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Il Trecentonovelle 21-25

Post n°1274 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XXI

Basso della Penna nell'estremo della morte lascia con nuova forma ogni anno alle mosche un paniere di pere mézze, e la ragione, che ne rende, perché lo fa.

Ora verrò a quella novella delle pere mézze, ed è l'ultima piacevolezza del Basso, però che fu mentre che moría. Costui venendo a morte, ed essendo di state, e la mortalità sí grande che la moglie non s'accostava al marito, e 'l figliuolo fuggía dal padre, e 'l fratello dal fratello, però che quella pestilenza, come sa chi l'ha veduto, s'appiccava forte, volle fare testamento; e veggendosi da tutti i suoi abbandonato, fece scrivere al notaio che lasciava ch'e' suoi figliuoli ed eredi dovessino ogni anno il dí di San Jacopo di luglio dare un paniere di tenuta d'uno staio di pere mézze alle mosche, in certo luogo per lui deputato. E dicendo il notaio: "Basso, tu motteggi sempremai"; disse Basso:
- Scrivete come io dico; però che in questa mia malattia io non ho aúto né amico né parente che non mi abbia abbandonato, altro che le mosche. E però essendo a loro tanto tenuto, non crederrei che Dio avesse misericordia di me, se io non ne rendesse loro merito. E perché voi siate certo che io non motteggio, e dico da dovero, scrivete che se questo non si facesse ogni anno, io lascio diredati li miei figliuoli, e che il mio pervenga alla tale religione.
Finalmente al notaio convenne cosí scrivere per questa volta; e cosí fu discreto il Basso a questo piccolo animaluzzo.
Non istante molto, e venendosi nelli stremi, che poco avea di conoscimento, andò a lui una sua vicina, come tutte fanno, la quale avea nome Donna Buona, e disse:
- Basso, Dio ti facci sano; io sono la tua vicina monna Buona.
E quelli con gran fatica guata costei, e disse che appena si potea intendere:
- Oggimai, perché io muoia, me ne vo contento, ché ottanta anni che io sono vissuto mai non ne trovai alcuna buona.
Della qual parola niuno era d'attorno che le risa potesse tenere, e in queste risa poco stante morí.
Della cui morte io scrittore, e molti altri che erano per lo mondo, ne portorono dolore, però che egli era uno elemento a chi in Ferrara capitava. E non fu grande discrezione la sua verso le mosche? Sanza che fu una grande reprensione a tutta sua famiglia; ché sono assai che abbandonano in cosí fatti casi quelli che doverrebbono mettere mille morti per la loro vita, e tale è il nostro amore che non che li figliuoli mettessino la vita per li loro padri, ma gran parte desiderano la morte loro, per essere piú liberi.


NOVELLA  XXII

Due frati minori passano dove nella Marca è morto uno; l'uno predica sopra il corpo per forma che tale avea voglia di piagnere che fece ridere.

Non fu sí canonizzata la fama del Basso di piacevolezza dopo la sua morte, quanto fu canonizzata la fama d'uno ricco contadino falsamente in santità in questa novella. E' non è gran tempo che nella Marca d'Ancona morí nella villa un ricco contadino, che avea nome Giovanni; ed essendo, innanzi che si sotterrasse, tutti gli suo' parenti e uomeni e donne nel pianto e ne' dolori, volendoli fare onore, non essendo ivi vicina alcuna regola di frati, per avventura passorono due frati minori, li quali da quelli che erano diputati a fare la spesa furono pregati che alcuna predicazione facessono a commendazione del morto.
Li frati, nuovi sí del paese, e sí d'avere conosciuto il morto, cominciorono tra loro a sorridere, e tiratisi da parte disse l'uno all'altro:
- Vuo' tu predicar tu, o vuogli che io predichi io?
Disse l'altro:
- Di' pur tu.
Ed egli seguí:
- Se io prédico, io voglio che tu mi prometta di non ridere.
Rispose di farlo.
Dato l'ordine e l'ora, e saputo il nome del morto, il valentre frate andò, come è d'usanza, dove era il morto e tutta l'altra brigata; e salito alquanto in alto, propose:
- Que, qui . Per que  s'intende Janni, per qui  s'intende Joanni dello Barbaianni; non ci dico cavelle, perché vola di notte. Signori e donne, io sento che questo Joanni è stato bon peccatore, e quando ha possuto fuggire li disagi, volentiera ce l'ha fatto; ed è ben vivuto secondo il mondo; hacci preso gran vantaggio nel servire altrui, ed ègli molto spiaciuto l'essere diservito: largo perdonatore è stato a ciascuno che bene gli abbia fatto, e in odio ha avuto chi gli abbia fatto male. Con gran diletto ha guardato li santi dí comandati; e secondo ho sentito, gli dí da lavorare s'è molto guardato da' mali e dalle rie cose. Quando li suoi vicini hanno avuto bisogno, fuggendo le cose disutili, sempre gli ha serviti: è stato digiunatore quando ha aúto mal da mangiare: è vissuto casto, quando costato li fosse. Oratore m'è detto che è stato assai: ha detto molti paternostri, andandosi al letto, e l'Ave Maria almeno, quando sonava nel popul suo. Spesso ne' dí fuor di settimana facea elemosine. Venendo alla conclusione, li costumi e le opere sue sono state tali e sí fatte che sono pochi mondani che non le commendassono. E chi mi dicesse: "O frate, credi tu che costui sia in Paradiso?" Non credo. "Credi tu che sia in Purgatorio?" Dio il volesse. "Credi tu che sia in Inferno?" Dio nel guardi. E però pigliate conforto, e lasciate stare li lamenti, e sperate di lui quel bene che si dee sperare, pregando Dio che ci dia grazia a noi, che rimagnamo vivi, stare lungo tempo con li vivi, e li morti co' maglianni, da' quali ci guardi qui vivit et regnat in secula seculorum.  Fate la vostra confessione ecc.
La voce andò tra quella gente grossa e lacrimosa costui avere nobilmente predicato, e che elli avea affermato il morto per la sua santa vita essere salito in sommo cielo.
E' frati se n'andorono con un buono desinare e con denari in borsa, ridendo di questo per tutto il loro cammino.
Forse fu piú vera e sustanzievole predica questa di questo fraticello che non sono quelle de' gran teologhi, che metteranno con le loro parole li ricchi usurai in Paradiso, e sapranno che mentono per la gola; e sia chi vuole, che se un ricco è morto, abbia fatto tutti e' mali che mai furno, niuna differenzia faranno dal predicare di lui al predicare di San Francesco; però che piagentano per empiersi di quello delli ignoranti che vivono.


NOVELLA XXIII

Messer Niccolò Cancellieri per esser tenuto cortese fa convitare molti cittadini, e innanzi che vegna il dí del convito è assalito dall'avarizia, e fagli svitare.

Questo inganno che questo frate fece con coverte parole a fare tenere un uomo santo, che non v'era presso, non volle usare in sé messer Niccolò Cancellieri, cavaliere dabbene, salvo che era avarissimo. Il quale volendo coprire in sé questo vizio, nell'ultimo si penteo, e nol fece.
Questo cavaliero fu da Pistoia, uomo sperto e cortigiano, stato e usato quasi il piú della sua vita con la reina Giovanna di Puglia, e con li signori e baroni di suo tempo e di quello paese. Essendo tornato costui a Pistoia, e facendo là sua dimora, fu stimolato e pinto dalli suoi prossimani, dicendo:
- Deh, messer Niccolò, voi sete un cavaliero d'assai, se non che l'avarizia vi guasta; fate un bello corredo, e mostrate a' Pistolesi non essere avaro come sete tenuto.
Tanto gli dissono che costui fece invitare bene otto dí innanzi tutti li notabili uomeni di Pistoia a mangiare una domenica mattina seco. E cosí fatto, quando giugne al quinto dí, che s'appressava al tempo di comprare le vivande, una notte fra sé medesimo pensò e fondossi pur su l'avarizia, però che il dí vegnente dovea cominciare a sciogliere la borsa, dicendo in sé medesimo: "Questo corredo mi costerà cento fiorini, o piú; e se io ne facesse cinquanta come questo, serebbe uno: non fia che sempre io non sia tenuto avaro. E per tanto, poiché 'l nome dell'avarizia non si dee spegnere, io non sono acconcio per spenderci denaio".
E cosí prese per partito che la mattina, levato che fu, chiamò quel medesimo famiglio che per sua parte avea invitato li cittadini, e disse:
- Tu hai la scritta con che tu invitasti que' cittadini a desinare meco; recatela per mano, e come tu gl'invitasti, va', e svitali.
Dice il famiglio:
- Doh, signore mio, guardate quello che voi fate, e pensate che onore ve ne seguirà.
Dice il cavaliere:
- Bene sta; onore con danno al diavol l'accomanno; va', e fa' quello che io ti dico; e se alcuno ti domanda la cagione, rispondi che io mi sono pensato ch'io perderei la spesa.
E cosí andò il fante, e cosí fece, laonde molti dí se ne disse in Pistoia, facendo scherne al detto messer Niccolò. Il quale, essendogli manifesto, dicea:
- Io voglio innanzi che costoro dicano male di me a corpo vòto, che a corpo satollo del mio.
Io non so se questa fu maggiore cattività che quella che averebbono fatto gli svitati, quando avessono avuto li corpi pieni, che forse con grandissime beffe di lui averebbono patito quelle vivande, dicendo:
- Ben potrà spendere, e fare conviti, ché cosa sforzata pare e sempre avaro fia tenuto.
El cavaliere si rimase nella sua misertà e fuori della pena del convito, che non li fu piccola. Ebbe questo difetto, il quale nel mondo sopra li piú regna per sí fatta forma ch'egli è forse cagione delli maggiori mali che si commettono nel cerchio della terra.

NOVELLA XXIV

Messer Dolcibene al Sepolcro, perché ha dato a uno Judeo, è preso e messo in un loro tempio, là dove nella feccia sua fa bruttare i Judei.

Se nella precedente novella il cavaliere non volle ingannare altrui e mostrare sé essere quello che non era, cosí in questa messer Dolcibene mostrò e fece credere certamente a certi Judei il falso per lo vero. Come addietro è narrato, messer Dolcibene andò al Sepolcro; e come egli era di nuova condizione, e vago di cose nuove, venendo a parole con uno Judeo, perché dicea contro a Cristo, schernendo la nostra fede; dalle quali parole vennono a tanto che messer Dolcibene diede al Judeo di molte pugna; onde fu preso e menato a gran furore, dove fu serrato in un tempio de' Judei.
Venendo in su la mezza notte, essendo tristo e solo cosí incarcerato, gli venne volontà d'andare per lo bisogno del corpo, e non potendo altro luogo piú comodo avere, nel mezzo del tempio scaricò la soma. La mattina di buon'ora vennono certi Judei, e apersono il tempio, dove nel mezzo dello spazzo trovorono questa bruttura. Come la viddono, cominciano a gridare:
- Mora, mora lo cristiano maladetto, che ha bruttato lo tempio dello Dio nostro.
Messer Dolcibene, essendo da costoro assalito e preso, avendo gran paura, disse:
- Io non fui io; ascoltatemi, se vi piace: stanotte in su la mezza notte io senti' gran romore in questo luogo; e guardando che fosse, e io vidi lo Dio vostro e lo Dio nostro che s'aveano preso insieme e dàvansi quanto piú poteano. Nella fine lo Dio nostro cacciò sotto il vostro, e tanto gli diede che su questo smalto fece quello che voi vedete.
Udendo li Judei dire questo a messer Dolcibene, dando alle parole quella tanta fede che aveano, tutti a una corsono a quella feccia, e con le mani pigliandola, tutti i loro visi s'impiastrarono, dicendo:
- Ecco le reliquie del Dio nostro.
E chi piú si studiava di mettersene sul viso, a quello parea essere piú beato; e lasciando messer Dolcibene, n'andorono molti contenti, con li visi cosí lordi: e ancora procurando per lui, però che la tal cosa con gran verità avea loro revelata, il feciono lasciare.
Molto fu piú contento messer Dolcibene ch'e' Judei; però che fu molto novella da esaltare un suo pari e da guadagnare di molti doni, raccontandola a' signori e ad altri. E io credo ch'ella fosse molto accetta a Dio, e che in quello viaggio non facesse cosa tanto meritoria che quelli increduli dolorosi s'imbruttassino in quelle reliquie che allora meritavano.


NOVELLA XXV

Messer Dolcibene per sentenzia del Capitano di Forlí castra con nuovo ordine uno prete, e poi vende li testicoli lire ventiquattro di bolognini.


La seguente novella di messer Dolcibene, della quale voglio ora trattare, fu da dovero, dove la passata fu una beffa.
Nel tempo che messer Francesco degli Ardalaffi era signor di Forlí, una volta fra l'altre v'arrivò messer Dolcibene: e volendo il detto signore per esecuzione fare castrare un prete, e non trovandosi alcuno che 'l sapesse fare, il detto messer Dolcibene disse di farlo elli. Il capitano non averebbe già voluto altro, e cosí fu fatto. E messer Dolcibene fece apparecchiare una botte, e sfondata dall'uno de' lati, la mandò in su la piazza facendo là menare il prete, ed elli col rasoio e con uno borsellino andò nel detto luogo.
Giunti là e l'uno e l'altro, e gran parte di Forlí tratta a vedere, messer Dolcibene avendo fatto trarre le strabule al prete, lo fece salire su la botte a cavalcioni, e li sacri testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. Fatto questo, ed elli entrò di sotto nella botte, e col rasoio tagliata la pelle, gli tirò fuora e misseli nel borsellino, e poi gli si mise in uno carniere, però che s'avvisò, come malizioso, di guadagnare, come fece. Il prete doloroso, levato di su la botte, ne fu menato cosí capponato a una stia, e là alquanti dí si fece curare. Il capitano di queste cose tutto godea.
Avvenne poi alquanti dí che uno cugino del prete venne a messer Dolcibene in segreto, pregandolo caramente che quelli granelli gli dovesse dare, ed elli farebbe sí che serebbe contento; però che 'l prete capponato sanza essi dire messa non potea. Messer Dolcibene, aspettando questo mercatante, gli avea già misalti e asciutti, e quanto gli dicesse, e come gli mercatasse, egli n'ebbe lire ventiquattro di bolognini. Fatto questo, con grandissima festa disse al capitano che cosí fatta mercanzia avea venduta; e 'l sollazzo e la festa che 'l capitano ne fece non si potrebbe dire. E in fine, per diletto e non per avarizia, della quale fu nimico, disse che volea questi denari e che elli apparteneano a lui. Messer Dolcibene si poteo assai scuotere, ché convenne che tra le branche di Faraone si cavassono lire dodici di bolognini, dando la metade al detto capitano.
E cosí rimase la cosa che 'l prete se n'andò senza granelli dell'uno de' quali ebbe il capitano lire dodici, e messer Dolcibene altrettanti dell'altro.
Questa fu una bella e nuova mercanzia: cosí delle simili si facessono spesso, ché ne serebbe molto di meglio il mondo; e che fossono tratti a tutti gli altri, acciò che, ricomperandosi, avessono l'uno e l'altro danno, e poi gli si portassono in uno borsellino, che almeno non serebbono li viventi venuti a tanto che bandissono ogni dí le croci sopra le mogli altrui, e che tenessono le femmine alla bandita, chiamandole chi amiche, chi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne nascono, loro nipoti gli battezzano, non vergognandosi d'avere ripieni li luoghi sacri di concubine e di figliuoli nati di cosí dissoluta lussuria.

 
 
 
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