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Il Meo Patacca 07-2

Post n°1276 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Va intanto avvicinandosi alla porta,
E Nuccia l'accompagna inzino a quella;
Perchè nella speranza si conforta,
Così torna a parla spiritosella:
"Signor MEO!posso dir, che so' risorta
Da morte a vita". E qui la vecchiarella
Viè in mezzo, e dice: "È cosa più che vera;
Giusto una Mummia s'era fatta, s'era".

Nuccia con le su' dolci paroline
Voleva seguità; con un saluto,
Alle chiacchiare MEO volze dà fine,
Di batter la calcosa risoluto.
Tutia voleva fagli altre monine,
Ma lui non s'è più gnente intrattenuto.
Con dire: "A rivedecce 'gnora mia! "
Fa un basciamano a Nuccia, e marcia via.

Più non si volta, e seguita 'l su' viaggio;
Va quella accompagnannolo coll'occhi,
Sale poi su contenta, e 'l maritaggio
Spera, che quanno torna, alfin glie tocchi;
Fa restà Tutia a pranzo, et il formaggio
Glie fa gratta, perchè vuò fa' li gnocchi
Con butirro, con zucchero e cannella,
Poi frigger quattro pizze alla padella.


Tutto si fece, et ecco con baldoria
A tavola si mettono, sguazzanno
Con altre robbe, pe' la gran vittoria,
Ch'hebbero, in fa' pacifico un Orlanno.
PATACCA intanto va con la memoria
Solo solo, tra sè fantasticanno,
Se chi son quei signori, che promesso
Gl'hanno lo sbruffo, e ce vuò annare adesso.

Ma perchè sa, che pe' busca regali
Trattanno con perzone di rispetto
Non bigna dar a personaggi tali,
D'esser una gran piattola, sospetto,
Ma si deve aspettà, che liberali
Faccino loro stessi, quel c'han detto;
Penza de traccheggià, perchè nisciuno,
Trascurato lo stimi, nè importuno.

Va in questa casa e in quella, e assai diverzi
So' i ripieghi, che piglia; in t'un cantone
Hora sta d'un palazzo a intrattenerzi,
Sino ch'a caso affacciasi 'l patrone.
Subbito allor s'accosta, e fa vederzi,
Mentre, in fargli col piede scivolone
Una riverenziata, alza lo sguardo,
Quello lo ciama, e te glie da 'l belardo.

Poi va in un altro loco, e arriva in sala,
Chalche amico pistolfo ci ritrova,
Facendogli accoglienze con la pala "
Discorrenno gli và di chalche nova.
Esce intanto il signore; un caposcala
MEO de posta, currenno, se và a trova;
Finge venir allora, e 'l personaggio,
Che gli dia pozzolana ordina a un paggio.

Con queste, e somiglianti ritrovate,
In altre case ancor fece pulito;
Monete in quantità gli furno date,
Di che restò lui stesso assai stordito;
O che gli furno subbito contate,
O fatti ordini a i banchi, onde fornito
C'hebbe d'anna' da 'sti signori e quelli,
Grossa somma abbuscò di saltarelli.

Durò tre giorni 'sto riscotimento,
Nè mai si crese MEO, d'abbuscà tanto.
L'havè 'sto capitale senza stento
Gli parè un sogno, gli pare un incanto;
Vede che c'era già 'l provedimento,
Ancorchè lo squatron fusse altr'e tanto;
Annò da i dieci sgherri, et assai pronto
Di quel, che riscotè gli fece 'l conto.

Non si po' dir il gran contento, c'hebbe
Ogn'un de i capitani, e riconobbe
In MEO la fedeltà; saper vorrebbe
Quanno se marcia, pe' ammanni' le robbe.
Rispose lui, che presto gli direbbe
Qual sarà propio el giorno, e ben conobbe
Che c'era in tutti c'era un cor ardito,
Se d'annar a combatte hanno prorito.

Torna a casa Patacca, e perchè ha testa,
Penza del su' squatrone alla provista;
Di quello che ci va, di quel che resta,
Fa lo scannaglio, e tutto mette in lista.
Vede quant'è la spesa, e in notar questa
Manco la cede manco a un computista,
E mentre 'sta faccenna assai gli gusta,
Tutti, per appuntino, i conti aggiusta.

Fatto il calcolo dunque d'ogni cosa,
Pe' dar la prima mossa alla brigata,
Ch'era assai di partì volonterosa,
MEO voleva intimà la gran giornata;
Sta però con la mente penzierosa,
C'ha paura de fa' calche zannata,
Dubbita, che tra i sgherri ancor ci sia,
Chi pe' partire, all'ordine non stia.

Quanno vie 'l novo dì, s'è risoluto,
D'annar in giro, e di sapella netta
S'ogn'uno s'è pel viaggio proveduto,
Se non l'ha fatto, glie la dica schietta.
A chi ha bisogno darà chalche aiuto
Sottomano, acciò all'ordine si metta;
Intanto si fa sera, e va a colcarzi,
Perchè per tempo assai vorria levarzi.

Passò la notte, e comparì l'Aurora,
Che vista non fu mai così scialosa;
Porta 'l manto di luce, e il capo infiora,
Ma con tal brio, che par giusto una sposa;
Del Sol, che gl'è vicino s'innamora,
E a 'na comparza, assai più luminosa
Del solito, l'invita, e lui bizzarro
Va più di prima a sverzellà sul Carro.

Se ne rideva el Ciel, che più sereno
Era pur lui, di quel ch'esser solesse;
Arido, benchè allor fusse il terreno,
Parea ch'in compagnia rider volesse,
Di giubbilo ogni cor era ripieno,
Nè alcun sapeva, perchè allegro stesse;
Questo, di che la causa non s'intenne,
Augurio fu, di quel che poi n'avvenne.

PATACCA più d'ogn'altro si sentiva
Una certa allegrezza inusitata;
Ma solo a questo lui l'attribuiva,
Che s'era la partenza avvicinata;
Pe' sapè s'ogni sgherro s'ammanniva,
Come poi seppe, intiera la giornata
Ci consumò, senza fermarze mai;
Fatigò è ver, ma però fece assai.

L'aria alfine, accostandosi la sera,
S'imbruna un poco sol, ma non s'oscura,
(Com'el solito suo) tetra non era,
Ma bensì chiara assai, for di natura;
Stanno le stelle in ciel di buona cera
Con non più usata tremolizzatura;
Succederno, così maravigliose,
A i vinti di Settembere, 'ste cose.

Ecco, su le prim'hore della notte,
Molte chiassate all'improviso fatte,
Certe voci si sentono interrotte,
E restano le genti stupefatte.
Mò qua, mò là si sparano più botte,
Da casa allor PATACCA se la sbatte;
Della strada in tel mezzo se n'annette,
E qui, a sentì che nova c'è, si mette.

S'intrattiè, fin che passa chalched'uno,
Sol per interrogallo, e sapè 'l vero;
Assicurato vien, ma da più d'uno
Dell'arrivo improviso d'un curriero,
Che c'era una gran nova, che nisciuno
Se l'aspettava, manco pe' penziero,
Che, non solo fu VIENNA liberata,
Ma dato el pisto alla Turchesca armata.

Che haveva el Gran Vissir la fuga presa,
Che fu la gente sua messa a sbaraglio,
Che ne restò gran parte al sole stesa,
Gridanno ogn'un de' nostri: "A taglio, a taglio!".
Ch'altri via scampolorno a zampa stesa,
E di più, che con tutto il gran bagaglio
Lassò quel commannante Moccolone,
Lo stendardo real, e 'l Padiglione.

Hebbe quasi PATACCA a disperarzi,
Perchè senza di lui seguì l'attacco;
Voluto havria nel fatto ritrovarzi,
Per dare a i Turchi el sanguinoso acciacco;
Da generosa invidia, puncicarzi
Sente il core, e di più stima suo smacco,
Non havè fatto prima, al modo stesso,
Quello, ch'a far, s'era ammannito adesso.

Accortosi alla fin, ch'el su' disegno
Di dar soccorzo a Vienna, è ito a monte
E che la sorte non lo fece degno
D'annar in campo del nemico a fronte,
Muta penziero muta, e a novo impegno
Drizza le voglie, ad opera già pronte,
E nella grolia simile lo stima,
O poco differente, a quel di prima.

Già che non pò, con la su' gente sgherra
Essercità di commannante il posto,
Se passò 'l tempo de marcià alla guerra,
Fattosi già co' i Turchi el tiritosto,
Senza addropà la sanguinosa sferra,
E senza annà da 'sta Città discosto,
Spera ch'in altre cose gli rieschi,
Farzi capo de i sgherri romaneschi.

Gli zompa in testa un altro bel penziero,
Pe' sfogà contro i Turchi el su' prorito,
E quel che fa' non gli potè da vero,
De faglielo pe' burla ha stabbilito.
Non sol de i sgherri sui, ma dell'intiero
Popolo, da cui spera esse ubbidito
Vuò farzi capo, acciò ch'a su' richieste
Quello s'impieghi in tel fa' giochi e feste.

Di cartapista, di cartone, e stracci
Vuò che fatti si vedino bambocci,
C'habbian de i Turchi l'abbiti e i mostacci,
E che in straziarli più d'un dì s'incocci,
Vuò, ch'un solenne sbeffo se ne facci,
E che sieno impiccati a son de rocci,
E sotto con candele o accesi micci,
Per abbruscialli, el foco se gli appicci.

Penzò ben presto ancor ad altre cose,
E ogni penziero in pratica poi mese;
Apparì fece assai ridicolose
Tutte de i Turchi le sciaurate imprese,
D'ordinà, quel ch'in pubrico s'espose
A su' tempo, l'assunto lui se prese;
Ma in prescia mò, sin che la notte dura,
Quel poco che se po', di fa' procura.

Curre dal Vetturino su' parente,
Ch'era da casa sua poco distante;
È nello scarpinà così valente,
Che si porta laùt in t'un istante.
Si fa prestar allor subitamente
Un cavallo, ch'annava de portante:
Mentre MEO la vittoria gli racconta,
Quello l'insella, e questo su ce monta.

Se ne va a briglia sciolta, e de carriera,
De i capo-sgherri a casa; e dalla strada
Fischia, quann'è vicino, e si dispera,
Se chalch'uno al su' fischio non abbada:
Li ciama allor a nome, e in tal maniera
Bigna ch'ogn'uno ad affaccià se vada
Alla finestra, e lui che giù se trova,
Gli dà, ma in prescia in prescia, la gran nova.

Gli dice poi, ch'in quel momento stesso
Vadan facenno un po' de festicciola;
E te gli dà in succinto ordine espresso
Di quello, ch'han da fa' 'sta volta sola;
Che poi, ne i giorni che verranno appresso,
Saperà meglio assai daglie la scola
Delle feste majuscole, che spera,
E d'ordinà e de fa', più d'una sera.

Doppo a ciasch'uno in tel partir impone,
Che faccino sapè nel vicinato,
Che c'è bisogno ancor d'altre perzone,
Pe' fa' quanto da lui s'è disegnato;
Seguita 'l viaggio, e sempre più dispone
Quello, ch'in tel penzier s'è figurato,
Et in più lochi, e con gran gusto ancora,
Quel ch'ordinò, si fece allora allora.

Calò non solo in strada la plebbaglia,
Ma gente ancor venì di mezza tacca
E tutti fanno, (nè pur uno sbaglia),
Quel che penzò, quel ch'insegnò PATACCA.
Una scopa di zeppi, o almen di paglia,
S'abbusca ogn'uno, e 'l foco poi gl'attacca,
Pel manico la piglia, e la tien alta,
E con gridar: "Eh viva! e curre, e salta!

Di fiaccole a posticcia ecco si scerne
Una non mai più vista filastrocca;
Non sa se siano lampade, o lucerne
Chi nelle strade da lontano sbocca.
Di lanternoni, più che di lanterne,
Hanno cera, e la gente allora fiocca,
S'accosta, e alfin la verità si scrope,
Che parono fanali, e poi so' scope.

Una lograta, un'altra se n'appiccia,
E questa in alto subbito s'imposta
E chi non l'ha, meglio che pò l'impiccia;
Alla peggio, la crompa, e assai gli costa,
Chi ne tiè quantità, presto le spiccia,
Nel prezzo in quel bisbiglio, alza la posta;
Vale una scopa appena sei quatrini,
E mò si vende un giulio, e du' carlini.

Più ch'in ogn'altro loco, assai gustosa
Rescì 'sta festa in una strada ritta,
Longa un miglio, et in Roma assai famosa;
Pe' nominata antica el Corzo è ditta.
Nel Carnevale è piena 'sta calcosa
Di gente così nobil, come guitta,
A diluvio le maschere ce vanno,
E la Curza, li Barbari ce fanno.

Un miscuglio di fochi saltarizzi
In aria si vedeva, e come pazzi
Zompavano con varj schiribizzi,
In te le strade, l'homini e i regazzi.
Chi scope non haveva, accese i tizzi,
E tutti insieme favano schiamazzi.
Con le forcine in mano, a montarozzi,
Brusciorno paglia e fien, cucchieri e mozzi.

 
 
 
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