"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri
Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.
Il sesto non è gonzo, e puro lui,
De razzo se ne viè con gran carriera;
E ancor nisciuno dei compagni sui
Cavalcà così ben visto non s'era.
Ma poi, come nel farlo habbia costui,
Così aggiustata e nobbile maniera,
Se chalch'un vuò sapè, glie lo dich'io:
Un scozzona cavalli era su' zio.
Fava ancor lui di più quest'essercizio,
E fatigava alla cavallerizza,
Ma fatto poi gl'haveva un gran servizio,
El vedè spesso là curre alla lizza.
E tra 'sta cosa, e tra che havea giudizio,
Viè lesto lesto, e la su' lancia addrizza,
Sul grugno al Saracin pianta una botta,
E in cento pezzi va la lancia rotta.
In vedè con un modo sì gentile,
Fatto, dal bravo sgherro, un colpo tale,
Con la gente plebea, la signorile
Te gli fece un apprauso univerzale.
Il settimo tener vorria lo stile
Di questo, ma in saper gl'è disuguale;
Pur si sforza a imitarlo, e glie ne cresce
La voglia, ma però non gli riesce.
Procura a forza di spiron battuto,
Ch'il su' cavallo ancor venga fugato,
Lo tormenta alla peggio, e fa 'l saputo,
E mai di cavalcà non ha imparato.
Ma l'animal, ch'a zompi era venuto,
In vederzi al pupazzo avvicinato,
E s'adombra, e s'impenna, e tanto s'alza,
Che lo sgherro da sella in aria sbalza.
Strilli, fischiate, e sbeffature a iosa
Co' 'no strepito granne si sentirno,
A 'na cascata sì pericolosa
Risero tutti, e non la compatirno.
Ma non è maraviglia, che 'sta cosa
È antica usanza, e spesso si sentirno
Fatte senza pietà grasse risate,
D'altri all'inciampamenti, o scivolate.
Ma fu uno sbalzo, e non inciampatura,
Questo del nostro sgherro, e pur cascanno,
Fece senza smarrirzi una bravura,
Che fatta non l'havrìa manco un Orlanno.
Tenne forte la lancia, et a drittura
Sempre di quel pupazzo, e giusto quanno
Stava pe' toccà terra, al Saracino
La tira, e pur lo viè a toccà un tantino.
Piacque assai 'sto ripiego, e fu sentito
El biasimo mutarzi in bella lode;
Lo sgherro s'arrizzò, benchè indolito,
Assai lesto, e la rabbia il cor gli rode;
Si vergogna, ma in esser appraudito
Ripiglia fiato, s'anima e ce gode;
Ma dà al cavallo, che dal loco scanza,
Sbrigliate al grugno, e calci in te la panza.
L'ottavo a fè, ch'è un giovane de pezza,
Scrimotor, che insinenta da regazzo
Più sorti d'armi a maneggià s'avvezza,
E giusto MEO te lo capò in tel mazzo,
Butta in aria la lancia, e con lestezza
Currenno la ripiglia, et al pupazzo
Urta con un bel garbo e maestrìa
Nel gran turbante, e glie lo sbalza via.
O questo sì, ch'è un colpo da mastrone!
Quì sì, di lodi un mormorio si spanne,
Et in vedè quel brutto mascarone
Col capo ignudo, un gusto c'è assai granne.
Hor mentre se n'annava ruzzicone
Quel turchesco cimiero, da più banne
Ci currono birbanti, e chi l'acchiappa,
Chi l'arrobba al compagno, e chi lo strappa.
Serve pur questo al popolo di svario,
Che sempre de 'ste buglie ha desiderio:
Ma al comparì del giostrator primario
Fornisce il chiasso de 'sto rubbisterio.
Ecco PATACCA, e 'l giro fa al contrario,
Che viè verzo man ritta adascio e serio,
E volta, quasi che giostrà gli spiaccia,
Le spalle al Saracino, e no la faccia.
Se ne và passo passo, e non abbada,
Che te l'osserva ognun con maraviglia;
Par che via dal teatro se ne vada,
E voglia abbandonà la su' squadriglia;
Ma del cerchio arrivato a mezza strada,
Si volta all'improviso, e 'l corzo piglia,
Dà un colpo al Saracin, stimato assai,
Colpo ch'in giostra non fu visto mai.
La gente istessa, ch'è in 'ste cose istrutta,
Forzi che non faria sì bella botta.
Lo coglie in fronte con la forza tutta,
Che in quell'atto in tel braccio era ridotta;
El bamboccio de fatto in terra butta,
E 'l Popolo in un riso allora sbotta;
Un prauso fa, che da per tutto arriva,
Nè di grida si sazia: "Eh viva! Eh viva!".
Ma quel che poi sopra ogni cosa piacque
Fù, che del Saracin giusto in tel loco,
Come da un fonte in sù schizzano l'acque,
Così va in aria un turbine di foco.
Per lo stupore, attonito ognun tacque,
Vedenno all'improviso un sì bel gioco,
Senza sapè come il bamboccio caschi,
Come dalla cascata il foco naschi.
Prima che 'sta faccenna incominzasse,
E la gente in teatro si mettesse,
Volze PATACCA che si congegnasse
L'ordegno, pe' fa' poi quel che successe.
Ordinò che un cert'homo si colcasse,
E dreto al Saracin si nascondesse,
Et allor ch'a colpillo lui venisse,
Che lo facesse giù cascà gli disse.
Sotto al perno aggiustà fece una fossa,
Ma però in tempo, che nisciun c'avverta,
E questa da una tavola ben grossa
E ben fortificata, era cuperta.
In loco poi di quella terra smossa,
C'erano i razzi, e stava l'homo all'erta,
Pe' leva della tavola l'impiccio,
Foco giù dando con acceso miccio.
Tutto a tempo si fece, e fu l'istesso
Il cascà del pupazzo e 'l foco alzarsi,
E tanta grolia n'hebbe MEO, che spesso
Sentì 'l su' nome attorno celebrarzi;
Fu 'l vanto sopra tutti a lui concesso,
Per haver fatto quanto mai pò farzi
Da un bravo giostrator, e il dar nel segno,
Del caso opra non fu, ma dell'ingegno.
Più volte scola havè dall'intennente
Amico scrimitor, che del pupazzo
Nel turbante azzeccò segretamente
Drento un giardino granne d'un palazzo.
Perch'era dal Tarpèo non differente.
Lì s'aggiustorno un sito in uno stazzo,
Dove, portato il Saracino istesso,
La prova di colpì fecero spesso.
Studiò l'uno nel colpo del turbante,
L'altro in quel della fronte, e non invano,
E tante volte ci provorno e tante,
Fin ch'aggiustà ci seppero la mano.
MEO, perch'è troppo della grolia amante,
E incrapicciato del valor Romano,
Volze per sè l'ultimo colpo, e quello,
Che ben s'accorze lui ch'era il più bello.
Così fu suo l'onor, e così ottenne
El viva universal, che se gli dette
Da i giudici, e così dato gli venne
El nobil premio delle due terzette:
Ricevute, che l'hebbe, in man le tenne,
Giranno pel teatro se n'annette;
Guardò più donne, e dimostrò in guardalle,
Che cercava coll'occhio a chi donalle.
Poi, stabbilito il suo penzier, si spicca,
E và in tel mezzo, ma nisciun ci azzecca
A indovinà se dove annà gli cricca,
O da chalche signora, o chalche cecca.
C'è più d'uno, che innanzi allor si ficca,
Pe' veder tutto, et il cervel si becca,
Pe' saper dove va; ma tutte dua,
Lui donò le terzette a Nuccia sua.
Stava costei, ma queta come l'oglio,
Con altre donne in sopra al piedestallo,
Che regge in mezzo giusto al Campidoglio,
Di bronzo il famosissimo cavallo;
Si trovò nel salirci in chalche imbroglio,
Che pe' disgrazia messe un piede in fallo
Su 'na scala a piroli, e dette un crollo,
Che poteva in cascà romperzi el collo.
Fu a caso da Calfurnia sostenuta,
Et alla ciospa 'st'incontranza piace,
Che mentre Nuccia volontier ajuta,
Spera, come poi fu, di farci pace.
A posta fatta era costei venuta,
Et essenno di spirito vivace
'Sta vecchia cucca, seppe haver la spia,
Che capitata lì Nuccia saria.
Venne lei con penziero di far tanto,
Sin che gli riusciva in su quel sasso
Di piantarzi a sedène, a Nuccia accanto,
Però stava aspettannola giù abbasso;
Voleva strufinargliese sintanto,
Che gli tornava amica, e dello spasso
Assai più questo, e con raggion, glie preme,
Che di Nuccia el furor sempre più teme.
Mai però creso non se lo saria,
Che havesse a favorilla st'accidente,
E che tal congiontura se glie dia,
Di ritrovarzi a tempo lì presente,
Che più di Tutia, ch'era in compagnia
Di Nuccia, fusse stata in quel frangente
A soccorrerla pronta; e pur fu vero,
Ch'ottenè più di quel, ch'hebbe in penziero.
Dubbitò Nuccia assai, che non piacesse
A MEO PATACCA, che là su lei stasse
Arrampicata, e in compagnia sedesse
Di donnicciole e di perzone basse;
E solo acciò che lui non la vedesse,
E de 'sta cosa poi non glie gridasse,
Zitta e mezza nascosta a star s'indusse,
Perchè, o intesa, o da lui vista non fusse.
Ma già PATACCA, che non è un tarullo,
Allampata l'haveva, e la fintiva
Di non haverla vista, è un su' trastullo.
Però da Nuccia alla sfilata arriva,
Glie sporge le terzette, e lei 'no sgrullo
Fece allor con la vita, e non ardiva
D'accettà il dono, et alla fin, pian piano
Stese, ma prima si baciò, la mano.
Lui disse allora: "Queste non son cose,
Che pozzino alle femmine piacere,
Che per loro son armi spaventose,
E chalch'una nè men le vuò vedere,
Ma così porta el caso". - E lei rispose:
"Io signor MEO, l'accetto volontiere.
Per me fanno, e direte forzi un dì
Ch'hebbi raggione di parlar così".
Gode intanto vedenno che disgusto
Non hebbe MEO, che preso havea quel posto;
E 'l bel regalo si pigliò con gusto,
Nè là su stette allor più di nascosto;
Glie s'accostò gran popolo, che giusto
S'era in quel punto tutto già scomposto.
Disse chalch'un, penzanno a fine onesto:
"Che MEO sposar la voglia, indizio è questo".
Sentì PATACCA, e assai gli fece senzo
Quello che intese, e allor pe' la su' mente
Curze chalche penzier, chalche consenzo,
Ma per adesso non risolve gnente;
Fece slargar el popolo, assai denzo,
Poi scegne Nuccia, e passa fra la gente,
Come in trionfo. Ogn'un l'insegna a deto,
S'alza in punta di piedi chi sta arreto.
Così da tutti lei viè ad esser vista,
E MEO sceso da sella, glie va a lato,
Che in quella calca, d'uno che gl'assista
C'è gran bisogno, e lui se n'è già addato.
Perchè non habbia chalche stretta, o pista,
Pare a PATACCA d'esser obrigato
(Scuperto amante), acciò di ciovettalla
Non ardisca chalch'un, d'accompagnalla.
Tutia l'obrigo suo facenno annava
Con assister a Nuccia su' patrona;
Calfurnia, un pò discosto seguitava,
Ma rispettosa, timida, e gattona.
Di farzi vede non s'arrisicava
Da MEO, che ancor non sa se glie perdona,
Però a sentir tese l'orecchie haveva,
Se Nuccia a favor suo gnente diceva.
Parlò questa a PATACCA, e tanto disse,
Ch'a rimetterla in grazia alfin l'indusse;
Quello cenno glie fece, che venisse
Accanto a lui, nè più scontenta fusse;
Però le ciarle e le causate risse
Da lei, tutte a memoria glie ridusse,
Ma poi conchiuse che non si parlasse
Più del passato, e lei sicura stasse.
Piena la ciospa allor di contentezza,
E scacciati i penzieri timorosi,
A MEO PATACCA e a Nuccia usò finezza
Di complimenti assai ridicolosi;
Disse fra l'altre cose: "Ogn'allegrezza
Venir vi possa, e siate presto sposi.
E in capo a nove mesi, o lì vicino,
Far possiate un MEUCCIO PATACCHINO".
Sbottò lo Sgherro, in tel sentì 'sta cosa,
In un gran riso, e il simile farìa
Nuccia, ma perchè fa la vergognosa
Si ritiè a forza, e rider non vorrìa.
Ma una sbottata alfin ridicolosa
Fece pur lei, così con allegrìa
Le femmine con MEO, che venne a piede,
Altri giochi, altre feste andorno a vede.
Tutta la gente ancor fece l'istesso,
E si va discorrenno de 'sta giostra;
Assieme col donnesco, il maschio sesso
Per lo più sodisfatto se ne mostra,
Ma c'è però, come succede spesso,
Chalch'un, de 'sti sbeffieri, che fa mostra
Di dar lode a quell'Opera, che ha vista,
Ma intanto a chi ha operato glie la pista.
Dice: "È ver, che s'insegnano costoro,
E non è poco ancor quello che fanno,
Ma questa del giostrar, non è arte loro,
Perchè prattica e regole non hanno.
Si deve comparir con più decoro,
I cartelli e i padrini ancor ci vanno,
E dovevano meglio esser istrutti,
Con i cavalli, i giostratori tutti".
Ma chalch'un altro poi, ch'ha più giudizio,
Parla con più risguardo, e compatisce,
Perchè non ha di critticare il vizio,
Una faccenna tal, nè l'avvilisce:
"Da gente, che non sta nell'esercizio, -
Dice. - che in prescia un'opera ammannisce
Così granne, e che poco ci pò spenne,
E che cosa di più s'ha da pretenne?".
Mentre ci fu, chi a favor suo rispose,
Restò assai ben difeso MEO, ma alfine
A tornà a casa ogn'uno si dispose,
Che del dì le prim'hore eran vicine.
Restorno quasi scure le calcose,
Mancando i lumi, a poco a poco, e il fine
Questo fu delli sciali, e non si stracca
La gente tutta di lodà PATACCA.
Il sentirzi plaudito a voce piena,
Una gran contentezza a questo apporta,
E barzelletta, perchè sta de vena,
Con Nuccia, e le terzette lui glie porta.
Con le due griscie, a casa la rimena,
Nè la lassò, fin che non fu alla porta,
E con cerimoniate amorosette,
Una restanno, l'altro se n'annette.
MEO pe' la grolia ch'ha, parte brioso,
E ancor, perchè haverà gran nominanza.
Nuccia, che lo desidera pe' sposo,
Consolata restò nella speranza.
Và ogn'altro a casa, pe' piglià riposo;
Così finirno, e non le pò a bastanza
La lingua racconta, scriver la penna,
Le feste, che si fecero pe' VIENNA.
È ver, che tutte allor si dismetterno
'Ste tibaldee, ma non però finirno
Le speranze di far, (e si facerno ),
Altre feste, e pur belle riuscirno.
In ordine, assai bene si metterno,
Perchè molto per tempo s'ammannirno,
Ma d'un'altra vittoria il chiaro giorno
Aspetto prima, et a cantà poi torno.
Fine dell'undicesimo Canto.
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
Inviato da: ragdoll953
il 15/04/2023 alle 00:02