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Il Meo Patacca 09-3

Post n°1301 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Quell'ardito raponzolo, quel frasca
Già de 'sta bella botta s'era avvisto,
E tra la gente subbito s'infrasca,
Pe' la paccheta, c'ha de calche pisto;
Ma poi, come nel vischio il tordo casca,
Così costui c'incappa, perchè visto
Fu da uno sgherro, (senza sapè come),
Terribbile di faccia, e più di nome.

Non po' scappa non po', dalle su' mani,
Perchè lui, de potenza te l'afferra,
Et era un di quei dieci capitani,
Che dovevan con MEO marcià alla guerra.
Pe' farne poi strapazzi, et assai strani
Pe' i capelli lo tiè, l'alza da terra,
E perchè ha forza et è a 'ste prove avvezzo
Tonno tonno lo piccola un bel pezzo.

Fa 'sta faccenna con la man mancina,
E con la dritta gli da sganassoni
E pugni così forti in te la schina,
Che fan, ch'intorno l'aria ne risoni.
Piagne e strilla il regazzo, e si storcina,
Si raccomanna, acciò che gli perdoni,
Ma perchè vendicà lui vuò l'affronto
Di Nuccia, te lo pista come l'onto.

Sputamorti si chiama, et è un maiale
Assai granne, spalluto e corpulento,
Fa d'un paro di baffi capitale,
Che par, ch'a tutti mettino spavento;
Ha un neo peloso e riccio in tel guanciale,
Che gli serve d'un orrido ornamento,
E danno segno d'un cervel baiardo,
Severo il ciglio e ammazzator lo sguardo.

Se tratta, che quel povero regazzo
Si volze spirita' pe' la paura;
Pur di fargli assai peggio, 'sto bravazzo
Arciterribilissimo procura;
Fatto di tutti i su' capelli un mazzo,
A due mani l'acchiappa, e poi misura
Con lo sguardo un bel colpo, e quasi scaglia,
Tutto il putto quant'è nella muraglia.

Se da certi, costui non viè impedito,
Che le braccia gli tengono, sicuro
Per quell'impeto granne, c'ha ammannito,
E lo schioppa e l'appiccica nel muro.
Gliel vorrian far lassa; ma inviperito
Prova de novo, a fa' quel battimuro;
Alfin pe' non vede l'atto inumano,
La gente glie lo leva dalle mano.

Tonto il regazzo, ahimè! più non par esso
Scapigliato, somiglia un stregoncino;
Vuò fuggir, non sa dove, inciampa spesso,
Ch'in piedi appena reggesi il meschino.
D'havè gli pare Sputamorti appresso,
E con quello, il pericolo vicino.
Si sforza a curre, ogn'urto lo spaventa,
Lui stesso, di sè stesso orror diventa.

Si salva alfin. Ma non però più ardisce,
D'annà a fà, pe' la festa l'insolente,
E il baffuto campion s'insuperbisce,
D'havè azzollato quell'impertinente.
Và poi Nuccia a trovà, con lei complisce,
E glie domanda, se gl'occorre gnente,
Glie fa sapè l'orribbile strapazzo,
Da lui già fatto al malfattor ragazzo.

"Io son, - gli dice doppo, - gnora mia!
Del gran PATACCA amico, e di bon core;
Però esser devo di Vossignoria,
Che so quant'è a lui cara, servitore;
In tel vede quell'insolenteria,
Che glie fu fatta, me venì 'l furore,
Che non conviè, che tal'attion sopporti
Questo Suo servo e schiavo Sputamorti".

Nuccia, e le su' compagne hebber de guai
A tenesse, in vede' 'sta gran bestiaccia,
E sentì un nome non inteso mai,
Di non sbruffagli una risata in faccia:
Si ricordorno allor delli babài,
Che co' 'na spaventole barbaccia,
Alli su' figli piccoli, figura
Una matre, pe' mettegli paura.

Tutto rimedia Titta scarpellino,
Che s'inframette subbito, e risponne
Per Nuccia, ma fratanto un ghignettino
Mezzo strozzato, fecero le donne.
L'homini la discorzero un tantino;
Poi Nuccia il ringraziò, lui con profonne
Riverenze, finito il complimento,
Parte, d'havello fatto assai contento.

Titta pur con le femmine va altrove,
Arrivano in un largo, e quì ben anco
Trattenimento c'è di cose nove,
Vedennose un spettacolo da fianco;
Le cornici s'infiorano d'un bove,
Ch'è bello, grasso, mansueto, e bianco;
Su la schina a 'sta bestia ce sedeva
Un maschio, ch'una femmina pareva.

È costui ben vestito alla donnesca,
Con un bel manto di color di celo,
E con architettura pittoresca
Pende dal capo, e sventolicchia un velo;
La faccia propiamente è femminesca,
Se nel barbante non ci ha manco un pelo,
Che per homo a quel popolo lo scropa,
E fa figura della bella Europa.

Con la man dritta tiè un puntuto stocco
In atto di ferir, e per adesso
Sta fermo il bove, come fusse un ciocco
Fin che di fiori il cinto se gl'è messo:
Poi da un puncicarel di dreto è tocco,
Uno innanzi lo tira, e lui viè appresso;
Dove annerà, si vederà di breve,
Va intanto, adascio adascio, e greve greve.

Cammina innanzi al bove un'asinaccio
Guercio, impiagato, schifo, e senza coda,
Di questa iscammio, pennolone un straccio
Sul poco stroncicone se gl'annoda.
Gli serve di capezza un certo laccio
Fatto di paglia intorcinata, e soda,
Basto non ha la scorticata schina,
E un certo malscalzone lo strascina.

Vestito da Gran Turco lo cavalca,
Un che la parte sua la fa assai bene;
Attorniato è costui da una gran calca
Di regazzi, e 'l cotogno basso tiene.
Di scegne vista fa; ma non scavalca,
Perchè a forza la gente lo ritiene;
Mostra d'havè paura, e che vorrìa,
Quanno farlo potesse, scappà via.

Alla coda stracciona del Sumaro,
C'è chi ogni poco zaganelle attacca,
Poi gli dà foco, e in tel sentì lo sparo,
Zompa e trotta la bestia, e 'l Turco insacca.
Acciò non caschi, ogn'un gli fa riparo,
Perchè quella carogna, benchè fiacca
L'alza, lo sbalza, e lui da delle storte,
Finge di tracollà, ma si tiè forte.

El bove non ha più la zampa lenta,
Che lo spuncico cresce; va trottanno
L'asino del Gran Turco, e si spaventa
Costui, come che sfuggia un gran malanno.
Sul bove Europa, a seguitallo intenta,
Significa, che mentre al fier tiranno
Da lei coll'arme in man, si dà la caccia,
Il Turco dall'Europa si discaccia.

Chi sa 'ste cose interpretà, le spiega
Alle perzone sempliciane e sciote,
Più d'una donna el su' parente prega,
Che ben glie le dichiari, e faccia note.
C'è chalched'uno, che ne fa bottega
De 'st'interpretature, e ne riscote
Ringraziamenti e lodi, e ci pretenne
Quanno, a chi non le sa, le dà ad intenne.

Fanno intanto, gridanno come pazzi,
Per esser sempre a sbordellane avvezzi
Parecchi insolentissimi regazzi
A colui, che fa 'l Turco, dei disprezzi;
Solo però consistono i strapazzi
In coccie di merangoli, et in pezzi
Di melon guasto e fracida cucuzza;
Co' i schizzi, acqua sul grugno se gli spruzza.

Quel poverhomo, è ver, che fà fintiva
D'esser il Turco, e che strazià si lassa,
Ma quanno un tibi dabo poi gl'arriva
Gagliardo assai, la flemma se gli passa.
Si volta a quella gente, che veniva
Attorno a lui, pe' fagli da smargiassa,
E dice: "In grazia, stieno in ciarvello
'Sti regazzacci, e tirino bel bello".

Di tutti il capo sgherro, che commanna
Ad ogn'altro, è PATACCA, che lì venne,
Per ordinà la prima mossa, e manna
Ogn'un di quelli via, che il Turco offenne.
Si porta in mano, d'India la su' canna,
Minaccia colpi, e dove pò li stenne,
E mentre, hor questo et hora quello azzolla,
La baronaglia allor tutta si sfolla.

Fatto questo, capò mezza dozzina
Di ragazzoni meno impertinenti.
"Troppo, - gli disse, - 'st'homo si sciupina,
Non voglio nò, che tanto si tormenti:
Tiratigli voi soli in su la schina,
E non in altra parte, e state attenti,
Ch'altri non ci si mettino, che poi,
Io non me l'habbia da voltà con Voi.

Non s'addropino robbe da fa' male,
Ma scorze di cocommeri leggiere,
E coccie simiglianti, in modo tale,
Che paran poi saioccolate vere:
De grazia, non entramo in criminale,
Nè s'esca dalle cose del dovere;
Se fa chalch'un di più, te l'assicuro,
Che te glie sbatto la capoccia al muro".

Tutti, al bravà di MEO, quelli birbanti,
Che tozzolorno senza discrizione
Quel pover'hom, con tanti colpi e tanti,
Di già battuto havevano el taccone.
L'altri sei, che capò, furno osservanti
Dell'ordine già dato, e la funzione
Seguitò meglio, e ancora non si stracca,
D'annar altrove a fatigà PATACCA.

Va tuttavia giranno Mastro Titta
Con le due pavoncelle, e la grimalda,
Et ecco, a capo d'una strada ritta
Si vede gente unita, e assai ghinalda.
D'un altro Turco favano sconfitta,
Che da 'na corda, ben tirata e salda,
Ch'era a traverzo stesa, in giù pendeva,
Et un laccio impiccato lo teneva.

È il pupazzo, che straziano costoro
Di carbon frabicato, e ben inteso,
Sul petto ce sta scritto a lettre d'oro:
"Oh questo nò, non l'haveria mai creso!".
C'era drento un ordegno, et un lavoro
Pe' fa, che pozza starce un chalche peso,
E l'ingegniero, assai speculativo,
Ci haveva rinserrato un gatto vivo.

Parte in sù, parte in giù confusi stavano
In strada certi sgherri, che tenevano
I cacafochi in mano, e li sparavano
Inverzo il Turco, e sempre lo coglievano.
Le palline il cartone trapassavano,
E i sgnavoli del gatto allor crescevano;
Le genti, che lo strepito sentivano,
Dove stasse la bestia, non capivano.

Col rumor delle botte d'archibusci
Fava concerto l'armonìa gattesca,
Et ecco, MEO commanna, che s'abbrusci
Tutta allor la figura cartonesca.
Incominza quel gatto a fa' dei busci,
Mentr'arde la materia, acciò che n'esca
El grugno prima, e poi del corpo il resto,
Raspanno con le zampe, presto presto.

In più lochi il cartone alfin si strappa,
E a raprillo l'aiutano le fiamme;
Il gatto allor precipitoso scappa,
Ch'arzo ha 'l pelo, arzo il mucco, arze le gamme.
Zompa giù in strada, e dove pò s'aggrappa,
Lesta è in fuggir la gente, ch'è rasciamme,
Perche la gonza, ch'arrivà si lassa,
Brutta burasca da 'sta bestia passa.

Mò qua, mò là, già mezza abbrustolita,
Curre con furia, mozzica, e sgraffigna,
Quanto arrabbiata più, tanto più ardita,
Co' le granfie s'allancia ', e i denti sgrigna.
Pe' scampà da 'sta bestia inferocita,
Bigna ch'ogn'uno si ritiri, bigna.
Pe' paura d'havè delle sgraffiate,
Strillan le donne, come spiritate.

L'homini ancor dell'animal feroce
Hanno paccheta granne, perchè questo,
Quanto la scottatura più gli coce,
Tanto più imbestialito esce di sesto.
Chi dice: "Frusta via", con alta voce,
Chi salticchia, chi fugge, e chi assai presto,
Perchè al fianco ha la lama", la sguaina,
Pe' menà, se la bestia s'avvicina.

Qui 'l popolo si slarga, e là si stregne,
Che il fiero gatto, dove po' s'avventa;
In loco salvo ogn'uno si ristregne,
Se nò, la bestia le staiole addenta.
Quanto più fugge, più a fuggì costregne,
Quant'è più spaventata, più spaventa,
Più gente vede, più insalvatichisce,
Più caccia se glie da, più s'infierisce.

Currenno, alla ferrata ecco s'affaccia
D'una cantina, e perchè troppo è cupa,
El grugno, che già prima drento caccia,
Ritira fora, e più non si dirupa.
Non così và di pecorelle a caccia
Nelle campagne un'affamata lupa,
Come inverzo la gente, 'st'animale,
S'affiala, e se pò farlo, fà del male.

Mentre ogn'un dal pericolo si scanza,
Lui s'arrampica in cima d'un rastello,
Che sta pe' mostra, come è antica usanza,
In su la porta d'uno scarpinello;
Stima sicura assai quest'abbitanza,
Però fermo ci sta; ma un farinello,
Ch'ha lo schizzetto in man, piglia la mira,
Giusto in mezzo al crapino , e poi gli tira.

Te l'azzecca, lo sfonna, e del mostaccio
Ne fa 'na pizza, e 'l gatto scapocolla,
Casca giù in terra, come fusse un straccio,
E pe' vedello, il popolo s'affolla.
Entra allora in tel mezzo, un spiritaccio,
Dico un sgherro, che Sugo di Cipolla
Se ciama, e la raggione se ne renne,
Perchè fa piagne, chi con lui contenne.

Prima 'l gatto co' i calci in alto sbalza,
Pe' ben ciarirzi, se più vive e sfilza
Dal fodero la lama, e te l'incalza,
Sino che con la punta te l'infilza.
Doppo, come un trofeo per aria l'alza,
Pendono il core, il fegato, e la milza,
Perch'è sventrato, e lui la mano impolza,
Forte lo regge, e il sangue cola e stolza.

Mentre di quello il portator s'impiastra,
Gnente affatto curarsene dimostra,
Bench'habbia un gipponcin fatto di lastra,
Pel gusto ch'ha della gattesca mostra.
Se ne va con baldanza giovenastra,
Come trionfato havesse in guerra o in giostra.
Dreto prauso gli fa calca pedestra,
E chi sente s'affaccia alla finestra.

Da truppe di regazzi insolentelli,
L'animale infilzato si corteggia;
Non mancano chiassate, nè bordelli,
E sempre su 'sto gatto si motteggia.
Ma lassamoli sta' 'sti mattarelli,
Mentre il Turco da loro si sbeffeggia;
Per me vadino pur, ch'io quì li pianto,
Ch'altre cose ho da dir nel novo canto.

Fine del Nono Canto.

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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