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Il Trecentonovelle 26-30

Post n°1280 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XXVI

Bartolino farsettaio fiorentino, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo, e col maestro Dino da Olena, insegna loro trarre il sangue, ecc.

La dottrina che seguita non fu meno maestrevole che quella di messer Dolcibene, la quale usoe Bartolino farsettaio, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo e con maestro Dino da Olena, ragionando d'assai cose da diletto con loro, però che come fossono scienziati, erano non meno piacevoli che Bartolino. Fra l'altre cose che costui disse a questi due medici, fu che gli domandò se sapeano come si traea il sangue al peto. Udendo li due valentri uomeni questo, cominciano ad entrare nelle risa per sí fatta forma che quasi rispondere non poteano; pur in fine dissono che no, ma che volentieri l'apparerebbono.
Disse Bartolino:
- Che volete che vi costi?
Disse il maestro Tommaso:
- Voglio che ogni volta che tu avrai male, esser tenuto di medicarti in dono.
E 'l maestro Dino disse che gli volea essere obbligato che ogni volta si volesse far fare uno farsetto non farlo mai fare per altra mano che per la sua.
Disse Bartolino allora:
- E io sono contento; state attenti, e io ve lo mostreroe testeso.
E subito fece un peto nell'acqua del bagno, il quale immantenente gorgogliando venne a galla e fece una vescica. E Bartolino come vide la vescica:
- Ora vi converrebbe avere la saettuzza e darvi entro
Quanti ne avea nel bagno, delle risa furono presso che affogati, e li medici piú che gli altri.
Io scrittore non so qual fosse meglio, o quello che promissono questi medici a Bartolino, o quello che Bartolino insegnò loro. Come che fosse, onestamente Bartolino riprese l'arte loro, che tanto ne sanno molti quanto Bartolino ne 'nsegnò loro, o meno.


NOVELLA XXVII

Marchese Obizzo da Esti comanda al Gonnella buffone che subito vada via, e non debba stare sul suo terreno; e quello che segue.

Il Gonnella piacevole buffone, o uomo di corte che vogliamo dire, mostrò al marchese da Ferrara non meno che Bartolino. Però che avendo il detto buffone commessa alcuna cosa piccola contro al marchese Obizzo, o per avere diletto di lui, gli comandò espressamente che sul suo terreno non dovesse stare; ché se vi stesse, gli farebbe tagliare la testa. Di che il Gonnella, nuovo come egli era, se ne andò a Bologna, e là accattoe una carretta, e su vi misse terreno di quello de' Bolognesi, e detto e accordatosi col guidatore della carretta del pregio, vi salí suso e ritornò in su questa carretta dinanzi al marchese Obizzo. Il quale, veggendo venire il Gonnella in sí fatta maniera, si maravigliò e disse:
- Gonnella, io t'ho detto che tu non debba stare sul mio terreno, e tu mi vieni su una carretta dinanzi. Che vuol dire questo? ha' mi tu per cosí dappoco?
E disse a' famigli suoi che 'l pigliassono a furore.
Disse il Gonnella:
- Signor mio, ascoltatemi per Dio, e fatemi ragione, facendomi impiccare per la gola, se io ho fallato.
Il signore, volonteroso d'udirlo, che ben pensava qualche nuova ragione dirsi per lui, disse:
- Aspettate un poco, tanto che dica ciò che vuole.
Allora il Gonnella disse:
- Signore, voi mi comandaste che io non stesse sul vostro terreno; di che io me ne andai subito a Bologna, e misi su questa carretta terreno bolognese, e su quello sono stato e al presente sono, e non sul vostro, né sul ferrarese.
Il marchese, udendo costui, con gran sollazzo patí questa ragione, dicendo:
- Gonnella, tu se' una falsa gonnella e con tanti colori e sí diversi che non mi vale né ingegno né arte contro alla tua malizia: sta' ove tu vuogli, ch'io te la do per vinta.
E con questa piacevole astuzia rimase a Ferrara, e rimandò la carretta a Bologna, e 'l marchese l'ebbe per da piú che prima.
E cosí con una nuova legge che niuno dottore giammai seppe allegare, il Gonnella allegò sí che a ragione il marchese non seppe contraddire, e 'l Gonnella ne guadagnò una roba.


NOVELLA  XXVIII

Ser Tinaccio prete da Castello mette a dormire con una sua figliuola uno giovene, credendo sia femina, e 'l bel trastullo che n'avviene.

Piú nuova e piú archimiata mostra fece colui che si mostrò in questa novella essere femina, ed era uomo. Venendo alla novella, nel mio tempo fu prete d'una chiesa a Castello, contado di Firenze, uno che ebbe nome ser Tinaccio, il quale essendo già vecchio, avea tenuto ne' passati tempi, o per amica o per nimica, una bella giovane dal Borgo Ognissanti, e avea avuto di lei una fanciulla, la quale nel detto tempo era bellissima e da marito: e la fama era per tutto che la nipote del prete era una bella cosa.
Stava non troppo di lungi a questa uno giovane, del cui nome e famiglia voglio tacere, il quale, avendo piú volte veduta questa fanciulla, ed essendone innamorato, pensò una sottile malizia per essere con lei, e venneli fatto. Una sera di tempo piovoso, essendo ben tardi, costui si vestí come una forese, e soggolato che s'ebbe, si mise paglia e panni in seno, facendo vista d'essere pregna e d'avere il corpo a gola, e andossene alla chiesa per addomandare la confessione, come fanno le donne quando sono presso al partorire. Giunta che fu alla chiesa, era presso a un'ora di notte, picchiò la porta, e venendo il cherico ad aprire, domandò del prete. Il cherico disse:
- Elli portò poc'ora fa la comunione a uno, e tornerà tosto.
La donna grossa disse:
- Ohimè, trista, ch'io sono tutta trambasciata.
E forbendosi spesso il viso con uno sciugatoio, piú per non essere conosciuto che per sudore che avesse sul volto, si pose con grande affanno a sedere dicendo:
- Io l'aspetterò, ché per la gravezza del corpo non ci potrei tornare; e anco, se Dio facesse altro di me, non mi vorrei indugiare.
Disse il cherico:
- Sia con la buon'ora.
Cosí aspettando, il prete giunse a un'ora di notte. Il popolo suo era grande: avea assai populane che non le conoscea. Come la vide al barlume, la donna archimiata con grande ambascia, e asciugandosi il viso, gli disse che l'avea aspettato, e l'accidente il perché. E 'l prete la cominciò a confessare. La maschia donna, com'era, fece la confessione ben lunga, acciò che la notte sopravvenisse bene. Fatta la confessione, la donna cominciò a sospirare, dicendo:
- Trista, ove n'andrò oggimai istasera?
Ser Tinaccio disse:
- E' serebbe una sciocchezza; egli è notte buia e pioveggina e par che sia per piovere piú forte; non andate altrove: statevi stasera con la mia fanciulla, e domattina per tempo ve n'anderete.
Come la maschia donna udí questo, gli parve essere a buon punto di quello che desiderava; e avendo l'appetito a quello che 'l prete dicea, disse:
- Padre mio, io farò come voi mi consigliate, però che io sono sí affannata per la venuta che io non credo che io potesse andare cento passi sanza gran pericolo, e 'l tempo è cattivo e la notte è, sí che io farò come voi dite. Ma d'una cosa vi prego, che se 'l mio marito dicesse nulla, che voi mi scusiate.
Il prete disse:
- Lasciate fare a me
E andata alla cucina, come il prete la invioe, cenò con la sua fanciulla, spesso adoprando lo sciugatoio al viso per celare la faccia.
Cenato che ebbono, se ne andorono al letto in una camera, che altro che uno assito non v'avea in mezzo da quella di ser Tinaccio. Era quasi sul primo sonno che 'l giovane donna cominciò a toccar le mammelle alla fanciulla, e la fanciulla già avea dormito un pezzo; e 'l prete s'udía russare forte; pur accostandosi la donna grossa alla fanciulla, e la fanciulla, sentendo chi per lei si levava, comincia a chiamare ser Tinaccio, dicendo:
- Egli è maschio.
Piú di tre volte il chiamò pria che si svegliassi; alla quarta:
- O ser Tinaccio, egli è maschio.
E ser Tinaccio tutto dormiglioso dice:
- Che di' tu?
- Dico ch'egli è maschio.
Ser Tinaccio, avvisandosi che la buona donna avesse fatto il fanciullo, dicea:
- Aiutalo, aiutalo, figliuola mia.
Piú volte seguí la fanciulla:
- Ser Tinaccio, o ser Tinaccio, io vi dico ch'egli è maschio.
E quelli rispondea:
- Aiutalo, figliuola mia, aiutalo, che sie benedetta.
Stracco ser Tinaccio, come vinto dal sonno si raddormentoe, e la fanciulla ancora stracca e dalla donna grossa e dal sonno, e ancora parendoli che 'l prete la confortasse ad aiutare quello di cui ella dicea, il meglio che poteo si passò quella notte. E presso all'alba, avendo il giovene adempiuto quanto volle il suo desiderio, manifestandosi a lei, che già sanza mandorle s'era domesticata, e chi egli era, e come acceso del suo amore s'era fatto femina, solo per essere con lei come con quella che piú che altra cosa amava, e per arra, levatosi, in sul partire gli donò denari che aveva allato, profferendoli ciò che avea essere suo; ed ancora ordinò per li tempi avvenire come spesso si trovassono insieme; e fatto questo con molti baci e abbracciamenti pigliò commiato, dicendo:
- Quando ser Tinaccio ti domanderà "che è della donna grossa", dirai: "Ella fece istanotte un fanciul maschio, quando io vi chiamava, e istamane per tempo col detto fanciullo s'andò con Dio".
Partitosi la donna grossa, e lasciata la paglia, che portò in seno, nel saccone di ser Tinaccio; il detto ser Tinaccio, levandosi, andò verso la camera della fanciulla, e disse:
- Che mala ventura è stata questa istanotte, che tu non mi hai lasciato dormire? Tutta notte ser Tinaccio, ser Tinaccio : ben, che è stato?
Disse la fanciulla:
- Quella donna fece un bel fanciul maschio.
- O dove è?
Disse la fanciulla:
- Istamane per tempissimo, credo piú per vergogna che per altro, se n'andò col fanciullo.
Disse ser Tinaccio:
- Deh dagli la mala pasqua, ché tanto s'indugiano che poi vanno pisciando li figliuoli qua e là. Se io la potrò riconoscere, o sapere chi sia il marito, ché dee essere un tristo, io gli dirò una gran villania.
Disse la fanciulla:
- Voi farete molto bene, ché anco me non ha ella lasciato dormire in tutta notte.
E cosí finí questa cosa, ché da quell'ora innanzi non bisognò troppo archimia a congiugnere li pianeti, che spesso poi per li tempi si trovorono insieme; e 'l prete ebbe di quelle derrate che danno altrui. Cosí, poiché non si può far vendetta sopra le loro mogli, intervenisse a tutti gli altri, o sopra le nipote, o sopra le figliuole, come fu questa, simile inganno, che per certo e' fu bene uno de' maggiori e de' piú rilevati che mai si udisse.
E credo che 'l giovene facesse piccolo peccato a fallire contro a coloro che, sotto la coverta della religione, commettono tanti falli tutto dí contro alle cose altrui.


NOVELLA XXIX

Uno cavaliero di Francia, essendo piccolo e grasso, andando per ambasciadore innanzi a papa Bonifazio, nell'inginocchiare gli vien fatto un peto, e con un bel motto ramenda il difetto.

Io uscirò ora alquanto di quelle materie e inganni ragionati di sopra, e verrò a uno piacevole motto che uno cavaliere francesco gittò dinanzi a papa Bonifazio ottavo.
Uno cavaliere valente di Francia fu mandato per ambasciador con alcun altro dinanzi a papa Bonifazio, che avea nome messer Ghiriberto, il quale era bassetto di sua persona, e pieno e grasso quanto potea. E giunto il dí che costui dovea sporre questa ambasciata, come uomo non usato a simil faccenda, domandò alcuno che reverenzia si costumava fare quando un suo pari andava dinanzi al Papa. Fugli detto che convenía che s'inginocchiasse tre volte per la tal forma. Essendo il cavaliere di tutto informato, andò il dí medesimo dinanzi al Papa per disporre l'ambasciata; e volendo fare destramente piú che non potea la sua persona, s'inginocchiò la prima volta; come che gli fosse fatica, pur n'uscío; venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della prima aggiugnendosi con la seconda, e 'l volere fare presto e non potere, lo costrinse a far sí che la parte di sotto si fe' sentire. El cavaliere, veggendo esser vituperato, subito soccorse, dandosi delle mani nell'anche, dicendo:
- Lascia parlare moi, che mala mescianza vi don Doi.
Papa Bonifazio, che ogni cosa avea sentito, e ancora il piacevole motto dello ambasciadore, disse:
- Dite ciò che voi volete, che io v'intenderò bene.
E giugnendo appiè del Santo Padre, con grande sollazzo il ricevette; ed elli seguío la sua ambasciata, e per averla sposta con due bocche ebbe meglio dal Papa ciò che domandò.
Molto fu da gradire il tostano rimedio di questo cavaliero, il quale, sentendosi contra il suo volere caduto in tal vergogna, subito ricorse a quello, ché altro rimedio non vi era, né piú piacevole. Altri scientifichi uomeni già sono stati, che dicendo una ambasciata dinanzi al Papa, sanza che caso sia occorso loro di vergogna, sono cascati, non sappiendo perché, in sí fatta maniera che sono penati una gran pezza a ritornare in loro.


NOVELLA XXX

Tre ambasciadori cavalieri sanesi e uno scudiere vanno al Papa. Fanno dicitore lo scudiere, e la cagione perché, e quello che con piacere ne seguío.

Non fu meno coraggioso questo ambasciadore sanese a dire arditamente la sua ambasciata dinanzi al Papa, che fosse il cavaliero di Francia.
Fu in Siena al tempo di Gregorio papa decimo ordinato di mandarli una solenne ambasciata, ed elessono tre cavalieri e uno che non era cavaliere, il quale era il migliore dicitore di Siena, quando tre o quattro volte avesse bevuto d'un buon vino prima che disponesse l'ambasciata: e non beendo per lo modo detto, non averebbe saputo dire una gobbola. E questa condizione, o natura, a me scrittore mi pare che fosse delle strane e delle diverse che mai s'udissono.
Mossonsi questi quattro ambasciadori sanesi, e andarono a Corte: ed essendo la mattina che doveano sporre l'ambasciata, tiratisi da parte all'albergo, cominciò a dire alcuno de' cavalieri:
- Chi dirà?
Disse uno di loro:
- Cioè? E chi nol sa chi dee dire? dica il tale.
Costui si cominciò a difendere, che non era cavaliere; e che, dicendo egli, era fare vergogna agli altri compagni ambasciadori, che erano cavalieri; e quella per niun modo volea fare.
Brievemente, e' si poteo ben dire di Berta e di Bernardo, che costui pinto da' tre convenne che fosse il dicitore. E col modo usato fu mandato per lo migliore vino della terra e per li confetti. Beúto che n'ebbe il dicitore tre volte, andorono a disporre l'ambasciata, la quale fu per lo scudiere tanto ben disposta, quanto altra che disponesse mai. Fatto questo, ed essendo per quella mattina dal papa licenziati, tornorono all'albergo. Ed essendo alquanto ristretti insieme, disse il dicitore a' cavalieri:
- Io non so se io dissi bene, e a vostro modo.
Dissono li cavalieri:
- Per certo tu dicesti meglio che tu dicessi mai.
Rispose il dicitore e presto:
- Per lo santo sangue di Dio, che se io avesse beúto un altro tratto io gli averei dato nel viso.
Quanto li cavalieri del detto di questo loro compagno risono, non si potrebbe dire. E 'l dicitore mostrò che, chi non ha cuore, lasciando ogni temerità, giammai non può ben dire.
E cosí è veramente, che 'l dicitore, quando parla, conviene che sia sicuro e coraggioso, però che 'l dire sempre manca per lo timore; e chi è ben pronto e ardito dinanzi al sommo pontefice, rade volte o non mai avviene che dinanzi ad ogni signore non dica arditamente.

 
 
 
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