,
Quanti so' sti rabbacchi foioselli.
El negozio, bel bello s'ingarbuglia;
Mettono allor l'Ebrei stanghe e puntelli
Pe' difenner le porte già inserrate
Da spinte e calci, e da saioccolate.

Perchè so' 'sti portoni un fracidume,
C'è gran bisogno di fortificalli,
Ch'al sicuro andarebbero in sfasciume
A tante botte, senza appuntellalli.
Ecco, giovani fatti, al regazzume
S'uniscono, e la gente in osservalli,
Ci ha gusto in tel principio, e par che sia,
E gioco, e spasso, e sfogo d'allegrìa.

Ma poi vedenno che si fa da vero,
E ch'alla disperata si commatte,
Ch'ancor s'incoccia, e che non c'è penziero
Di fa' bastà le sgherrarìa già fatte.
S'accorge che 'st'assalto è troppo fiero,
Che presto li Bacurri pe' le fratte
Potriano annare, e haver non solo un sacco,
Ma quel, ch'è peggio, un sanguinoso acciacco.

Fanno 'sti sgherri un tal menà de mani,
Che chi sta a vede, ancor ci ha 'l su' spavento.
E inferociti come tanti cani
Vorriano divorà quelli di drento;
Sfonnà finestre, e sfragassà mignani,
Sfogo è di rabbia, pe' l'impedimento
Ch'hanno d'entrà, mentre che fan le porte
Puntellate assai ben, riparo forte.

El gran assalto facile riesce,
Che grossi rocci da cercà non s'hanno,
E però, sempre più, la furia cresce
Delle saioccolate, che si dànno;
Poco lontano c'è 'l cotìo del pesce,
E le cirigne quì appoggiate stanno
A' selci, che l'appuntano da' fianchi,
Restano quelli poi su certi banchi.

Se ne servono dunque i sassaioli,
Pe' fa' quanto più pònno de sconquassi,
Ma poi nelle sciamate non son soli,
Ch'altri ci son, ma non addropan sassi.
Fan servir di granate i dindaroli,
Li slanciano, e procurano che passi
Ogn'un di questi le Giudaiche Mura,
Pe' fa' danno ai nemici, o almen paura.

È il dindarolo un coso piccinino
Fatto di greta cotta, e quasi è tonno,
Drento è voto, et in cima ha un bottoncino,
E un piede largo, da sta ritto, in fonno.
C'è un taglio giusto al capitel vicino,
Quanto i spiccianti trapassà ci pònno;
Quì li regazzi i ripostini fanno,
In tempo che le mancie se gli danno.

Se prima a bambocciate eran serviti;
Mò, per altr'uso vengono addropati,
E di polvere tutti so' rempiti:
Co' stracci, i busci poi, son attappati.
Qui, mezzi drento e mezzi fora usciti,
Stanno i stuppini ben accomodati,
Et ecco, in modi ancor non conosciuti,
I dindaroli bombe divenuti.

Prima col foco li stuppini appicciano,
Poi pe' tiralli in alto, ce se sbracciano,
E tanto fanno, e tanto ancor l'impicciano,
Sino, che drento quantità ne cacciano;
Pe' spavento, le carni se gl'aggricciano,
E col sangue le vene se gl'aggiacciano
All'Ebrei, ch'a tal segno si riducono,
Ch'in te le case allor molti s'imbucono.

Alle dindarolesche scoppiature,
Mò fatte in aria, e mò sopra d'un tetto,
Mò in strada, son sì granni le paure,
Che tutto già s'è scompigliato el Ghetto.
Li strilli, l'urli, e le scapigliature
Delle femmine Ebree, li pugni in petto,
I piantusci, i lamenti erano tanti,
Che non si fecer mai fiotti tamanti.

Una diceva: "Ahimè! che mali iorni
Sono questi per noi! che sarà mai?"
Un'altra poi: "Perchè 'sti brutti scorni?
Che far potremo, scuri Sciabadai!
Non c'è per noi pietà pe' 'sti contorni,
Poveri figli! Perna e mordacai!
Presto ce n'annaremo, (O Iaccodimmi
Dateci qualche aiuto!) a i caurimmi".

Certi Rabbini allor, carichi d'anni,
Con le barbe maiuscole da nonni,
Dicono: "Non saran tanti li danni,
Quanti credete voi, signori donni.
Hanno alfin da cessà 'sti gran malanni,
Che tutti i palli, non riescon tonni.
Ancor drento allo Ghetto non si venne,
E 'sta razza di fochi è assai zachenne".

Così un pò de spavento se gli leva,
Pur si sente un confuso mormorìo.
Ma intanto, (oh caso, che nisciun credeva,
E che atterrisce ancor maschio Giudìo!),
Ecco, si mette un dei portoni a leva.
Altr'è questo, che i sassi del cotìo,
S'alza già for de gangani, già crolla,
Già più d'un sgherro, a spignelo s'affolla.

Dice un Rabbì, con voce assai gagliarda,
Quanno par ch'il portone in giù trabballi;
"Su via, presto al soccorzo, e che si tarda?
Tenete forti, et appuntate i spalli,
Non vi fate stimà gente infingarda;
Tosti, a i portoni vè, che se buttalli
Pònno costoro, a fè, ve lo dich'io,
Vivo allor non ce resta uno Judìo".

Ma, o fusse il caso, o l'appuntellatura,
Vengono a ricascà nei loro occhietti
I gangani già usciti, e la paura
Scemò un tantin nei Giudieschi petti;
Non calò già per questo la bravura
E l'ostinanza dei Romaneschetti,
Che più di prima imbestialiti e fieri,
Par che faccin, di guerra, assalti veri.

Intanto un certo taccolo succede
For del Ghetto più brutto, e più non visto.
Et è, ch'a ogni Giudio, ch'annà se vede
Pe' la città, gli danno i sgherri un pisto.
Chalch'un ce n'è, che rimedià se crede
Al pericolo granne, ch'ha previsto,
O col nasconne il fongo, e con voltallo,
O con levagli il taffettano giallo.

Ma non gli giova 'sta rasciammerìa,
Nè per questo, po' il misero salvarzi,
Perchè lui stesso, di sè stesso è spia,
E più si scrope, più che vuò occultarzi.
La faccia tetra, la fisonomia,
L'annar furone, timido il voltarzi
A ogni poco, a ogni passo, e il su' sospetto,
Conoscer fanno, ch'è un di quei del Ghetto.

Scuperto, non sà allor dove si cacci,
Mò penza, mò sta fermo, e mò sgammetta.
Ma l'arrivano certi regazzacci,
Che d'azzollà Giudii, ne fanno incetta.
Pe' fagli dar in terra de' crepacci,
Gli fa chalch'un di loro la cianchetta,
E poi steso che l'ha, tutti d'accordo,
Glie la fanno sentì, se non è sordo.

E spinte, e calci, e pugni, e scappellotti,
E peggio ancor son del Giudio regali.
Lui strilla: "Aiuto! ahimè! non tanti botti,
Basta, non più! troppo mi fate mali!
Cola lo sangue già dai testi rotti,
Sicuro 'sti feriti son mortali!
Pietà, pietà illustrissimi! Almen vivo
Io resti insino ch'allo Ghetto arrivo".

Pe' vedè, si raduna molta gente,
Chi sia costui, perchè così se tratti,
Et a chalch'homo serio lì presente
Assai dispiace di sentì 'sti sciatti.
Prega li sgherri a non glie fa' più gnente,
Potenno già basta li strazii fatti,
Si ferman questi, e mentre più s'ammucchia
El popolo, l'Ebreo s'arrizza, e trucchia".

Fugge un altro, che è pur cencioso e vile.
In t'un palazzo, e dove se nasconni,
Và ricercanno, e vede in tel cortile
Tre o quattro botti ritte senza fonni.
Queste, conforme è l'uso signorile,
Stavano lì, perchè nei dì gioconni
D'altre feste, ch'ogn'un sta ad aspettalle,
Dovevano servì per abbruscialle.

Una n'alza l'Ebreo; sotto se caccia,
Poi la ricala, e drento ce s'accova;
Ne vanno infuriatissimi alla traccia
Li sgherri, e gusto ha ogn'un d'annallo a trova
Data di già gl'havevano la caccia,
E adesso seguitannolo fan prova
D'acchiappallo, pe' poi for del palazzo,
Strascinatolo, farne ogni strapazzo.

Currono drento, e restano de sale,
Perchè ciaschun di loro s'è intontito,
Nè sa, nè pò penzà, dove quel tale
Pozza in un batter d'occi esser fuggito.
C'è chi credenno va che pe' le scale
Di quel palazzo istesso sia salito,
Perchè, per quanto ogn'un po' imaginarzi,
Altro loco non c'è, da ritirarzi.

Ma pe' la su' disgrazia, un regazzino
D'otto o diec'anni, figlio del cucchiero;
Se ne stava affacciato a un finestrino,
E lì fava la zuppa, in tel bicchiero.
Tutto havea visto, e con un raschiettino,
De fa' la spia venutogli el penziero,
Fece voltà li sgherri, e queto queto,
Dove stava el Giudìo, mostrò col deto.

Se n'occorgiono questi, et al più astuto,
Che sia tra lor, vie in testa un bel crapiccio,
A tutti azzenna con un gesto muto,
Che vuò dar al Giudio chalche stropiccio.
Un secchio pieno d'acqua havea veduto
Accanto al pozzo, e te glie da de piccio,
L'alza sopra la botte, e l'acqua tutta,
Voltato il secchio, su l'Ebreo poi butta.

Li strilli di costui son di tal sorte,
E così granni, ch'io ridir nol pozzo.
S'accosta più d'un sgherro, e ghigna forte
In vede quel bagnato paparozzo.
Pare all'Ebreo d'esser vicino a morte,
Come cascato sia drento d'un pozzo;
Quanto sà, quanto pò, si raccommanna,
La vita in grazia, e pe' pietà, domanna.

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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