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Il Meo Patacca 08-1

Post n°1282 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO OTTAVO

ARGOMENTO

Ordina MEO più bella assai la festa,
Per quanno la conferma sia venuta
Della vittoria, et al venir di questa
Mostrò 'l saper della sua mente acuta:
In opera mette quel ch'hebbe in testa,
Prima fu la girandola veduta,
Poi fochi, e luminari, e custodita
Fu da lui Tolla, giovane smarrita.

Benchè la scorza notte in ciampanelle
Dato havesser le genti, e fatto chenne,
Sino che luccicorno in ciel le stelle
Intente a gustosissime faccenne,
Poco si riposorno, e cortarelle
Fecero le dormite, e quanno venne
El giorno ciaro, san ciarire el sonno;
Perchè non vonno più dormì, non vonno.

S'arrizzano, si vestono, e assai presti
Van su le porte a chiacchiarà l'artisti,
S'alzan puro i signori, e quelli, e questi
Così contenti mai non furno visti.
Del fatto si discurre, e lesti lesti
In te le piazze vanno i novellisti,
Pare a chalch'un di loro, che non basti
Un sol curriero, e quì si viè a i contrasti.

C'è perzona che dice: "È una gran nova
Questa che venne, et è nova sì grande,
Che può credersi appena, e la riprova
Prima aspettar si deve da più bande.
Non c'è raggione ancora, che mi mova
A dar fede a un avviso, che si spande
Così de notte, e spesso in ascoltarle,
Paion vere le nove, e poi son ciarle".

Gli risponne uno sgherro: "Oh ve che coccia!
Bigna, che 'sta vittoria gli dispiaccia,
Però, così ostinato s'incapoccia,
E 'l su' penzier da sè mai non discaccia.
Questa sorte de gente non si scoccia,
Se non con daglie sganassoni in faccia.
Se mò costui di qua, non se l'alliccia,
El grugno a fè da me se gli stropiccia.

Una Nova, ch'è pubrica, e che scurre
Pe' tutta la città, non sarà vera?
A non volè dar credito, che accurre,
A quello, che si sa sin da ierzera?
A di' la verità l'ha da ridurre
Forza sol di sgrugnoni, e be' m'ha cera
D'havè un cervello storto, e assai balzàno
E ciama pugni, un miglio da lontano".

Così dicenno te glie va alla vita,
E alle lanterne piglia già la mira,
Ma l'intrattiè la gente, che lì unita,
Stava a sentine, e l'altro si ritira;
S'intramezzano molti, e viè impedita
La sgrugnonata, e allor colui rispira
E perchè cerca di sfuggir le risse,
Così la scusa fa di quel che disse.

"Che mi dispiaccia la vittoria havuta,
Non lo credete nò, siete in errore,
E il non haverla subbito creduta,
Non fu malignità, ma fu timore.
Quando una cosa non s'è ben saputa,
E molto si desidera, tiè un core
Fra l'incertezze, e come ognor succede,
Ciò, che si spera assai, poco si crede".

Co' 'sto parla quel tale si difese:
E certo, ch'a proposito rispose.
La gente, ch'era lì, che tutto intese,
A placarzi lo sgherro allor dispose.
Lui si pacificò, nè più pretese
Di volè fa' smargiassarìe foiose;
Senz'altro repricà, la bocca chiuse,
E pe' bone accettò le fatte scuse.

Così fornì la cosa, ma, è ben vero,
Ch'in altri lochi pur, ci fu da dire;
Più d'uno hebbe 'l medesimo penziero,
Di volerzi di ciò meglio ciarire.
Intanto s'aspettò novo curriero,
E questi furno, con un pò d'ardire,
Suspetti no di savii cittadini,
Ma sofisticarie di dottorini.

MEO però la gran nova ha per sicura,
E par, ch'a lui la sigurtà ne facci
Il cor, ch'è tutto allegro, e già procura
D'ammannì Feste, Carri, e Focaracci.
Pe' poi venire a 'sta manifattura,
Bigna, ch'altra pecunia si procacci,
Che quella, ch'abbuscò non la vuò spenne:
Stima, che giusto sia, l'annarla a renne.

Ma prima vuò vede, se pò riuscigli
Una botta da mastro; che sarìa
Un colpo bello assai, che poi servigli,
Pe' fa' cose maiuscole potrìa.
Vuò annà da chi già fece l'ovo, e digli
Con garbata e gentil rasciammerìa
Se rivuò le monete, o pur se queste
L'ha da impiegà, pe' celebra le feste.

Pe' dar principio all'opera, va in giro,
Et a restituir, quel ch'hebbe in dono
Prontissimo si mostra, e 'sto riggiro,
È civile, onorato, e c'è del bono.
Così, co' 'sta drittura fa un bel tiro,
Perchè li gnori, che garbati sono
Non vonno già, s'animo granne ha MEO,
Ch'in cortesia li vinca un huom plebèo.

Chi glie li dona, e chi gli dà licenza,
Che se li sfrusci co' li sgherri sui,
Chi dice, ch'a ste cose più non penza,
E che ne faccia quel che pare a lui.
Non ci fu, chi mostrasse renitenza
Alla proposta fatta da costui;
Tutti cortesi, altro a cercà non stettero,
Ma gli lasciorno in man quel che gli dettero.

Dà però MEO parola, e ce s'impegna,
Che pe' le feste e machine tamante,
Ch'in te le strade e piazze far disegna,
Tutto ci spenderà, sino a un spicciante.
Pare a quelli pare cosa assai degna
'Sta nobbile penzata, e più contante
Dette chalch'uno dette, acciò più cose
Si potessero fàne, e più scialose.

PATACCA el core allegrezzà si sente,
E fa co' i generosi Maiorenghi,
Cirimonie a bizzeffe, e par che in mente
Di gran penzieri un cumulo gli venghi.
Ritrovannose in man tanto valsente,
Stima, che farzi onore gli convenghi;
Già disegnanno va col su' ciarvello,
De fa' vede più d'un crapiccio bello.

Ma perchè molte cose si figura,
E il modo poi non sa, come si fanno,
Nè mai studiante fu d'architettura,
Si vuò informà da quelli, che ne sanno.
E li trova, e gli parla, et a drittura
Li mena là dove le piazze stanno,
E le strade famose, e qui con loro,
Gran cose inventa, e gl'ordina il lavoro.

Poi se l'intenne con li bottegari,
Che stanno lì vicino, e li richiede,
Che molti, e crapicciosi luminari,
Quanno el tempo sarà, faccino vede.
Vorrìa, che si sentissero più spari
Di razzi, e cacafochi, e gli concede,
Che se chalch'uno, machine e figure
Vuò fàne a spese sue, le facci pure.

Dati già tutti l'ordini, s'aspetta
Della vittoria la conferma, e arriva
Più d'un curriero e più d'una staffetta,
E ciarisce chi al ver non consentiva;
Pericolo non c'è, che più si metta
La cosa in dubbio da chi prima ardiva
Far lo svogliato a credere, se trova
Che vera, anzi verissima è la nova.

Vie alfin la prima et aspettata sera,
Ch'alle pubriche feste già destina
La città stessa, che la notte intiera,
Durorno, pe' insinenta alla mattina.
Et ecco ogni finestra, ogni ringhiera,
Mignani e loggie, hanno gran lumi, e inzino
Delle botteghe l'alti tavolati
So' in cima, attorno attorno, illuminati.

Altri son lanternoni, e questi el fonno '
Hanno di greta cotta, et è grossetto,
Giusto come una ruzzica rotonno,
Attorniato da un orlo, alto un pochetto.
Propio in tel mezzo poi, puro c'è tonno,
Da piantà la cannela, un buscio stretto,
Di carta un foglio la tiè attorno cinta,
L'arme dei vincitor c'è su dipinta.

S'appiccia allora il moccolo, ch'è drento,
E la luce de fora trasparisce;
Non fa gran sforgio 'sto luccicamento,
Che la carta un po' grossa l'impedisce;
Perchè poi faccia più trasparimento
S'ugne quella coll'oglio, e comparisce
Il luccicor più chiaro, e ben disporli
Cerca delle finestre, ogn'un, su l'orli.

Altri poi, che riluciono più uniti,
Son certi graziosissimi lumini
Fatti di terra, e d'oglio son rempiti,
E drento a certi incavi hanno i stuppini;
In lunghe file son distribuiti,
Come fussero tanti lucernini,
E danno gusto, messi tutti a un paro,
Sbarluccicanno con un lume chiaro.

Si fanno poi d'apprausi alti schiamazzi,
In tel vede magnifiche spalliere
Di torcie accese, innanzi alli palazzi,
Due pe' finestra, e molte alle renghiere.
Stanno qui sotto poveri regazzi
E colando la cera a più potere,
Di cartone larghissimi cartocci
Tengono in mano, perchè lì poi gocci.

Là dove chalche machina si fece
Su tirata con corde e con girelle,
Stan di lumini e lanternoni invece
Sopra travi piantati assai padelle.
Piene son di bitume e grasso e pece,
E fanno ardenno fiaccole assai belle.
Le piazze, benchè larghe, impon di lume,
La fiamma sventolicchia, e fa gran fume.

Certi vasi di terra frabbicati
Stanno in alto con foglie naturali,
Dove ce son merangoli attaccati,
In prima veri, e adesso artifiziali;
Questi per mezzo furno già spaccati,
Poi voti, e ricongiunti in modi tali,
Che l'occhio non s'accorge dell'inganno,
E fuori che la coccia, altro non hanno.

Ne tiè molti ogni vaso, e un lumiccino
Ce sta in serrato, e questo assai traspare,
Perchè la coccia è assottigliata inzino
Che non si sfonna, e che può intiera stare.
Più d'un, che passa, quanno gl'è vicino
Si ferma, e non si può capacitare
Che quella, che vede sia coccia vera,
Ma li stima merangoli di cera.

D'iventà cose nove ogn'un procura,
Acciò la bizzarrìa sempre più cresca;
Coloro, al par d'ogn'altro, n'han premura,
Che vendono in bottega l'acqua fresca;
Tengon garaffe in mostra d'acqua pura,
Tinta di color roscio, e par che n'esca,
Perchè c'è dreto il lume, uno splendore,
Che apparisce di foco, et è un colore.

La vista ce patisce, e se sbarbaglia,
E pur dà gusto dà 'sto patimento;
È poi scialo maggior della marmaglia,
Delle botti vedè l'abbrusciamento;
Queste son piene di fascine e paglia,
Acciò 'l foco s'appicci in t'un momento!
Son vecchie e muffe, e i fonni più non hanno,
Posano in su tre sassi, e ritte stanno.

Si fa a posta si fa 'sta pò d'alzata,
Quanto che sotto pozza entrà una mano,
Pe' poterce da' foco, e accommodata
Una dall'altra sta poco lontano.
In dove hanno i palazzi la facciata,
Innanzi alli portoni, a mano, a mano,
Quanno pare che il giorno ormai s'annotti,
Filastrocche si fanno de 'ste botti.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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