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Il Meo Patacca 09-2

Post n°1300 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Io non t'abbacchio, che te compatisco,
Perchè non sai quel che per te facèi,
Sol perchè la tu' moglie custodisco,
Tu contro me, così rugante sei.
Senti! sgherretto mio, non m'infierisco,
Quanto pe' scrapicciatte io doverei,
Perchè prima il servizio che t'ho fatto
Voglio che sappi, e che in bravà, sei matto".

Come un gallo ch'inarbora la cresta,
Quann'alza e slunga il collo, e poi s'imposta
Contro d'un altro gallo, e gli fa testa,
E il becco a quello del nemico accosta,
Se dall'acqua bagnato a caso resta,
Che vien da una finestra sopraposta,
E l'ale e 'l collo abbassa, e de fà guerra
Più non si cura, e si rannicchia in terra,

Così Titta atterrito si ritira
Tutto in sè stesso, e più non fa del bravo
In osservà di MEO la rabbia e l'ira.
Dice: "Io vi sono, e servitor, e schiavo;
Un chalche malalingua hebbe la mira
Di metter mal tra noi, mentre cercavo
Mi' moglie, e m'appettò la falza spia,
Che lei mi fù da voi menata via".

"So' giovane onorato, e no di quelli,
- Gli rispose allor MEO, - caposventati,
Che far ci vonno l'innamoratelli,
E delle belle figlie i spasimati.
Bigna distingue da 'sti bricconcelli
'Sto fusto, che quei modi ha sempre usati,
Che son civili, rispettosi, e onesti,
Nè fece mai quel ch'ogni dì fan questi".

Ciò ditto appena, a racconta si mette
Tutto il caso, che prima era successo
Minuto per minuto, inzino a un ette.
Gli dice poi, quel ch'operò lui stesso.
Titta, in sentir la cosa come annette
Disse a PATACCA: "Io ben conosco adesso,
Quanto ve sò obrigato, e quanno cresi
Tradito esser da voi, quanto v'offesi.

Di chiedeve il perdon quasi m'astengo,
Se nol merito propio, (e pur è vero),
Che sò un gran animale, allor ch'io vengo
Ad affrontarvi, imbestialito e fiero;
Ma perchè Voi, tra l'altri, il Maiorengo
Sete nel favorir, da Voi lo spero;
Per questo, supplichevole vel chiedo,
Che siate per negammelo non credo".

MEO, che spicciasse da costui vorrìa,
Che ha prescia di sbrigà le su' faccenne,
Ce fa pace ce fa; con lui s'avvia
Dove sta Tolla, che glie la vuò renne.
Sfilano presto presto in compagnia,
E poco tempo in tel camin si spenne,
Son già vicini, e MEO la porta adocchia,
S'accosta, et assai forte la sbatocchia.

Pe' non perder più tempo, lì de fora
Dice: "Madonna Tutia giù currete,
Venga con voi la gnora Tolla ancora,
Che su' marito è qui, dirglie potrete".
La scarpellina tutta si rincora,
E grida di là su: "Titta! ci sete?
Uh! manco male, se 'sta cosa è vera,
Vi dò, signore mie, la bona sera".

Zompa costei giù pe' le scale a un tratto,
E la seguita Nuccia, e Tutia puro;
Titta resta in vedetta, sodisfatto,
Mentre che l'onor suo stava in sicuro.
Nuccia, che vede messo in chiaro il fatto,
Che come prima non stà più allo scuro,
Brilla de gusto, e con allegra faccia,
Tutta dal cor la gelosia discaccia.

Tolla, mentre al marito fa accoglienza
Di riverì PATACCA non si sazia;
Racconta a Titta la su' diligenza,
E lodanno lo va con bella grazia.
Perchè la liberò dall'insolenza
Di tanti ciovettoni, lo ringrazia,
E Titta ancora fa le parti sue,
Sparanno cirimonie tutti due.

MEO, pe' dar l'incominzo alle su' feste,
Da 'sto cerimonia presto si spiccia,
Dice in tanto alle donne: "Annar potreste
Dove il foco alle machine s'appiccia".
S'offre lo scarpellino a servir queste, E
PATACCA l'approva, e se l'alliccia;
Ma prima a tutti prima fa un saluto,
Perch'è sgherro garbato e creanzuto.

Ci hanno gusto d'annà girandolone
'Ste femmine, a vedè li tanti sciali,
Ch'in ogni strada e piazza e ogni cantone
Ammannirno le genti dozzinali.
Tutia e Nuccia, che stanno un pò sciattone,
E di cocina ancor hanno i zinali,
Vonno tornare a salir su a mutarli,
Et a metterzi ancora i virli varii.

Fanno, pe' non usar incivilezza,
Salir Tolla, e giù resta mastro Titta;
S'abbelliscono intanto con prestezza,
La scarpellina osserva zitta zitta.
Nuccia, pe' fa spiccà la su' bellezza
Quanto più pò, s'acconcia, e ritta ritta
Sta innanzi al vetro sta, dove si specchia,
E si rinfazzonisce ancor la vecchia.

Questa, un largo zinal di filindente
Si mette, ch'è all'antica, ma galante,
Pigliato in presto da una su' parente,
Si lega uno scuffin sotto al barbante:
Nuccia, che lì teneva ogn'ingrediente
Per aggiustà la testa assai sfavante,
Si mette in capo, come adesso è stile,
Di scuffie e sfettucciate un campanile.

Lei puro ha 'l su' zinale, ch'in effetto,
Tal non è, ma più tosto un zinalino
Di cambraia sottil, ma però stretto,
Fatto all'uso moderno, e galantino.
Sotto, e da' fianchi è cinto da un merletto
Alto quasi ch'un palmo, et assai fino.
È di punto, e lo fece da sè stessa,
Perchè a fà 'sti lavori è dottoressa.

Rescon di casa 'ste tre donne unite,
E mastro Titta pur, che l'accompagna,
E pe' tenerle poi ben custodite,
Glie va accanto, e da lor non si scompagna:
A girà pe' le strade, che rempite
Son di lustrori, è propio 'na Cuccagna,
Et ecco, ch'a vedè s'incontran giusto
Un certo non so che, che gli dà gusto.

In una strada larga, e ritta in modo,
Che per un pezzo non ha svoltature,
A due legni, piantati in terren sodo,
Stan legate, di stracci due figure.
Una è il Gran Turco, che pe' rabbia un ciodo
Rode co' i denti, e pe' le su' sventure
Par, che tarrocchi, e l'altra è del Vissir,
Che seppe assedià VIENNA, e poi fuggir.

Quello sta iscontro a questo, ma discosto
Da cento passi in circa; assai stirato
Per aria uno sforzino c'è infraposto,
Al collo de i due Turchi avviticchiato.
Steso è a lungo pe' dritto, et assai tosto;
Un razzo, ad un de' capi sta legato,
E quanno da chalch'un se gli dà foco,
Scurre giù pe' la corda, e fa un bel gioco.

Ecco s'appiccia, e dal Gran Turco pare,
Che pe' bruscià 'l Vissirre mammalucco,
A lui s'addrizzi, e quello va ad urtare
Con gran velocità, di questo al mucco.
Si vede allora il razzo sfavillare,
E abbrustolir la faccia al vecchio cucco,
Che tutti lo figurano barbuto,
E pe' maggior disprezzo, ancor canuto.

Assai stupisce qui la gente sciorna,
Che della corda non s'è gnente accorta,
Ma più in vedè, ch'il razzo arreto torna,
E appuntino al gran Turco si riporta;
Ma mentre giù con impeto ritorna,
Un novo sbruffo di faville porta
Di quello in sul mostaccio, e par che sia
Vendetta del Vissir, ch'a lui l'invia.

Oh, qui, si strepiteggia, e si sghignazza.
Qui si cresce la calca a più potere,
Per così dire, il popol ce s'ammazza,
Del razzo in aspettà nove carriere.
Non bastarebbe manco una gran piazza,
A capì tanta folla; hanno a piacere
Truppe d'homini, e femmine assai folte,
Razzesche scorrerìe veder più volte.

Ma intanto altrove un stravagante sono,
Le chiama di tamburri assai scordati,
Però in realtà molto diverzo è il tono,
Per essere bigonzi rivoltati.
Molti n'han presi i sgherri, e se li sono
Un per uno, alla cintola attaccati;
Sul fonno con tortori van battenno,
E un tuppe tuppe, allor si va sentenno.

Poi vengono a cavallo a du' asinelli,
Fingenno d'esser Turchi, dui birbanti,
Dreto gli vanno certi sgherroncelli,
Stracciati, furibondi, e minaccianti.
Gli frustano le spalle, e fanno quelli,
E smorfie, e torcimenti, e strilli, e pianti;
Ma fingon, dalle fruste, haver tormento
Perchè vessiche son piene di vento.

Vien doppo un sumarotto un pò mulesco;
In testa ha un gran turbante a posta fatto,
In su la groppa un manto vissiresco,
Et alla coda c'è attaccato un gatto,
Che lo sgraffigna, e più d'un romanesco
Rifilanno lo và con un suatto;
Così il Turco si sbeffa; ma qui lasso
'Ste baie, e a dir cose più belle io passo.

Alzato, giusto in mezzo a una piazzetta
C'è un palco, ch'a vedello dà spavento,
A prima vista sì, ma poi diletta,
Che piace, benchè tetro, l'ornamento;
Un panno nero su ce s'imbolletta,
Ogni cantone ha la su' torcia a vento;
Parapetti non ha, ma solo il piano,
Acciò, chi è sopra, spicchi da lontano.

Un pezzo d'homaccion brusco alla cera
Sta su sbracciato, e non è già un fantoccio,
Ma in carne e in ossa una perzona vera,
Benchè immobbile stia, come un bamboccio.
Grufi i capelli son, la barba è nera,
Ha un roscio berettin fatto a cartoccio,
Con una sciabla in man da malandrino,
In atto sta di scapoccià 'l vicino.

Accanto a lui c'è un Turco a man dereto
Legato a un trave, e questo non arriva
Al collo, ma ce manca un mezzo deto,
Quanto non c'urti nel taglià, la sciva.
Col capo basso sta tremante e queto,
E questa puro è 'na perzona viva:
Al turbante, s'accorge chi l'adoccia,
Esser Bassà, da faglie la capoccia.

A poco a poco, il popolo s'ammassa,
Perchè la gente viè di tanto in tanto;
Dalla su' positura assai smargiassa
L'ammazzatore, alfin, si move alquanto;
Alza allora un riverzo, et in giù lassa
Scorrer la man con impeto tamanto,
Ch'in un attimo, a fè gran cosa è questa.
Con un colpo, al Bassà taglia la testa.

Sbalza questa sul palco, e il sangue schizza
Dal collo a tutta furia, et in giù penne
Dal trave il busto, ogn'uno il capo arrizza,
Slarga l'occi, e su i piedi ancor si stenne;
Resta poi for di sè la gente zizza,
Nè sa cose capir così stupenne,
E 'sta scapocciatura, ch'è in effetto
D'un'homo vero, è orror, più che diletto.

Fu questo, a dirla giusta, un gabbamento,
Che fece un ingegniero assai saputo,
E il crapiccio d'un tal ritrovamento,
A prima vista non fu cognosciuto;
Di raso giallo addosso un vestimento
Portava quel Bassà, d'oro intessuto,
Robba propio da gente signoresca,
Assai largo, assai longo, alla Turchesca.

Era aggiustato in modo che cropiva,
Quasi il su' capo tutto, e questo haveva
Attorno robba assai, ch' i vani empiva
Vicini al collo, e spalle esser pareva.
La capoccia per tanto, che appariva,
Era finta, e la vera s'ascondeva;
Un artifizio qui occultato stava,
Che calched'un non se l'immaginava.

Fu pigliata, pe' fa' 'sta bella botta,
D'una cucuzza longa una gran fetta,
Poi giusto alla misura fu ridotta
D'un collo umano, così tonna e stretta;
Sul capo vero, quanno il dì s'annotta,
La finta gola l'ingegniero assetta;
Su ci appoggia una testa, ch'è pur finta,
E che ha la faccia al natural dipinta.

Ma tra ch'il gran turbante giù calcossi
Sino alle tempie, e tra la cropitura,
Che fanno al viso, i baffi longhi e grossi
E tra l'artifiziosa dipintura,
Vero pareva il grugno, e rimediossi
Del corpo di quell'homo alla statura,
Diventata del solito più longa,
Se il collo cucuzzesco assai la slonga.

Le zampe tutte, e in parte le staiole,
Havenno il palco un buscio fonnarello,
Stavano sotto, e mezze gamme sole
Arrivavano sopra al par di quello;
La vesta stesa, come haver si suole
Da i Turchi, a chi non ha più che ciarvello,
Non fa cognosce gnente la mancanza,
Perchè tocca le tavole, e n'avanza.

Vivo dunque apparisce l'homo intiero,
Perchè ha dal capo in giù moto vitale,
Et il mostaccio poi, par che sia vero,
Per esser proprio fatto al naturale.
Non arrivò già subbito il penziero
Di molti a giudicà, che non sia tale;
Anzi più d'uno ci haveria scommesso,
Ch'era quel capo di quell'homo istesso.

Perchè sia verisimile l'effetto,
Perchè ben fatta l'opera si dica,
C'era piena di sangue di crapetto
In drento al collo finto, una viscica.
Mentre scarica il colpo, c'ho già detto,
Inverzo di colui sciabla nemica,
Par che si tagli, allor ch'il sangue spruzza,
Una gola, e si taglia una cocuzza.

Mentre si fa di maraviglia un atto
Dalla gente concorza, ch'era molta,
E resta calched'un, quasi ch'astratto,
Una tenna ch'è sopra, ecco vie sciolta.
Il palco in tel calà crope de fatto,
Pe' far il collicidio un'altra volta.
Si riaggiusta il negozio, e curiose
Van via le genti, pe' vede altre cose.

Si sentono però de i discorzetti
Da certi saputelli chiacchiarini;
Finto capo sul ver come s'assetti,
Strologà vonno, e fanno l'indovini;
Ma troppo a fè ridicolosi detti
Escon di bocca de 'sti dottorini,
Che quanto più sacciuti, ci pretendono
Di sapè quello ch'è, meno l'intendono.

A poco a poco il popolo si sfolla,
E MEO spasseggia d'un cavallo in sella,
Mentre lo scarpellin con Nuccia e Tolla
Va giranno, e con lor Tutia spianella.
Come due legni appiccica la colla,
Così la sposa è accosto alla zitella,
C'ha paura la povera figliola,
Di perderzi di nuovo, e restar sola.

Benchè Titta stia sempre su l'avviso,
Che nol torni a mena chalch'un pel naso,
Pur a Nuccia fu fatto all'improviso
Un affronto non so, s'a posta o a caso.
Di turco haveva el vestimento e il viso
Un bamboccio di stracci, e il capo raso:
Era impalato, e il popolo confuso
Stava attorno a vedè 'sto brutto muso.

Un fraschetta sgherroso insolentello,
Che s'era insopportabbile già reso
Pe' le su' impertinenze, un gran bordello
Fava intorno al pupazzo. Il posto preso,
Haveva in mano un mezzo rimoncello,
Et ecco, che lo tira a braccio steso,
E iscammio di colpì quel babbuino
Giusto azzecca di Nuccia in sul crapino.

Pur fa un colpo da mastro, allor che sbaglia,
Se te glie fà casca tutto il gran monte
Del fettucciame, e ancor della ciuffaglia;
Tutia, e Tolla con lei restano tonte,
Nuccia poi si confonne, e la travaglia
L'esser pelata un pò, verzo la fronte;
Mò con la man procura di pararzi,
Mò vuò fuggir, non sa quello che farzi.

A cogliere il castello giù si piega;
Pe' vergogna, abbassata, non s'arrizza,
D'esser brutta gli par com'una strega,
E in sentir rider tutti, ha una gran stizza.
Titta la sbalza drento a 'na bottega,
Qui Tolla il campanile glie riadrizza.
Più d'un s'accosta, pe' vedè chi sia
Costei, ma il bottegar li caccia via.

 
 
 
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