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Il Meo Patacca 11-1

Post n°1323 pubblicato il 06 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO UNDICESIMO

ARGOMENTO

PATACCA fa vede cha la maniera
Di gastigà chi ha contro lui sparlato,
Che già pò farne una vendetta fiera:
Ma si grolla d'havergli perdonato.
Le feste poi, pe' la seconda sera
Va presto ad ammannì, perchè ha inventato
Più di un crapiccio novo, e tutto in mostra
Mette a su' tempo, e in fine fa una giostra.

Al comparì, che fece in ciel l'Aurora,
Più del solito, parze presciolosa,
Perchè al su' lume non si sveglia ancora,
Ma se ne sta la gente sonnacchiosa;
Se dell'annà a dormì tarda fu l'ora,
Si sente di levarzi rincresciosa,
E quanno spuntò 'l Sole, a su' dispetto,
Sino trovò l'acquavitari a letto.

S'ogn'un girò quasi la notte intiera,
Bigna bè, che poi ronfi la mattina,
Dorme solo PATACCA alla leggiera.
Parendogli, ch'in core habbia una spina.
Penzanno a quel che nella nova sera
Da far s'haveva, smania e s'ammuina;
Un'hora di riposo gli par troppa,
Si leva all'alba, e a sfaccennà galoppa.

Ma 'l su' primo penzier, chi 'l crederia!
Oh che gran dabenaggine! fu quello
D'annà a vede, là nella barberia,
Se come stava Togno el poverello.
Si vuò cava si vuò 'sta fantasìa,
E dal barbiere stesso vuò sapello;
Va a quella volta, e di bon passo tocca,
Et ecco, da lontan vede Marzocca.

Sopra d'un banco s'era lei seduta,
Che teneva el barbiero lì de fora,
Per aspettà lo sgherro era venuta,
Che gì'impromesse de torna a bon'hora.
Piagnosa, malinconica e musuta,
Stava penzanno a quel che più l'accora,
Che l'habbia MEO gabbata, e gran disturbo
Glie dà l'haver inteso esser un furbo.

PATACCA arriva, e te glie dà el bondì.
Dice, in vedella piagnere: "Che c'è?
Cos'è 'sta novità? che fate quì?
Non dubitate, dite tutto a mè!
Ma voi non risponnete? e che? morì
Forze 'sta notte Togno vostro?
Ahimè! Troppo mi spiacerìa, non state più:
Dite s'è morto o vivo, o che ne fù?".

Come talvolta femmina zerbina,
Che a spasso andò pe' la città un bel pezzo,
Tornata a casa, oh quanto si tapina!,
Perchè s'accorge che s'è perza il vezzo.
Smania, piagne, tarrocca la meschina,
Tanto più che le perle son di prezzo;
Lo cerca, e alfin lo trova pe' le scale,
Rispira, si consola, e allegra sale.

Così Marzocca, se già perzo crede,
E MEO PATACCA, e 'l su' promesso aiuto,
El danno, che pò havè tutto antivede,
E lo spasimo al cor gl'è già venuto.
Se tribbola, se sbatte, e appena il vede
Che si sdolora, e in rendergli 'l saluto,
Si mesticano lagrime e sorriso,
Si slarga 'l cor, si rasserena el viso.

Poi gli parla così: "Togno sta bene,
Quasi affatto guarito è dal su' male.
Di ritornà al paese si trattiene,
Per paura che voi l'habbiate a male.
Senza vostra licenza, non conviene
De fa' 'sta cosa, e poi gran capitale
Delle promesse vostre noi facemo,
Nè senza voi di qua partì potemo".

"Ci ho gusto, et arcigusto, che guarisca
Togno", - lui dice, - "ma non sia mai vero
Ch'alla partenza sua io consentisca,
Se non vi è assicurato dal barbiere;
E perchè poi nel viaggio non patisca
Io di ben provedello havrò penziero;
Ma poco fa, che cosa v'ammuinava?
Quel piagne, quel fiottà dite, in che dava?".

"Non fu gnente", lei dice. "Come gnente?"
Ripiglia MEO, "ci sarà be' chalcosa.
Eh! ditemela puro schiettamente,
E non ci state a fa' la rincresciosa.
Spicciamola de grazia, ch'altrimente
Non so, com'annerà". Lei paurosa.
Sottocchio il guarda, e china poi la testa,
Si stregne nelle spalle, e muta resta.

MEO più s'insospettisce, e allor più monta
In collera, sbravicchia e la spaventa;
Colei si mostra ad ubbidì già pronta,
Perchè di farle ben lui non si penta.
La cosa dello sgherro gli racconta,
Ma a mezza bocca, acciò non si risenta,
Ch'assai glie spiacerìa che si venisse,
Pe' le su' ciarle, a fa' garbugli e risse.

Ma lui, che non è un'oca, e la sa tutta,
Et ha gran saputaggine e cervello,
Tanto va interroganno 'sta Margutta,
Fin ch'ogni cosa glie fa dir bel bello.
Marzocca quanto sa, gonza ributta,
E così scrope di quel bricconcello
La maligna profidia, e gli dice anco
Che lo stava a aspettà lì su quel banco.

MEO, sentita che l'ha, brusco la guarda,
Poi glie parla così: "Dunque si crede
A gente baronissima e busciarda,
E alle promesse mie non si dà fede?
Havete una testaccia assai bajarda,
Sete una coticona, e ben si vede,
Che, chi vi dà pastocchie assai stimate,
E di chi dice il ver, conto non fate".

Marzocca non risponne, e a star incoccia
Queta queta, sorgnona e piagniticcia.
Più d'una grossa lagrima glie goccia
Dall'occhi, e con le mani li strupiccia,
Poi coll'istesse gratta la capoccia,
Che sta scuperta, et i capelli impiccia,
E dà segno così la poveraccia,
Che ha gran dolor, nè di parlàne ha faccia.

MEO, che glie brava sol pe' spaurilla,
E mostra c'ha raggion di risentirzi,
Non vuò propio non vuò più sbigottilla,
Finge d'incominzane a impietosirzi.
Glie dice ch'alla fin vuò compatilla,
E darglie ajuto, acciò c'habbia a ciarirzi,
Ch'un guitto e bricconissimo è colui,
Che l'onorato e 'l galanthomo è lui.

Interroga el barbiero, e con premura,
Dello stato di Togno, e da lui sente,
Ch'è ridutta a bon termine la cura,
Perchè addropato ha un oglio assai potente,
Che doppo un par di giorni l'assicura,
Ch'ai paese pò andà liberamente;
PATACCA allor gli da pe' su' mercede
Tre briccoli, e son quel che lui gli chiede.

Altr'e tanti a Marzocca ne consegna,
Solo pel taffio delle tre giornate,
E a 'sto modo a conoscere gl'insegna,
Che lui non le sa fa' le baronate;
Che stimarebbe attione troppo indegna
El mancà de parola, e poi cavate
Quattro pavane dalla su' scarzella,
Le spiana in mano, e così dice a quella:

"Ammascate un pò in grazia 'ste monete,
Son quarantadue pavoli lampanti;
Quel ch'io ne voglia fa', voi non sapete,
De 'sta non poca somma di contanti.
Ma sappiatelo adesso: ecco, tenete,
Ve li dà MEO PATACCA tutti quanti,
Acciò facciate a Togno bone spese,
E in un calessio lui torni al paese".

Lustra l'occhi Marzocca, e dice: "Oh questo,
Signor, è troppo!". "È quel che far io devo".
Risponne Meo, "così fò manifesto
El mi' trattare, e ogni timor vi levo.
Pigliate qua, ve dico, e fate presto;
A posta, perchè darveli volevo,
Quà venni, e voi cognoscerete adesso,
S'attenno più di quel che v'ho promesso".

La iecora ubbidisce, e fa un risetto
E un'inchinata con garbo villano,
Piglia le piastre, e se le mette in petto,
Co' i briccoli, ch'ancor teneva in mano.
Ma subbito penzò, come ha poi detto
Alle su' amiche, de marcià pian piano
Su i ciucci, e 'sta moneta conservalla,
Pe' farsene poi lei 'na vesta gialla.

Intanto venir vede un c'ha figura
Di quello sgherro, che la sera innanzi
Di MEO sparlò, ma non è ancor sicura,
Che sia lui: però aspetta che s'avanzi.
Cognosce alfin ch'è quello, e allor procura
Che vada via PATACCA, o almen si scanzi,
Fino che lei gli parla, e lui risponne,
Ch'in te la barberìa se vuò nasconne.

Doppo te l'avvertisce, che non stia
Con gesti o con occhietti ad azzennargli,
Che lui là drento ritirato sia,
Ma che con libertà sappia parlargli.
Benchè fastidio a lei 'sta cosa dia,
Pur dice, che saprà tutto occultargli;
C'è dreto alla bottega uno stanzino;
C'entra PATACCA, e lì fà capolino.

Ecco arriva lo sgherro, et a Marzocca
Dice: "Bon giorno, ho gusto, ch'ammannita
Qui stiate; a voi mortificà sol tocca
Quel barone di MEO, che v'ha tradita.
Saressivo, pe' dilla, una marrocca,
Se doppo che di tutto io v'ho avvertita.
Rimedià non sapessivo a quel danno,
Che vi va quell'infame apparecchianno".

"Promessi, - dice lei, - fin da ier sera
Di far quello, ch'a voi fosse piacciuto,
Et io nella medesima maniera
Vi parlo mò, che sete qua venuto.
Benchè quel signor MEO non m'habbia cera
Di tristo, pur a voi tutto ho creduto".
"Eh zitta! - lui risponne, - è peggio assai,
Di quel ch'io dissi e dir potessi mai.

S'è messo in testa, de fa' da patrone,
Pretender vuò de commannà alla gente,
Si vanta homo de garbo, et è un cialtrone,
Anzi, uno spaccia frottole e un pezzente;
Fa l'abbottato, el granne, el faccennone,
El sodo, el guida popolo, el sapiente,
Et è un parabolano, un ignorante,
Un vano, un gonfia nuvole, un birbante".

In sentì MEO 'sta ciufolata abbotta
De rabbia, e tra sè dice: "Io più non pozzo
Havè flemma. O che smania! Se non sbotta
La mi' collera fora, io già me strozzo".
Ma l'haver cognosciuto assai gli scotta,
Quel birbo, che da tutti Bagarozzo
Pe' sopranome era ciamato, e solo
Per esser un ranocchio e un topacciolo.

Lesto MEO dà de piccio ad un rasore,
Se lo tiè con la man dreto alla schina,
E camminanno senza fa' rumore,
Pian piano a Bagarozzo s'avvicina.
Seguita questo a dire: "È un truffatore,
Un che la gente a più potè assassina,
Con chiacchiere e riggiri, uno"... Qui 'l fiato
Perde in voltarzi e MEO vederzi al lato.

Conforme avviene a un vil servitorello,
Che si diletta di giocà de mano,
Se in casa è solo, con un grimaldello,
apre li tiratori a un cantarano.
Mentre aggranfia monete el ladroncello,
Torna el patron, che poco era lontano,
E in vedello , colui, sopravenuto,
Resta intontito, spaventato, e muto.

Così appunto si vede interezzito,
Per orror Bagarozzo, e come un liescio
Senza aprì bocca, se ne sta scionito,
Mentre lo guarda MEO con occhio sbiescio.
Questo, pel collarino inviperito
L'afferra, e poi pe' fagli in faccia un sfrescio,
Alza el rasore, ma per aria alquanto
Trattiè 'l colpo e la mano, e parla intanto:

"Ce sei guitto, ce sei! chi pò salvarti
Da 'ste mie mani? Chi? Lingua scorretta!
Busciardo! Indegno! È poco lo sfresciarti,
Bigna tagliatte il grugno, a fetta a fetta.
Ma la fò da par mio, col perdonarti,
E dico, che in materia di vendetta,
È attion da galanthomo il minacciarla,
Il mostrà che pò farzi, e poi non farla.

Và puro, e vivi svergognato, e il vero
Scropi alla gente, ch'io mò quì raduno,
E dì la verità, s'io pe' penziero
Ho in vita mia gabbato mai nisciuno.
Più d'un vicino, e più d'un passaggiero
Chiamò PATACCA allor, perchè più d'uno
De 'sto brutto scriattolo sentisse
Il parlà, che tremanno così disse:

"Il signor MEO PATACCA quì presente,
È un giovane di spirito, galante,
Savio, onorato, splendido, valente,
Della parola sua sempre osservante:
Chi ardisce sbiasimarlo, se ne mente,
Et io so' quel maligno e quel forfante,
Ch'a calunniarlo hebbi sfacciata fronte,
E gli chiedo el perdono a mani gionte".

"Via, via!" dice PATACCA, e allor gli dànno
Tutti lo strillo, e un impeto d'urtoni
Fora lo caccia, e certi poi gli fanno
L'onor di regalallo di sgrugnoni;
Marzocca tutta rabbia va cercanno
Di tirargli chalchosa, e pe' i cantoni
Guarda della bottega, e qui ci vede
Un lucernaro longo col su' piede.

A due mani lei subbito l'afferra,
Poi resce in strada, e a seguità se mette
Colui, che fà currenno un serra serra,
Ma ridicole so' 'ste su' vendette.
L'alza, e lo tira al fine, e quasi in terra
Volze la bocca dar, tanto spignette
Quel coso, e puro non annò lontano,
Quanto sarebbe un passo di villano.

Si fece quì 'na sghignazzata, e lei
Gli minacciò col deto, e fu finita
Così 'sta buglia, e MEO dette a costei
Il bondì; doppo ognun fece partita.
Gira PATACCA pe' cinque hore o sei,
Prima de pranzo, e poi, fin ch'è compita
La giornata, pe' fa' quel che gli tocca,
Che gli premon le feste, e no Marzocca.

Perchè le cose tutte ogn'un vedesse,
Ch'in te la sera innanzi si facerno,
Volze si repricassero l'istesse,
Per quelli che talor non le vederno.
Molt'altre poi di novo ne commesse,
E queste pur guidò col su' governo,
E quanno l'aria ad oscurà si venne,
Lui principiò le lucide faccenne.

Di fochi, focaracci e luminari,
E delli stratii, e dell'impiccature.
C'hebber Bassà, Vissirri, in modi varj
Si rinovorno le manifatture;
Ma poi di più, con artifizj rari
Si fà mostra di machine e figure
Prima non viste, e questo fa che trovi
Novità di comparze apprausi novi.

Ecco per aria da lontan si scerne
Di luce un sbattimento; ogn'un rivolte
A quella parte fissa le lanterne,
Ma le staiole a scarpinà tiè sciolte;
Più si và avvicinanno, più discerne
Che quel lume è di torcie, e che son molte,
E fa la spia, 'sta vista luminosa,
Che ci sia chalche machina famosa.

No sbaglia mica no, chi questo penza,
Perchè la verità dice in sustanza:
Et ecco 'na gustosa comparenza
E ogn'un procura annaglie in vicinanza.
Di femmine se vede una seguenza,
Tutte vestite alla turchesca usanza;
Da capofila fa una ciospa grinza,
E da costei la mossa s'incominza.

Tutte, levata lei, so' giovanotte,
In abbito e figura di sultane,
E dalla turca griscia son condotte,
Perchè la soprastanta lei glie fàne.
Vengono a quattro a quattro, e non a flotte,
Son le file tra lor poco lontane,
E queste in realtà non son già donne,
Ma sbarbatelli maschi in turche gonne.

Sciupinate scarpinano, e muccose,
Si sgraffiano e scapigliano ogni tanto,
Afflitte, sconsolate, e piagnolose,
Fan che rida la gente al loro pianto;
Così bene san fingere 'ste cose,
Ch'il Popolo ce gode tutto quanto;
Chi noi sapesse, nò, nol crederìa,
Che quel finto dolor, vero non sia.

Di qua e di là dalle sultane file,
Schiavi ci son, c'hanno d'Eunuchi i grugnì,
E in maltrattarzi assai più fiero stile,
Dandosi in faccia quantità di pugni:
Ci sguazza, e se ne tiè 'sta gente vile,
Benchè da sè si laceri e si sgrugni,
Nel fa' quest'atti bene, e al naturale,
E non si cura poi di farzi male.

Ecco, che se ne viè sopra un carretto,
In dove c'è di tavole un bel piano,
Et è quello tirato da un muletto,
Il Gran Signor del popolo ottomano.
A sedè se ne sta sopra d'un letto,
Mezzo sbiascito el povero tavano,
E smanie, e torcicolli và facenno,
Che par giusto, che stia quasi morenno.

Due Turchi stanno accanto alla lettiera,
Che son due pezzi d'homini panzuti,
Con abbiti magnifici, et han cera
Di due gran satraponi potenziuti;
Piena una tazza, sopra 'na guantiera,
Sporgono all'ammalato, e acciò s'ajuti
E si sforzi a piglià quella bevanna,
Mostrano di pregallo, uno pe' banna.

Lui torcenno va 'l grugno, e non vuò beve,
E come che il liquor nausea gli renne
Di coloro il consiglio non riceve,
Per quanto dalli gesti si comprenne.
Perchè la cosa poi spiegà si deve,
Dalla cima del Letto un foglio penne
Dov'è scritto, (et è carta pecorina):
Il mio male non è da medicina.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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