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Il Meo Patacca 07-3

Post n°1278 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Scarpinano le genti a flotte a flotte,
L'aria con voci strepitose assordano;
D'una sì allegra e fortunata notte
A fè, che manco i ciospi si ricordano.
Con prausi strillizzari ancor le botte
De i cacafochi a fa' rumor s'accordano,
È senz'ordine, (è vero), 'sto gran chiasso
Ma piace lo sconcerto, et è uno spasso.

Mentre fava spettacolo assai bello
La razza de 'sti novi luccicori,
De fa' 'na bizzarrìa, penzò 'l ciarvello
Di due romaneschetti bell'umori.
Tappo un se ciama, e l'altro Ciumachello;
Due scope lunghe assai, da imbiancatori
Alzano accese, e son gusti tamanti,
Il vedè spasseggia fochi giganti.

In tel farzi 'sta lucida allegrìa
Succede un caso, che si stima un gioco;
Pare in principio, che gran gusto dia,
Ma fa nasce garbugli, a poco a poco.
Resciva in fora certa gelosia
Da una finestra, e Tappo glie dà foco;
Mentre ch'una gran scopa in man si trova,
Facile gli riesce una tal prova.

Perch'è quella d'un legno inaridito,
E pe' l'antichità tutto tarmato.
Presto s'affiala, e resta intimorito
Pe' paura di peggio el vicinato.
Et ecco Ciumachello sbigottito
Curre, pe' da rimedio, e 'l foco alzato
Coll'alta scopa sua smorzà voleva,
Ma con la gelosia la scopa ardeva.

Strillano tutti allor; ma più schiamazza
'Na certa gnora lei, che lì abbitava,
Et era una bellissima ragazza,
E Ciumachello un pò d'amor ce fava:
Si sentiva gridà, com'una pazza,
E l'amico più allor s'affaccendava,
Che trovà presto el modo, havria voluto
Di dar a quell'incendio un chalche ajuto.

Ma 'l foco stesso lo levò d'impacci,
E le cose alla fin messe in sicuro,
Perche arrivò a brusciàne un di quei lacci,
Che tiè la gelosia legata al muro.
Fa 'l peso d'una parte, che si slacci
Dall'altra ancora e caschi giù 'l tamburo;
I vicini paura più non hanno,
Mentre ch'il foco non po' fa' più danno.

Tappo lo sdegno suo sfoga pretese,
Per esser di ciarvello assai fumante,
Con quella signorina, che scortese,
Noi volze accettà mai per su' cascante.
Perchè 'l disprezzo a petto se lo prese,
Ne fece 'sta vendetta stravagante;
Non sapeva, nè haveva mai sentito,
Che fusse Ciumachello el favorito.

Mentre fornisce il foco de smorzarzi,
E che lassa colei di sbigottirzi,
Ciumachello s'infoia, e vuò trovarzi
Con Tappo, e dell'affronto risentirzi;
Ma non gli basta già, pe' vendicarzi,
E d'ingiurie, e di chiacchiare servirzi,
Ma curre, e giusto fa come i can corzi,
Ch'a sbranà vanno li cignali o l'orzi.

Pare propio che voglia in carne e in ossa,
Divorarzi colui; per mezzo passa,
A chi da un gomitone, a chi 'na scossa,
E te la fa da Capitan Fragassa;
Trova Tappo, e pe' dagli una percossa,
La scopa, ch'alta già teneva, abbassa,
Gl'azzolla una scopata in su la gnucca,
E te gl'attacca foco alla perucca.

Il vedè la gran fiala in aria alzata
De i capelli brusciati in t'un momento;
Il sentì della gente una fischiata,
Di Tappo l'osservà lo stordimento,
L'esser restato lui coccia pelata,
Il mantenerzi in piedi a maio stento,
Se la botta fu data a mano piena,
Propio 'sta cosa fu, propio 'na scena.

Dalla vergogna mosso, e dalla stizza,
Tappo allora con impeto foiardo '
Verzo 'l nemico, con un zompo schizza,
Che par, quanno s'arrabbia, un gatto pardo.
Per accoppallo bene, in alto arrizza
La su' scopa, e gl'avvia, assai gagliardo
Un colpo da sfonnaglie il capitello,
Ma lesto, se lo para Ciumachello.

Ecco una zuffa all'improviso fatta,
Che somigliante non s'è mai veduta,
Par che in giostra con lancie si combatta,
E a scopicchià 'l nemico ogn'un s'aiuta.
Saffiala a Ciumachello la corvatta
Per una botta inverzo 'l grugno havuta;
Lui con la man presto la fiamma stregne,
E quella si soffoga, e alfin si spegne.

Colpi da disperati ecco si tirano,
E a fè, ch'a maio stento se li parano,
Di qua e di là, per azzeccasse girano,
E a fa' scanzi di vita allor imparano;
Le genti inframezzate si ritirano,
Perchè, se quelli le scopate zarano,
E in dove hanno la mira non azzeccano,
Calche battuta allor queste ce leccano.

Fra tanto, chi una coccia e chi una scorza
Tira, per impedì colpi sì fieri;
Ma non giova, ch'i sgherri fanno forza,
E par che l'uno accoppà l'altro speri.
S'urtan le scope, e 'l foco allor si smorza,
Restano i zeppi abbrustoliti e neri,
E mentre che su i grugnì se li danno,
Come du' carbonari acconci' stanno.

Vede MEO da lontano il tiritosto;
Il cavallo spirona pe' ciarisse
Che sia 'sto chiasso, e se ne va disposto
A gastigà chi ardisce fa' 'ste risse.
Arriva al fine a i due sgherrosi accosto,
E: "Che si fa? fermate o là!", gli disse,
Et, oh gran fatto! a questa sola voce
Si fermò, si fornì guerra sì atroce.

Come fan due regazzi, che resciti
Da scola appena, in chalche vicoletto,
Credenno di non esser discopriti,
Si rifibbiano pugni lì allo stretto,
Mentre so' in azzuffarsi inviperiti,
Eccote el mastro, che ne ha già suspetto,
E spaventati, alla comparza sola,
Perdon quelli la forza e la parola.

Così di MEO restorno alla presenza
Li due scopa-mostacci, et ubbidirno
All'ordine di lui, che de potenza,
Fermà li fece, e loro si spartirno;
Te gli brava, e gli da, pe' penitenza,
Che ritornino a casa, e non ardirno
Di contradì; ma prima pe' commanno
Di lui, che così vuò, la pace fanno.

Fornito 'sto scompiglio poco doppo,
Ecco di novo il popolo commosso:
Un certo cavallaccio, ch'era zoppo
Una soma di fieno haveva addosso.
Si vedeva sferrà con tal galoppo,
Ch'insinenta haverìa saltato un fosso;
El patron, che dereto gli curreva,
Non poteva arrivallo non poteva.

In tel passa, che fece 'st'animale,
Che tardi, e stracco, era rentrato in Roma,
Venne in testa un crapiccio a un certo tale,
Che se ciamava Checco Bella Chioma;
Fece una burla, ma però bestiale,
Con la scopa appicciata a quella soma
Presto presto in più lochi el foco dette,
Poi co' i compagni a sghignazzà si mette.

A piede il fienarolo innanzi annava,
E la capezza in mano si teneva,
Il capo sonnacchioso scotolava,
E gnente de 'sto foco s'accorgeva;
Mentre sopra penziero se ne stava,
Ecco fa all'improviso un leva leva
La bestia, che scottà già si sentiva,
E curre tanto, che nisciun l'arriva.

Dato un urto al patrone, e in terra steso,
Fava slanci e strabalzi inciompicanno,
Pe' butta giù quell'infocato peso,
Ogni tanto la groppa rimenanno.
S'allampa da lontano un monte acceso,
Che va pe' la calcosa camminanno;
Il non vederzi ben, che cosa è quella,
Questo la fa parè cosa più bella.

Torcenno el muso, e digrignanno i denti,
Spara quella carogna i calci a coppia;
Mentre le mani sbattono le genti,
E glie danno lo strillo, li raddoppia.
Stolza, e di vita certi slungamenti
Allor che va facenno, più si stroppia,
Et è (nel far così sciancata i zompi),
Meraviglia ch'el collo non si rompi.

Fu di lì a poco el taccolo fornito,
Se doppo esser andato assai sbalzone,
El povero animal mezzo arrostito,
Dette in terra un solenne stramazzone.
Restò de fatto tutto interezzito,
Nero poi diventò com'un carbone,
E quanno cascò giù, com'un fagotto,
Non era morto ancora, et era cotto.

Dreto, il patron correva, e da lontano
Stirà le cianche al su' cavallo vede,
Te fa 'na schiamazzata da villano,
Strepita quanto po', giustizia chiede.
Interroga la gente, hor forte, hor piano,
Perchè scropì la verità si crede,
Se chi quell'insolente stato sia,
Ma nisciun c'è, che voglia fa' la spia.

S'era già MEO del focaraccio accorto,
E del cavallicidio, e adesso sente
Le lamentizie del villan, che morto
Vede 'l su' portafieno, e n'è dolente.
Cognosce allora l'inzolenza, e 'l torto
Fattogli da colui, che impertinente
Pe' da' pastura al popolo, burlanno,
Fece a quel poverhomo, un vero danno.

Si fa insegnà chi fu, dove rascoso
L'appiccia-foco stia; presto gl'è detto.
PATACCA allor con ceffo dispettoso
Lo fa venì de razzo al su' cospetto;
Gli comparisce innanzi timoroso,
Vorria scusarzi, e MEO gli parla schietto.
Dice: "Il gastigo tuo, sia questo solo,
Di rifà tutti i danni al fienarolo".

Colui va scastagnanno, et assai duro,
Gli par, che sia da rosicà quest'osso;
"Hai da pagane, e pagarai sicuro",
Disse PATACCA, "sino a un mezzo grosso",
Checco risponne: "In verità ve giuro,
Che non me trovo pozzolana addosso".
Ripiglia MEO: "Che vuoi mo' dir pe' questo?
Se qui non hai monete, io te le presto".

Poi ciama el fienarolo, e gli dimanda
Quanto sia del cavallo el giusto prezzo.
"Faccia, - dice costui, - quel che comanda,
Per dieci scudi, io lo comprai, ch'è un pezzo.
'Sto poveraccio a voi se raccomanda,
Forse a tenerne voi sarete avvezzo;
E se ben era seccaticcio e zoppo,
Il prezzo, che v'ho detto non è troppo.

C'è ancora el fieno e 'l basto; ma di tutto
Al vostro bon giudizio mi rimetto".
MEO disse allora al malfattor frabutto:
"Caro t'ha da costà 'sto tu' giochetto".
Sentenno un tal parla, restò pur brutto
Colui, nè crese mai, che tanto a petto
Se la pigliasse Meo, che poi volesse,
Ch'a quel villano el suo dover si desse.

Spiattellò fora intanto otto pavane
PATACCA, e al fienarol presto le dette:
"Penza a ristituirmele domane",
Disse a quell'altro, e lui glie lo promette.
Il villano contento ne rimane,
Benchè tutto non sia, quel che chiedette.
Giudica MEO che basti 'sta moneta,
Et il bisbiglio allor così s'acqueta.

Poi PATACCA passà da Nuccia volze,
Sol pe' vede, come contenta stia,
E la trovò, che puro lei si sciolze,
A scialà coll'amiche in compagnia.
Il passato dolor tutto rivolze
In giubbilo e discorzi d'allegria
Fava in finestra, e immaginossi allora,
Che non sarìa più MEO marciato fora.

Fischiò lui da lontano, e lei l'intese,
E prima ch'alla casa s'avvicini,
Presto il pallon da fa' merletti prese,
E gli levò le spille, e li piombini;
Gli dette foco, e fora poi lo mese
Dalla finestra, e risero i vicini,
E quanno giusto MEO sotto glie passa
In strada accanto a lui cascà lo lassa.

Quest'è un pallon, ch'è tonno, e gnente meno
D'un cocommero è grosso; nel di fora
Tela bianca lo crope, e drento 'l fieno
Lo rempe, e folto, e ben calcato ancora;
Sedenno, se lo tiè la donna in seno
Fermato bene, quanno ce lavora;
Appuntano i merletti, a cento e a mille,
Sopra 'na cartapecora, le spille.

Piace tanto a PATACCA 'sto bel fatto,
Che presto a Nuccia 'l contracammio rese
De 'sta su' ritrovata, e fece un atto,
In cui mostrossi un giovane cortese.
La dorindana sfoderò defatto,
E col braccio la punta in giù distese
E infilzato il pallone, in aria l'alza,
Dice: "All'onor di Nuccia!", e via lo sbalza.

Resta lei consolata, e se ne tiene,
Quanto mai dir si pò de 'sta finezza,
S'accorge, che da vero glie vuò bene,
Mentre glie fa tant'onorevolezza;
Seguita MEO la curza, e a passà viene
Dove sta Tutia, che per allegrezza
Su la conocchia, mentre lui galoppa,
Abbruscia una currivola de stoppa.

In altri lochi poi, gran focaracci
Fecero l'abbrusciati pagliaricci,
Sino in cima alle pertiche li stracci
Furno veduti affumicati e arsicci.
Ci ha gusto MEO che tibaldèa se facci,
E che dove si po', foco s'appicci;
Molti in mano tenevano per fine,
Accese come torce, le fascine.

Tutta la notte la baldoria crebbe,
Con sempre più ridicole allegrìe,
Ma questa, essendo festa della plebbe,
Non fornì con le sole chiassarìe.
Stata una cosa insolita sarebbe,
Se tra le tante e tante pazzarìe,
Che la gente bevòna a far s'indusse,
Il gomito un po' alzato non si fusse.

Chi all'osteria, chi nelle propie stanze,
Sciuriava alla salute di chi vinze;
Fra tedeschi artiggiani, trinche lanze
Si sentiva, e tra i nostri, più d'un brinze.
Si cantorno gustose consonanze,
Più d'uno i fiaschi voti in aria spinze,
E de i bicchieri i bevitori a gara,
Ne buttorno fra tutti a centinara.

Mette a sbaraglio fino un scarpinello,
Pe' la gran contentezza, che riceve,
Pieno di vino roscio un caratello
Su la porta, e chi passa, invita a beve.
Poco, fin hor diss' io; resta 'l più bello,
Ma la sguattara Musa annar già deve,
A sapè l'allegrìe dell'altri giorni,
Perchè poi quelle a racconta ritorni.

Fine del Settimo Canto.

 
 
 
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