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Il Trecentonovelle 38-47

Post n°1299 pubblicato il 28 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XXXVIII

Messer Ridolfo da Camerino con una bella parola confonde il dire de' Brettoni suoi nimici, facendosi beffe di lui, perché fuor di Bologna non uscía.

Le notabil parole e i brevi detti di messer Ridolfo da Camerino la passata novella mi reduce a memoria; de' quali ne dirò alcuni qui dappiè. Però che io scrittore, trovandomi in Bologna buon tempo con lui, quando era generale capitano di guerra de' Fiorentini, e di tutta l'altra lega per la guerra della Chiesa, quando il cardinale di Genèva, che poi ebbe nome papa Clemente in Vignone, era venuto con li Brettoni alle porte della detta terra, e uno nipote del detto messer Ridolfo nato di sua sorella, chiamato Gentile da Spuleto, andando per guadagnare, come fanno gli uomeni d'arme, facendo scaramucce coi detti Brettoni, fu preso da loro. E sapiendo gli Brettoni ch'egli era nipote di messer Ridolfo, con disprezzamento gli diceano:
- Noi aspettiamo il capitano vostro: perché non esc'elli fuori? noi sentiamo che si sta pur nel letto: venga fuori, venga.
Gentile rispose ch'egli aspettava gente, e che ben gli andrebbe a vedere a luogo e a tempo. Puosonli ducati cinquanta di taglia, e lasciaronlo alla fede che gli andasse a procacciare. Tornato in Bologna, e andando a messer Ridolfo, disse messer Ridolfo:
- Che dicono li Brettoni?
- Dicono: "Che fa questo vostro capitano, che si sta pur dentro? Che non esc'egli fuori? noi l'aspettiamo".
Disse messer Ridolfo:
- Come rispondesti?
Disse Gentile:
- Risposi che tosto usciresti fuori, però che voi aspettavate gente.
Disse messer Ridolfo:
- Mal dicesti, che Dio mal ti faccia.
E Gentile disse:
- Perché, messere?
Disse messer Ridolfo:
- Se' per tornarci?
Disse Gentile:
- Signor sí, però che ho portare loro cinquanta ducati per la taglia che m'hanno posta.
Dice messer Ridolfo:
- Se ti dicono piú: "Perché non esce fuori messer Ridolfo?" e tu rispondi: "Perché voi non c'entriate dentro"; e d'altro non t'impacciare.
Or non fu bella parola questa a uno capitano di guerra? per certo bella e notabile, come se l'avesse detta Scipione o Annibale: e troppo maggiore prova fu a' nimici questa riposta (se Gentile la disse loro) di mostrare loro chi messer Ridolfo era, e da quanto, che se due volte gli avessi sconfitti in battaglia campale. Altri poco sperti e pratichi nella maestria dell'arme si sarebbono andati incastagnando di parole, e quante piú ne avessono dette, da meno serebbono stati reputati.



NOVELLA XXXIX

Agnolino Bottoni da Siena manda un cane da porci a messer Ridolfo da Camerino, ed egli lo rimanda in dietro con parole al detto Agnolino con dilettevole sustanza.

Molto fu da ridere quest'altro motto che segue del detto messer Ridolfo. Francesco, signore di Matelica, ebbe un tempo guerra col detto messer Ridolfo; e morendo il detto Francesco, rimasono suoi figliuoli, li quali, per istare sicuri e per difendersi da lui, uno Foscherello da Matelica, che era gran caporale in una compagna d'uno che avea nome Boldrino, facea sua camera in Matelica per provvisione ch'avea Boldrino a tutta sua brigata da' figliuoli di Francesco. E come s'usa per le guerre, questo Foscherello, come cordiale nimico di messer Ridolfo, fece una cavalcata con gente d'arme sul terreno di messer Ridolfo, per la quale menoe e predoe ottocento porci, e condusseli a Matelica.
Stando per alcuni dí, non potendo messer Ridolfo vendicarsi sopra i nimici, sopravvenne uno famiglio d'Agnolino Bottoni da Siena con uno bellissimo cane alano a mano, e andato dinanzi a messer Ridolfo, e fatta la reverenza, disse che Agnolino Bottoni gli presentava quel cane. Messer Ridolfo, guardando il cane e 'l famiglio, domandò da quello che quel cane era buono. Il famiglio gli rispose:
- Da porci, signor mio.
E messer Ridolfo disse:
- E come ne piglia?
Il famiglio disse:
- Quando uno, e quando due per dí, secondo come l'uomo gli truova.
Disse allora messer Ridolfo:
- Amico mio, questo non è cane da me, rimenalo ad Agnolino, e di' che io l'ho per ricevuto, ma che questo cane non è per li fatti mia, se non piglia piú che un porco per volta. Se gli ne venisse alle mani uno di quelli di Foscherello da Matelica, che ne piglia ottocento per volta, priegalo che me lo mandi.
Il famiglio, udendo costui, e veggendo che dono non ricevea, si partí quasi scornato, rapportando il cane e la 'mbasciata ad Agnolino, il quale, intendendo il fatto disse che messer Ridolfo dicea molto bene, dappoi che elli avea aúta sí poca considerazione che, essendoli stati tolti in quelli dí ottocento porci, gli mandava un cane che forse non avvenia del mese una volta che ne pigliasse uno.
Quanto fu piacevole il detto di messer Ridolfo! ché rade volte interverrebbe che, essendo presentato uno dono a uno, e quelli non lo volessi e rimandassilo in drieto, che non ne portasse cruccio o sdegno quelli che l'ha mandato. E 'l dire suo fu sí piacevole che non che Agnolino ne portasse, ma e' confessò aver fallato, solo per la perdita delli ottocento porci di messer Ridolfo.


NOVELLA XL


Il detto messer Ridolfo a un suo nipote, tornato da Bologna da apparare ragione, gli prova che ha perduto il tempo.

E questa che segue non fu meno bella novella, né meno bel detto, il quale disse a un suo nipote, il quale era stato a Bologna ad apparar legge ben dieci anni; e tornando a Camerino, essendo diventato valentrissimo legista, andò a vicitare messer Ridolfo. Fatta la vicitazione, disse messer Ridolfo:
- E che ci hai fatto a Bologna?
Quelli rispose:
- Signor mio, ho apparato ragione.
E messer Ridolfo disse:
- Mal ci hai speso il tempo tuo.
Rispose il giovene, che gli parve il detto molto strano:
- Perché, signor mio?
E messer Ridolfo disse:
- Perché ci dovei apparare la forza, che valea l'un due.
Il giovene cominciò a sorridere, e pensando e ripensando egli e gli altri che l'udirono, viddono esser vero ciò che messer Ridolfo avea detto. E io scrittore, essendo con certi scolari che udiano da messer Agnolo da Perogia, dissi che si perdeano il tempo a studiare in quello che faceano. Risposono:
- Perché?
E io segui':
- Che apparate voi?
Dissono:
- Appariamo ragione.
E io dissi:
- O che ne farete, s'ella non s'usa?
Sí che per certo ella ci ha poco corso; e abbia ragione chi vuole, che se un poco di forza piú è nell'altra parte, la ragione non v'ha a far nulla. E però si vede oggi, che sopra poveri e impotenti tosto si dà iudizio e corporale e pecuniale; contra i ricchi e potenti rade volte, perché tristo chi poco ci puote.


NOVELLA XLI

Molte novellette, e detti del detto messer Ridolfo piacevoli, e con gran sustanza.

E' mi conviene in questa novella, poi che io sono entrato a dire di questo valentre uomo, dire certi suoi detti; però che, al mio parere, e' fu filosofo naturale di pochissime parole. Dico adunque che un suo amico, che era stato gran tempo che non l'avea veduto, disse:
- Messer Ridolfo, voi siete ringiovenito dieci anni, poi che io non vi vidi.
E messer Ridolfo guarda costui con la coda dell'occhio, dicendo:
- Di quello che dici, ne prendo conforto, ma saccio che non ci dici lo vero.
Dicea il detto messer Ridolfo che non volea ch'e' servi suoi del suo avessono meglio di lui. Quando era il freddo grande, dicea:
- Andate accendere il fuoco, e là vi scaldate, e quando egli ha fatta la bracia, mi chiamate.
Volea ch'e' fanti avessono il fummo e non lo volea elli.
Essendo il detto messer Ridolfo al servigio del re Luigi di Cicilia, andando con certa gente d'arme, fu assalito; di che convenne che tutti si fuggissono a sproni battuti, e camporono. Tornato poi messer Ridolfo nel cospetto del re, e lo re gli disse:
- Ridolfo, per quanto aresti dato quelli sproni?
E quelli rispose:
- Di cotesto non saccio: ma ben saccio per quanto ci sarei rattenuto a fare lo patto.
Le candele della cera facea volgere alla mensa sua capo piede, mettendo di sopra il lato piú grosso della cera verde, dicendo che alli servi suoi volea che toccasse poi il sottile e non a lui; e da questo si cominciorono a fare delle candele mozze.
Essendo a Bologna il detto messer Ridolfo capitano di guerra per li Fiorentini, quando ebbono guerra con la Chiesa, gli fu detto che 'l papa avea venduto o impegnato Vignone per voler far gran guerra; ed egli disse:
- Molto c'è savio lo papa nostro; vuol vendere quello ch'egli ha, per acquistar quello che non sa.
Quando messer Ridolfo fu con la reina e con gli altri a dare ordine che fosse fatto il papa da Fondi, tornando a casa sua, trovò messer Galeotto suo genero, il quale dicendoli quanto era contra a Dio e all'anima sua quello ch'egli avea fatto, rispose:
- Aiolo fatto perché abbiano tanto a fare de' fatti loro ch'e' nostri lascino stare.
Essendo il detto messer Ridolfo andato a vicitare messer Gian Auguth, che era con lo esercito suo fuori di Perogia, e andando poi a vicitare l'abate di Mon maiore che per lo papa signoreggiava Perogia, e in quelli dí era fatto cardinale, gli disse:
- Avendoci fatto male, se' fatto cardinale; se ci avessi fatto peggio, saresti fatto papa.
Avendo maritata una sua figliuola giovane a messer Galeotto, che era già vecchio, molti suoi prossimani e uomeni e donne gli diceano:
- Doh, messer Ridolfo, che avete voi fatto a dare una giovane a un vecchio?
Rispondea:
- Hoccelo fatto per noi, e non per lei.
Fu dipinto a Firenze, quando venne in disgrazia del comune, per farli vergogna; essendoli detto, disse:
- E' si dipingono li santi: sonci fatto santo.
Ancora per questa cosí fatta cosa essendo a una sua terra, e trovando un suo suddito che tornava d'acconciare sue vigne e suoi terreni, lo domandò onde venía; disse che venía d'acconciare vigne e altri suoi fatti.
Disse a certi che erano con lui:
- Pigliate costui, e andatelo ad impiccare pe' piedi
Costoro ed elli domandano:
- Signore, perché?
Ed elli rispose:
- Perché li Fiorentini m'hanno fatto impiccare pe' piedi perché io ci ho fatto i fatti miei; secondo quella ragione e quella legge (ché si dee credere ch'e' Fiorentini ne veggano assai) costui dee essere impiccato; andate e impiccatelo.
E stante un poco lo licenziò; e per questo scusava sé, e accusava altrui.
Dicea che de' santi si facea come del porco: quando il porco muore, tutta la casa e ciascuno ne fa festa, e cosí per la morte de' santi tutto il mondo e tutti i cristiani ne fanno festa.
Ancora spesso dicea: "Tristo a quel figlio, che l'anima del suo padre ne va in paradiso".
Quando li Fiorentini nel MCCCLXII ebbono guerra co' Pisani, essendo elli capitano di guerra, e avendo posto il campo in Valdera, avendo due consiglieri fiorentini, forse mercatanti o lanaiuoli, li quali una notte pensarono che 'l campo non stava bene in quel luogo e che egli starebbe meglio su uno monte ivi vicino; e levatisi la mattina con questo pensiero, tirorono messer Ridolfo da parte e dissono che parea loro che 'l campo stesse molto meglio nel tal luogo; messer Ridolfo, come gli ebbe uditi, ghignando e guardandogli disse:
- Iate, iate, iate sí alle botteghe a vennere i panni.
Se dicea il vero ogni uomo il pensi, quello che ha a fare la mercatanzia o l'arte meccanica con la industria militare.
Non tenendosi quelli del reggimento di Fiorenza contenti di lui nella fine della guerra della Chiesa, lo feciono dipignere, come a drieto è detto. Di che, dappoi a certo tempo, essendo stato spinto, furono mandati a lui certi ambasciadori fiorentini a' quali fece due cose. La prima, che essendo a tavola del mese di luglio da lui convitati, era di drieto a loro a uno camino cosí acceso un gran fuoco, come se fosse stato del mese di gennaio. Gli ambasciadori, sentendo alle spalle il fuoco penace per lo sollione, domandorono messer Ridolfo che cagione era il perché di luglio tenesse il fuoco acceso alla mensa. Messer Ridolfo rispose che ciò facea perché quando i Fiorentini l'aveano dipinto, l'aveano dipinto sanza calze in gamba; di che per quello avea sí infrigidite le gambe, che mai da là in qua non l'avea possute riscaldare, e però gli convenía tenere il fuoco presso per riscaldarle. Gli ambasciadori sorrisono un poco, ma quasi ammutolorone. Poi seguendo alle vivande vennono capponi lessi, e le lasagne, le quali messer Ridolfo ordinò che la sua scodella fosse minestrata tanto innanzi ch'ella fosse tiepida, e quelle degli ambasciadori venissono bollenti e caldissime in tavola. E cosí alla tavola gionte, messer Ridolfo comincia sicuramente pigliarne pieno il cusoliere. Gli ambasciadori, cosí veggendo, ebbono per fermo poterle pigliare altresí sicuramente; onde al primo boccone tutto il palato si cossono, sí che l'uno cominciò a lagrimare, e l'altro cominciò a guatare il tetto, e a singhiozzare.
Messer Ridolfo dice:
- Che miri?
E quelli dice:
- Guardo questo tetto, che fu cosí ben fatto: chi lo fece?
Dice messer Ridolfo:
- Fecelo maestro Súffiaci; nol conosci tu?
Gli ambasciadori intesono il tedesco, e lasciorono affreddare le lasagne; e fra loro poi dissono:
- E' ci sta molto bene, che corriamo subito a dipignere gli signori come fossono portatori ed elli ci ha ben dimostrato quel che ben ci sta.
E cosí quasi scornati si tornorono a Firenze, dove saputa la novella, fu tenuto messer Ridolfo avere renduto pan per focaccia.
Avea mandato un fante con lettere, e preso da un suo nimico, gli fa tagliare le mani. E tornando al detto messer Ridolfo con le mani mozze, disse:
- Signor mio, questo ho aúto per voi.
Ed elli rispose:
- All'abbottonar te n'avvedrai, se l'avrai aúto o per te o per me.
Essendo ripreso da Messer Galeotto ch'egli era vecchio sanza figliuoli maschi... maritare e tenea certe terre altrui, rispose:
- Saccio che ognora...
E lo re Carlo mandò a dolersi di lui, che avea dato aiuto al duca... per venirli addosso. Rispose:
- Hogli messo il calderugio nella gabbia; ora sta, se lo sa pigliare.


NOVELLA  XLII


Messer Macheruffo da Padova fa ricredenti i Fiorentini di certe beffe fatte contro a lui da certi gioveni sciagurati, e con opere ancora il dimostra.

Messer Macheruffo de' Macheruffi da Padova, antico cavaliere d'anni, e anticamente venuto podestà di Firenze, in questa novella tiene molto bene la lancia alle rene a messer Ridolfo. Però che, venendo podestà di Firenze, come è detto, con uno tabarro e co' batoli dinanzi in forma da parere piú tosto medico che cavaliere, fu ragguardato e considerato da tutti, e massimamente da certi nuovi uomeni e sollazzevoli, li quali piú che gli altri facendosene beffe, proposono di fare sopra lui qualche cosa; e come che 'l fatto s'andasse, il primo dí che entrò in officio, venente la notte, gli fu appiccato con certi chiovi un buon numero d'orinali alla porta, ciascuno con orina dentro. La mattina seguente per tempo, aprendosi lo sportello, ché volea andare il cavaliere alla cerca, tirando lo sportello il portinaro, vidde ben dieci orinali essere appiccati ad esso. Di che maravigliandosi e facendosi fuora a guardare la porta, vidde tutto il rimanente, e subito corre a dirlo al podestà; il quale, inteso che l'ebbe, disse:
- Va', e fagli tutti venire su e fagli venir ben salvi, che non se ne rompa alcuno.
E per questo fare, convenne che 'l cavaliere adoperasse tutta la famiglia, che era apparecchiata d'andar con lui alla cerca, a portare li detti orinali dinanzi al podestà. Veggendoli il podestà se gli cominciò a uno a uno a recare in mano, e guardando l'acque, gli diede poi a' fanti che gli appiccassino intorno alla sala grande, e se non v'era dove, fece conficcare degli aguti. Cosí comandato, fu fatto; avendo considerato questo valentre uomo quelle tante e diverse acque, né piú né meno che facesse un medico.
L'altro dí seguente, o che 'l consiglio si facesse come anticamente in quella sala si facea, o che 'l podestà mandasse per molti nobili cittadini; gli quali giugnendo sanza sapere il fatto, tutti, veggendo quelli orinali, si maravigliavano; e cosí essendo ragunati, il podestà giunse fra loro, e cominciò a dire:
- Signori fiorentini, io ho sempre udito dire che voi sete li piú savi uomeni del mondo; e poi che io venni qui, in sí piccolo tempo conosco voi sete molto piú savi che non ci si crede; e la prova il manifesti: che essendo io venuto qui vostro podestà, e voi, come savi, considerando che 'l rettor della terra conviene che purghi li vizii e' malori di quelli che ha a reggere, né piú né meno come il medico conviene che curi le infirmità de' suoi infermi, mi avete in questa notte appresentato le vostre acque, li vostri segni in questi orinali che vedete d'intorno appiccati, li quali orinali mi sono stati confitti alla porta; e io avendoli proccurati, come che molto sofficiente in medicina non sia, veggio e ho compreso in questi vostri cittadini grandissime infirmità, le quali con la grazia di Dio penserò di curar sí che io vi creda lasciare piú sani, e in migliore stato che io non vi truovo.
Quando costui ebbe cosí parlato, li cittadini si tirorono da parte, e feciono uno risponditore per tutti; il quale disse al podestà che non potea essere che nelle gran terre non fossono diverse condizioni di genti, e semplici e sciocchi e matti; e che lo confortavono che cercasse chi avesse quelli orinali appiccati, e che ne facesse sí fatta punizione che a tutti gli altri fosse esemplo, e molte altre cose.
E 'l podestà disse loro:
- Voi mi dite che ci sono diverse genti e ignoranti e stolti; per quelli tali e io e gli altri rettori siamo eletti: ché, se tutti li populi fossono savi, non bisognerebbe ci andasse rettori e oficiali.
E cosí presono commiato e partironsi.
Il qual podestà rimaso, come che fosse valentre uomo, mosso ancora dallo sdegno, non dormío; ma con informazioni e con gran sollecitudini segretamente seppe chi erano quelli che erano di mala condizione e di cattiva vita; e cominciò ora uno per ladro, ora due per micidiali, e quando tre e quando quattro, e mettitori di mali dadi e d'altre pessime condizioni, a spacciare e mandarli nell'altro mondo, e ancora fu in questo numero di quelli che aveano appiccati gli orinali. E in brieve tanti ne impiccò, e tanti ne decapitò e justiziò per ogni forma, che nella fine del suo officio lasciò sí sanicata e sí guerita la nostra città che si riposò molto bene per assai tempo.
E però non si dee mai giudicare secondo le apparenze, e fare scherne d'altrui, e massimamente de' rettori; però che l'apparenza mostra molte volte quello che è d'assai, dappoco, e quello che è dappoco, mostra d'assai. Come che io credo che questa fosse permissione di Dio, volendo che ciò avvenisse perché li cattivi fossono puniti, e che quella mala erba fosse diradicata per forma che quella città ne rimanesse in migliore stato.


NOVELLA  XLIII

Un cavaliero di piccola persona da Ferrara andò podestà d'Arezzo: quando entra nella terra s'avvede essere sghignato, e con una parola si difende.

Meglio s'avvide degli atti, che gli Aretini faceano contro a lui, uno cavaliere piccolo e sparutissimo da Ferrara, quando entrò capitano d'Arezzo, che non fece messer Macheruffo, però che nel principio del suo officio al giuramento tagliò la via a chi avesse animo d'appiccare orinali o fare simili frasche. Però che, avveggendosi nel suo entrare in Arezzo che molti ghignavano e sghignazzavono della sua sparuta personcina, tutto sdegnoso n'andò alla maggiore chiesa, dove gli anziani e' rettori erano presenti, a farli leggere li capitoli e dare il giuramento. Quando il cancelliere ebbe letto ciò che dovea, gli porse il libro e disse:
- E cosí giurate a le sante die Vangele?
E 'l capitano guardando dattorno verso il populo disse
- Io giuro ciò che è...

NOVELLA XLVII (frammento)

... Tasso se la guerisse. Però che io sono stato con lei quarantatré maladett'anni, e ora dice che mi vuol venir drieto. Non sia, per l'amor di Dio. Arrogete ancora al maestro Giovan dal Tasso il maestro Tommaso del Garbo, e a loro due per egual parte lascio li fiorini duecento in quanto la guariscano.
Li parenti furono tutti suso, e spezialmente li fratelli della donna.
- O Jacopo, che volete voi fare? volete voi lasciare a' medici il vostro? ove rimarrebbe la vostra fama? ché ciascuno dirà: "Jacopo ha voluto lasciare piú tosto a due medici, che l'hanno forse sí mal curato che se n'è morto, che lasciare a una sua moglie che l'ha servito quarantatré anni, che non gli tocca per anno, lasciandole fiorini ducento, fiorini cinque". Or pensate bene.
E quelli rispose, che appena si potea intendere:
- O che so io chi m'ha piú tosto morto, o' medici, o ella?
E brievemente tanto fu combattuto che quasi come vinto, o col dire "sí" con parole o con cenni, il testamento ritornò che lasciasse alla donna fiorini duecento, e questo fece a grandissima pena: e poco stante si morí. E la donna fece il pianto grandissimo, come tutte fanno, perché costa loro poco; e sotterrato il marito, e rasciutto le lacrime, se avea difetto, si fece curare gagliardamente, e poi intese ad acconciarsi per sí fatta maniera che, con la dota sua e col lascio, in meno di due mesi uscío de' panni vedovili e rimaritossi.
Se la donna fece dello infingardo, molto gli stava bene, che gli andasse drieto: ma io credo ch'ella concepea nella sua mente di mostrarsi nelle parole e negli atti che 'l marito li lasciasse acciò che, morto lui, si potesse meglio rimaritare com'ella fece.
Niuna cosa si passa e dimentica, quanto la morte; e la femmina che piú si percuote e nel pianto e nel lamento è quella creatura che piú tosto la dimentica; e questa ne fa la prova, ché appena era sotterrato il marito che pensò d'averne un altro; e 'l marito andò forse a torre una moglie in inferno, per aver fatti lasci che espettavano piú al corpo che all'anima; e quella ch'egli avea lasciata, non accese mai una candela per l'anima sua.
Per questa donna si può notare leggiermente questi tre versetti:
Donna non è, che non adori Venere
Tal in sua deità, e qual è vedova
Non si cura di quel ch'è fatto cenere.

 
 
 
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