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Il Meo Patacca 10-2

Post n°1314 pubblicato il 03 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ecco che s'incominzano a scropìne
Torcie assai, ch'a dispetto della notte,
Fanno in aria un bel lustro comparìne,
I soni più ribombano, e le botte;
Un chiasso, un calpestìo se fa sentìne
Di gente, che veniva a flotte a flotte;
Il popolo, che già affollato s'era
Si slarga, e gl'incominza a fa' spalliera.

So' i primi a comparì nello squatrone
Due trombetti abbottati in te le guancie;
Van sonando, e le trombe, pennolone,
Han due striscie di drappo con le francie:
Sgherri armati di stocco o di spuntone
Vengono doppo, e fan bordelli e ciancie
Con tutto scialamento e con baldoria,
E danno segno d'una gran vittoria.

Mentre tutti chalch'arme in mano tengono,
La gente, ai muri, d'accostà procurano.
Due tamburrini doppo loro vengono
Ch'a mani doppie sempre più stamburano;
Passati questi, poco si trattengono
Sgherrosi moschettieri, che figurano
I vincitori, et ecco già s'accostano,
Et ogni tanto, pe' sparà, s'impostano.

Foco danno col miccio, e più d'un schioppo
Si sente a un tempo stesso, e chi ha sparato,
Senza fermarzi, seguita 'l galoppo,
E te la fa da pratico soldato;
Non sol non si trattiè poco nè troppo,
Ma spara appena, e ha già ricaricato,
E si sente in guerrifiche maniere
La sinfonia di botte moschettiere.

Con armature poi capitaniesche,
Fingenno i trionfanti, a passi gravi,
Circondati da belle soldatesche
Vengono quattro sgherri de i più bravi.
Con giubbe un po' barone, ma turchesche
Van dreto seguitanno molti schiavi,
E ogn'un di loro comparì si vede,
Co' 'na catena al collo e un'altra al piede.

Vestito poi da Turco commannante,
E più d'ogn'altro incatenato forte,
Veniva il Gran Vissir, quasi spirante,
Parenno giusto un condannato a morte.
Annava col cotogno tremolante,
Con occi piagnolosi e guancie smorte,
Et a fa' 'sta funzion capato s'era
Un secco, un smunto, un di cattiva cera.

Villano era costui, ma sciotarello.
E bignò ch'un tal homo si capasse,
Perchè fargli strapazzi e questo e quello
Potesse, e queto lui li sopportasse:
Stava a cavallo sopra un ciucciarello,
E ogni poco pareva che cascasse,
Che pe' natura assai sguajato annava,
E poi, con arte ancor, ce s'ajutava.

È vero ch'era questo un Turlulù
Di quei, che vivon alla Babbalà,
D'annà facenno, pur capace fù
Le smorfie, che gli seppero insegnà.
Pareva un barbaggianni et un cuccù,
Si lassava da tutti strapazzà,
Tante e tante il bagèo ne sopportò,
Ch'uno pel verzo alfin glie la sonò.

Di sbeffe, ingiurie, urtoni, e spuntonate,
El povero merlotto a furia n'hebbe,
Nè gli mancorno gran merangolate,
E il furor, contro lui, sempre più crebbe;
A tanti stratii, a tante tozzolate,
Ogn'altro ammuinato si sarebbe,
Ma lui sta tosto ancor, quanno sul babbio,
O la fanga gli tirano, o lo stabbio.

Quest'era un certo 'fogno vignarolo,
Che quasi verzo sera, con la moglie
Arrivò in Roma, e si po' dir che solo
Venuto fusse al bagno pe' le doglie".
Lo conosceva Mommo Sassajolo,
Che co' smorfie grandissime l'accoglie,
E gli fa attorno più d'una monina,
Pe' poi mettelo quasi alla berlina.

'Sta coppia villanesca era venuta
A cavallo, in città, commodamente,
Havevano però testa orecchiuta
Le bestie loro sumarescamente.
Sul basto era la femmina seduta,
Ma l'homo a usanza della maschia gente,
E l'asino di Togno è quello stesso,
Sopra del quale ci cavalca adesso.

L'astuto romanen seppe dir tanto,
Sin ch'a forza di chiacchiare e promesse
Indusse il gonzo a dir, che tutto quanto
Fatto haverìa quello che lui volesse.
Veste, turbante, e vissirresco manto
Trovati a posta, addosso te gli messe;
Pel gran gusto, c'haveva quello sciorno,
S'annava riguardanno attorno attorno.

La moglie, che ciamavase Marzocca
Pe' sopranome, essenno assai bocciacca,
Del su' marito gnente meno è sciocca,
Come lui, va sciattona e assai zambracca.
Sta intontita a guarda, senza aprì bocca,
Mentre il sozzo gabbano e la casacca
Si leva a Togno, e addosso se gli ficca
Una giubba assai nobbile, assai ricca.

Vedenno Togno suo così addobbare.
Che lei cosa magnifica la cresce,
Si lassò facilmente inzampognare,
Ma adesso adesso, imparare a su' spese.
Pe' raccontà 'sto fatto alle commare,
Non vede l'hora de tornà al paese,
E dir che in Roma, e in festa sì sforgiata ',
È annato su' marito in cavalcata.

Mentre s'avvia 'sto finto personaggio
Con la gran turba dell'armati sgherri,
Un pò lontana lei seguita el viaggio,
Che non vuò che la calca la rinserri.
Se ne viè moccolona a su' vantaggio,
E come si suol dir, raccoglie i ferri,
Perch'in sopra al su' ciuccio in quella festa,
Fra tanti e tanti lei l'ultima resta.

Et ecco che incominzano li guai
E i malanni di Togno el poveraccio,
Che maltrattà si sente, et horamai
Quasi tutto gl'ammaccano il mostaccio.
Non si tirano scorze a' Tumellai,
Perchè avvezzato il romanesco braccio
A ben sajoccolà, quello che tira
Va giusto dove si pigliò la mira.

Pel continuo strillà della marmaglia,
Non pò sentì Marzocca le battute,
Che, come si suol far su 'na muraglia,
Si fan di Togno su le spalle ossute.
Anzi la pacchiarotta assai si sbaglia,
Perchè da lei, ch'è gonza, son credute
Grolie le sbeffe, et i plebbei schiamazzi
Apprausi lei li stima, e so' strapazzi.

O quanto è ver, che quanno men si penza
A 'na disgrazia, quest'allor più arriva,
E spesso ce lo mostra la sperienza,
Che da i contenti stessi il mal deriva.
Marzocca gnente haveva di temenza,
Anzi ch'allegra assai se ne veniva,
E puro una sventura gl'è ammannita,
Che quasi a Togno ha da levà la vita.

Un certo Marangone forestiero,
Che non havea ciarvello per un grillo,
Venne a vede 'ste feste, con penziero
D'osserva tutto e a casa sua ridillo.
Fu alloggiato costui da un locandiere,
E curze alla finestra al primo strillo
D'una truppa di gente, et in vedella
Domanna che cos'è, che buglia è quella.

Sente da tutti dire: "O bene! o bene!
Il Gran Vissir, il Gran Vissir è questo:
Come carico tutto è di catene!
E come in faccia è sfigurato e mesto!"
Lo scialèo gnente allora s'intrattiene,
Ma un schizzetto da caccia presto, presto
Caricato a palline in mano prese,
Che s'era già portato dal paese.

Schiaffa drento una palla, e pien di stizza
Ritorna alla finestra, e messo fora
El cacafoco, inverzo giù l'addrizza,
Pe' poi sparallo, quanno sarà l'hora.
Un certo error del su' penzier l'attizza
Contro quell'infelice, e perchè mora,
Di fare li su' sforzi già disegna,
E stima, il farli, un'opera assai degna.

Pe' certo lui teneva che il villano
Fusse il vero Vissir, ch'a VIENNA bella
Ardì de fa quel brutto sopramano
D'assedialla, pe' poi sottomettella.
'St'inganno causa fu dell'atto strano,
Che, messosi costui in sentinella
Alla finestra, fece, allor che passa
Il finto Turco, mentre il cane abbassa.

Spara alla volta sua, fischia la palla,
Ma, o fosse il moto del villano, o il caso,
Solo di sbiescio gli toccò 'na spalla,
Le migliarole, poi le guancie e 'l naso.
Il ferito dall'asino traballa,
Resta col capo pennolone e raso,
Che l'havevan già toso, e in tel piegasse,
Bignò bè ch'il turbante gli cascasse.

Perchè giù non tracolli, uno l'abbraccia,
Lui smonta, e sbalordito si spaventa,
Gli va colanno el sangue pe' la faccia,
E come un morto pallido diventa.
Ogn'un s'accosta, innanzi ogn'un si caccia,
Si fa 'na buglia granne, e non è lenta
La man di molti, mentr'è lui svenuto,
Nel mettelo a sedè, nel dargli ajuto.

Chi con l'aceto, perchè ha sale in zucca
Lo sbruffa, e glie lo mette in tel frosciante,
Chi la mano gli tiè dreto alla gnucca,
Ch'a reggerzi da sé, non è bastante;
Chi con li fazzoletti el sangue asciucca
Dalle guancie, pel collo, scivolante;
Chi poi, perchè si medichi 'l meschino,
Gli va a ciamà el barbier, ch'è lì vicino.

Marzocca da lontano accorta s'era
De 'sto bisbiglio, e de 'sta chiassarìa,
E si và tapinanno e si dispera,
Pe' non potè saper che cosa sia.
Stuzzica del sumaro la groppiera,
Pe' fargli fa' un tantin di scorrerìa.
Ha in man, per questo, un bastoncello et anco
Le scalcagnate gli dà allor nel fianco.

Un dolor improviso il cor gl'afferra,
Non sa s'è verità, non sa s'è sogno
Quel ch'antivede. Ah! ch'il pensier non erra,
Ma puro de ciarissene ha bisogno.
Arriva e vede un, che seduto è in terra,
Più s'accosta e conosce alfin ch'è Togno,
E visto il viso scolorito e guasto,
Non scese nò, precipitò dal basto.

A sfogàne incominza el su' travaglio
Con un sospiro, a foggia di sbaviglio,
Ma il fiato suo tanto sapeva d'aglio,
Ch'il fetor si sentì lontano un miglio.
Allor le treccie sue mette a sbaraglio,
Facenno de' capelli un gran scompiglio,
E mentre, te glie dà strappate fiere,
Glie ne restano in man le fezze intiere.

Pe' più mostrane il marital affetto,
Con quelle mani sue zotiche e dure,
Si rifibbiò pugni tamanti in petto,
Ch'impresse ci lassò le lividure.
A vedella smanià pel su' diletto,
A i pianti, all'urli, alle spasimature,
Havennose stracciato e busto e gonna,
Ha più cera di Furia che di donna.

S'accova poi su l'una e l'altra cianca,
(Stannoglie in piedi molta gente attorno),
E preso un po' di fiato, ecco spalanca
La sua gran bocca, che pareva un forno.
"Ahi Togno! - dice, - ahi scura me!, ti manca
Il vigor, già lo vedo; ah! ch'uno sciorno
Tu fusti, a volè fa st'inturcamento,
Io più sciorna di te, che c'acconsento.

E chi è stato quel cane e quell'indegno?
Marito mio! Ma già sei smaritato,
Se per tè ce n'è poco, ch'a 'sto segno
T'ha ridutto, e così t'ha macellato!
Dimmi se botta fu di sasso o legno?
Dimmi, fusti ferito o sei cascato?
Ah! che mori e rest'io vedova e sola.
Mori sì, che già perza hai la parola".

O quì si sgraffia el viso, o quì si sbatte,
Qui sì, che fa di lagrime una troscia,
Di Togno le fattezze scontrafatte,
Pe' poi meglio osservà, più allor s'accoscia.
Lui volta l'occhi, e in quei di lei s'imbatte,
Dice, con voce assai sfiatata e moscia,
Che giusto par d'un moribondo sia:
"Aiutami se pòi, Marzocca mia".

Mentre costoro favano 'sti fiotti,
Sul solito cavallo, a tutto corzo
MEO se ne viè, che par che d'ira abbotti,
E alle carriere sue dà più rinforzo.
Mostra, turbato in viso, che gli scotti
Il vede, che dal popolo quì accorzo
L'incominzata festa s'intrattenga;
Vie a sapè se il difetto da chi venga.

Si fà far largo, poi s'accosta e smonta,
E in vedè quella faccia così smunta,
Il fatto vuò sapè. Se gli racconta
Senza sminuimento, e senza giunta.
A cavallo allor subbito rimonta,
Perche la folla già s'è ricongiunta,
In tel mezzo del circolo si pianta,
E in vedello infoiato, ogn'un s'incanta.

Dice al barbiere, ch'in quel punto arriva,
Ch'il vada presto a medicà in bottega,
Se lì in terra il ferito assai pativa,
E in te la strada, non vuò più 'sta bega.
Marzocca allora, morta più che viva,
Che voglia farlo ben curà, lo prega.
Lui gliel promette, e poi vuò che si faccia,
Da dui guitti, una sedia con le braccia.

La fan questi, s'abbassano, e de peso
Acchiappano cert'altri quel merollo;
Lo schiaffano a sedè, quanno l'han preso,
Lui mette a quelli due le braccia al collo.
Ma allor Marzocca col su' braccio steso
La schina appuntellò, nè mai lasciollo
Fin che bel bello fu portato via,
Pe' medicallo in te la barberìa.

Serra i due ciucci in drento a 'na stalletta
Un vetturale, che stà lì vicino,
Che nell'albergo suo sempre ricetta
Bestiame cavallesco et asinino;
Sì lui, come il barbier MEO li precetta,
Che non taccino spennere un quatrino
A quei meschini, c'hebbero 'sta scossa,
Perchè lui, tutto de pagà s'addossa.

Poi si porta in due slanci alla locanna,
De dove già colui fece il delitto;
Come il patron di quella si domanna,
E dove sta, gl'havevano già ditto.
Arriva appena, e al locandier commanna,
Che pe' 'sto caso stava tutto afflitto,
Che dica dove annò, dove si trova
Quel traditor, ch'ardì de fa' 'sta prova.

"Signor, - dice costui, - for di me stesso
Io resto allo stranissimo accidente,
Che per disgrazia mia è qui successo,
Senza però, ch'io ci habbia colpa niente.
Il reo sta sopra, e giù lo chiamo adesso;
Non solo non fuggì, ma non si pente,
Anzi che ha gusto assai di quel ch'ha fatto.
In quanto a me signor, lo stimo un matto.

 
 
 
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