"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri
Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.
CANTO NONO
ARGOMENTO
Spasima Nuccia assai pe' gelosia,
Ma non è vero poi, quel che lei penza:
S'imputa MEO d'uninsolentarìa,
E lui sa discropì' la su' innocenza;
Scarpina intanto ogn'un, e ha fantasia
D'annar a vede la compariscenza
D'altre feste ammannite; et in più banne,
Ci son machine, e c'è concorzo granne.
Tolla con Tutia era di già salita
Nella stanza di sopra, e in adocchialla
Nuccia a un tratto restò come intontita,
E appena fiato havè de salutalla.
Quella renne il saluto, assai compita;
Da capo a piede intanto, d'osservalla
Nuccia non lassa, e in un'occhiata sola
Tutta la squatra, e non fa ancor parola.
La ciospa vede Nuccia, che s'ammusa
Al venì de 'sta giovane vistosa
E che resta sospesa, anzi confusa,
Per esser di natura assai gelosa.
Accosta tre sediole, e fa la scusa
Con dir, che non ritrova miglior cosa
Nella su' guardarobba, e co' 'sto scherzo,
Senz'altro repricà sedono in terzo.
Et ecco si fa un'atto di commedia,
Perchè di Nuccia il cor crepa d'invidia,
La Scarpellina coll'occhiate assedia,
Par che con quelle far gli voglia insidia.
A lei più allor s'accosta con la sedia
E in sempre più guardalla, ce profidia.
Già l'affetti di MEO, quasi ripudia,
Di saper chi è costei, tra sè già studia.
Inteso haveva prima dalla buscia
Che risponneva in sopra della porta,
Di MEO la voce, e questo assai gli bruscia
Perchè una fiera gelosia gl'apporta:
Non sa se sia Donna onorata, o sdruscia,
Per indurla a scropì da sè la torta
Glie fa bel bello, acciò al su' fine arrivi,
Quest'interrogatorij suggestivi.
"Per quanto so veder, Vossignoria
È sposa nè? Non credo d'ingannarmi;
Questo abbito mi pare, che ne dia
Tal contrasegno, che potrìa bastarmi;
Pur m'è caro saper, se il vero sia,
E dell'ardir La supplico a scusarmi,
Che per nostra natura, in certe cose
Noi altre donne semo un pò curiose".
Tolla, che ci pretenne, e assai glie piace,
De fa' pur lei la bella parlatrice,
Pe' mostrasse una giovane vivace,
Con un po' di sogghigno, così dice:
"Vedo Signora mia, che si compiace
Scherzar con me, che son Sua servitrice,
So' sposa in quanto, ma nel dire ha torto,
Che ne dia segno l'abbito che porto.
Vesti son queste mie, da bon mercato,
robba ordinaria assai da poverella,
E un abbituccio, che l'ho merlettato,
E liscio lo portavo da zitella.
Non ha volzuto mai ch'habbia sforgiato
Mi' marito, che in testa ha certa quella,
Con dir, che non sta bene, che sian visti
Tanti lussi alle mogli degl'artisti".
"E qual'è, - dice Nuccia -, il Suo mestiere,
S'è lecito saperlo?". Ha gran premura
D'intender, se 'ste cose son poi vere,
Perchè di calche trappola ha paura.
Tolla gusto non ha di far sapere
La scarpellineria, ma con drittura
Risponne, e tell'imbroglia, e fa' pulito:
"Lavorator di Pietre è mi' marito".
"Farà dunque l'orefice" de fatto.
Nuccia glie replicò. Ma Tolla allora
Fece un tantin di smorfia, et in quell'atto
Disse, scrullanno il capo: "Nò signora.
Io non parlo di gioje, error ho fatto,
A non spiegarmi meglio. Lui lavora
Pietre, che non son manco marmi fini,
Ma bensì sassi grossi, e travertini".
"Si, si, fà lo scultore, adesso ho inteso,
Me ne rallegro assai" Nuccia ripiglia,
"Già me l'immaginavo, e già l'ho creso,
Ch'era civile assai si' bella figlia".
"A Lei piace il bel dir", così ripreso
Fu da Tolla il discorzo." S'assomiglia,
Ma non è questa l'arte, non è in quanto,
Mio marito scultor. Ma sta lì accanto".
Nuccia s'accorge allor, perch'è una quaglia,
Che l'impiccia costei, nè parla schietto,
Quel che vuò dire intenne, e non si sbaglia;
Si volta a Tutia, e te glie fa l'occhietto.
Ma pe' 'ste cose più non la travaglia,
Perchè cognosce, che glie fa dispetto,
In volerla sforzà con più parole,
A faglie dir, quel che lei dir non vuole.
Parla d'altro così: "Mi favorisca,
Se non è impertinenza, questa mia,
Di dirmi il nome Suo; mi compatisca,
Perchè a mente io tener me lo vorria.
Già che vuò 'l caso, che La riverisca,
Troppo scortese et incivil sarìa,
Se saper non volessi a chi ne devo
Questo favor sì granne, ch'io ricevo".
Allor Tolla: "Signora! mi mortifica,
Se di una serva Sua vuò haver memoria.
Per ubbidir, da me se Le notifica,
Ch'il mio nome legitimo è Vittoria.
Ma dalle genti in parte si falsifica,
Che di me fanno al solito l'istoria
Di chiamarmi col nome frollosetto,
E mi dicono Tolla a mi' dispetto".
"Questo spesso succede, e chi Lauruccia,
E chi chiamano Lulla, e chi Palmina".
L'altra rispose: "A me dicono Nuccia,
A chi Tilla, a chi Pimpa, et a chi Nina,
A chi, dall'arte poi, la Barbieruccia,
A chi l'Ostessa, a chi la Scarpellina".
Così una staffilata glie l'avvia:
Quella finge ch'a lei data non sia.
Seguita Nuccia a interroga l'amica
Intorno a quello, ch'assai più glie preme,
E con arte procura, che glie dica,
Perchè lì venne con PATACCA insieme.
Saper il nome non gl'importa mica,
Nè il mestier del marito, e solo teme,
Che di costei PATACCA amante sia,
E glie rosica il cor la gelosia.
Così dunque glie parla: "Come ha viste
Signora Tolla delle belle cose?
Sento che molte case sian proviste
Di belle illuminate ', e assai gustose.
So, che molte mie amiche, benchè artiste,
Perchè di farsi onor volonterose,
N'han preparate certe in varie bande,
Che credo voglin dar un gusto grande.
Le genti ricche poi, ch'hanno da spennere,
Havran saputo meglio applaudire,
E quantità di lumi fatti accendere,
E messe in mostra cose da stupire.
Ma, che raggiono? e che vogl'io pretendere
Quel, che c'è da veder, volerglie dire?
Da lei stessa, ch'il tutto, se non sbaglio,
Visto haverà, ne posso haver raguaglio.
Il signor MEO, che seco La condusse,
Ch'ha maniera d'entrà per tutti i lochi,
Come appunto il patron d'ogn'uno fusse,
C'havrà fatti veder e lumi e fochi,
Dall'A per fino a conne, ronne, e busse.
Lui sa, de i pari sui, ce ne son pochi,
E col suo ingegno acquista onor e fama,
E signor della festa ogn'un l'acclama.
Ma perchè lo conosce molto bene
La signora Vittoria, altro non dico,
Sol dirò, che lodarlo a ogn'un conviene,
Se della verità non è nemico.
È fortunata poi, se con lei viene
Servendola, sì buon, sì degno amico;
A creder io mi dò, ch'un pezzo sia,
Che conversi con lui Vossignoria".
"Signora Nuccia! mi fo meraviglia,
Che Lei tacciar mi voglia su l'onore".
Tolla glie risponnè. "Sappia, che piglia,
Per dirgliela alla schietta, un grosso errore.
Troppo male il sospetto la consiglia,
Se doppo havermi fatto ogni favore,
Mi scusi in grazia s'io così raggiono,
Me gli fa creder quella ch'io non sono.
Giuro, ch'in tutto il tempo di mia vita
Una sol volta ho 'l signor MEO veduto,
E questo fu, per essermi smarrita,
Per un caso a me in strada succeduto.
È bensì verità, che già sentita
Havevo la sua fama, e ancor saputo,
Ch'era un giovane sodo, e savio assai:
D'andar con lui, per questo io mi fidai".
Nuccia le guancie allor vergognosette,
Del color d'una rosa, ch'è incarnata
Le tinze, e ben intanto cognoscette,
Ch'in parlà troppo libera era stata.
Con un ripiego al mal rimedio dette,
E fu d'havè la torta rivoltata:
"Non parmi, - disse, - haverla offesa in niente,
Pigliando il signor MEO per Suo parente.
La prego a perdonarmi, ch'io per sogno,
Non pretesi macchiar l'onor di Lei,
E con me stessa assai me ne vergogno,
Che meglio farmi intender non sapei",
"Di più scusarsi no, non c'è bisogno",
Tutia allora interzò. "Non crederei,
Che per una parola a caso detta,
Questa signora in collera si metta".
Di risentirzi subbito s'astenne
Tolla, che mostrà volze haver già crese
Le fatte scuse, e che più non s'offenne,
Dello sconcio parlà, che già n'intese.
Il caso, ch'al marito e a lei n'avvenne,
Messosi a raccontà, fece palese
La causa, perchè MEO prima glie parla,
Perchè fin lì poi volze accompagnarla.
Quanno Nuccia sentì la storia tutta,
Scacciò dalla su' mente ogni suspetto,
E fece giusto, come fa una cutta,
Ch'entrò a caso in tel fango inzino al petto.
S'impacciuca, sta grufa, e poi s'asciutta,
Messasi al sole in su una loggia, o tetto;
Slarga l'ale, si sgrulla, si rimena,
Zompicchia, glie ritorna e fiato e lena.
Così Nuccia, che prima era scontenta,
Et agrufata pe' li gran penzieri,
Che divorarzi el cor par che si senta
Dal dente dell'invidia, e che disperi,
Si ringalluzza adesso, et è contenta,
Mentre i suspetti sui gnente son veri,
All'occhi il brio, torna alla bocca il riso,
La pace al core, et il colore al viso.
Zompa su dalla sedia allor la vecchia,
Che così allegra la patrona adocchia,
E quello, che sentì con tese orecchia,
S'accorge bene, che non è pastocchia.
Pel gusto ch'ha, la tavola apparecchia,
Stritola sotto a i piedi una conocchia,
Vicino al focolare s'accovacchia,
Foco gli dàa con appiccià una tacchia.
Le legna accende poi con il soffietto,
Fa in prescia una frittata alla padella,
Riscalla ancora un quarto di crapetto,
E frigge parte d'una coratella,
Dell'altra in un tegame fa un guazzetto.
Et affettata certa mortatella,
Mette all'ordine il tutto, e non è moncia,
Ma presto presto l'insalata acconcia.
Fornite 'ste faccenne, fa l'invito
A Tolla, che ricusa schizzignosa,
Con dir, che ha da cenar con su' marito,
Che già in casa ammannita era ogni cosa.
Aggiunge poi, che havendolo smarrito,
È tutta inquieta, tutta penzierosa,
E perchè ancor di lui nova non hebbe,
Non potrìa manda giù manco il gilebbe.
Nuccia la prega ancor, ma lei più dura,
È d'una selcia e d'una travertina,
Più d'un aspida sorda, non si cura
Di mostrarzi cocciuta, e più s'ostina.
Vedenno perza già la lisciatura:
"State almen qui alla tavola vicina",
Dissero Tutia e Nuccia, e lei disposta
Si mostra ad ubbidire, e allor s'accosta.
Taffiano quelle, e questa a denti asciutti
Sta lì a sedè, facenno la svogliata,
Benchè avanzi la robba, e che si butti,
Per dir così, sta sempre più incocciata.
La vecchia alfin, prima che venga a i frutti
Glie dà sul pane un pezzo di frittata,
E vuò pe' forza vuò, che la riceva,
E che alla meno una sol volta beva.
Tolla 'sta cortesia non la rifiuta,
Ma sol perchè sforzata è dalla grima,
Pe' non sentilla più, s'è risoluta
Far quello mò, che far non volze prima.
Con un sol brinze tutte due saluta,
E da loro quest'atto assai si stima,
E con prescia ignottito giù 'l boccone,
Sciuccanno el vetro, fanno a lei raggione.
Mentre 'ste donne a tavola solazzano,
E con belle parole s'accarezzano,
Più facezie raccontano, e sghignazzano,
E a trattarzi da amiche, allor s'avvezzano;
Taccolanno sta MEO, che l'imbarazzano
Certi, che falze accuse ricapezzano,
E volenno attizzà per quanto pozzano
Titta contro di lui, pastocchie accozzano.
Più d'uno, ch'ucellà voluto havrìa
Tolla, al gonzo marito da ad intennere,
Che MEO se l'era già menata via,
Forzi per non volerla a lui più rennere.
Titta di rabbia allora e gelosia
Si sentì tutto in drento al core accennere,
Cerca PATACCA e Tolla ancor con lui,
Con penzier di far male i fatti sui.
Ma gnente fu difficile, il poterlo
Presto ricapezzà, s'in tel cercarlo,
Cercato era pur lui, senza saperlo,
Perchè girava MEO per incontrarlo.
Come ben spesso in te la macchia il merlo
Spiega il volo qua e là, senza fermarlo;
Così questi, mò in su, mò in giù scarpinano,
Pur alla fine a caso, s'avvicinano.
Titta, appena dà in MEO 'na sguerciatura,
Ch'inverzo lui si spicca, e grida forte:
"Dov'è mi' moglie? a noi! La tu' bravura
Mica scampà, non ti farà la morte".
La lama intanto sfoderà procura,
E MEO pe' rabbia fa le labra smorte,
Ma roscio el viso, e t'alza immantinente
La man dritta, pe' daghe un sciacquadente.
Nel tempo stesso della sferra il pomo
Con la mancina gl'aggrappò. S'astenne,
Perchè la volze fa' da galantuomo.
Di dagli allora un sganasson solenne:
"Senti! - gli dice poi - di farci l'homo,
Con me, non ti riesce, e se ti venne
Suspetto in capo, senza smargiassate,
Se parla, e non se fanno 'ste levate.
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