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Il Meo Patacca 07-1

Post n°1272 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO SETTIMO

ARGOMENTO

Va PATACCA da Nuccia, e glie rinova
L'antico amor con lei pacificato.
Va poi da più signori, e modo trova
Ch'el belardo promesso gli sia dato.
Di notte intanto arriva la gran nova,
Che l'assedio da VIENNA era levato;
Ai difenzori ha invidia, e si consola
Con dar principio a un po' di festicciola.

MEO, che non resta mai senza imbarazzi,
S'alza dal letto prima assai del sole;
Sa ch'in giro ha d'annà per più palazzi
A buscà pozzolana più che pole:
Pe' poi cerimonià co' i signorazzi,
Studia a trovà romanziche parole,
Acciò le pozza dir massiccie e tonne
A chi scioglie la sorte e da 'l mammonne.

Poi vestito che s'è, vuò annar a rennere
Al Jaccodimme l'abbiti che prese,
Gli pare uno sproposito lo spennere,
Quanno c'è modo d'avanzà le spese;
Sa che l'ebreo po' 'l nolito pretennere,
Sino ch'a lui la robba non si rese;
Acciò non curra per calch'altro giorno,
Si vuò leva 'sto taccolo da torno.

Ciama il suo quondam Paggio, che il fagotto
Gli porti dreto, pe' inzinenta al Ghetto;
Quello viè lesto, e se lo mette sotto
Al piccol braccio, e se lo porta stretto.
S'arriva dal giudìo: MEO gli fa motto,
Gli da il vestito e il nolo, e al rabbacchietto
Dona doppoi certa moneta spiccia,
Lui salticchianno a casa se l'alliccia.

Fatto c'ha questo MEO vedè vorria
Se le monete rampazzà potesse,
Ch'il dì innanzi con tanta cortesia
La nobiltà romana gl'impromesse;
Gli pare poi, che troppo presto sia,
Chalch'uno a male non vorria l'havesse;
Penza, ripenza, e che sia meglio crede,
L'annà quanno è più tardi a fasse vede.

Stima 'l tempo a proposito fratanto
D'esser da Nuccia, a daglie 'sto contento
Di parlaglie, perchè rasciucchi 'l pianto,
E più non faccia el solito lamento:
È ver, che glie dispiace tanto quanto,
D'have' a senti chalch'altro fiottamento,
Ma vuò mostrarzi ad osservaglie pronto,
Quel c'ha impromesso, pe' non faglie affronto.

Alla casa di lei ben presto arriva,
Qui c'era Tutia che scopanno stava
Giù nell'entrone, ch'alla strada usciva,
E alla porta ogni poco s'affacciava.
Era intenta a osservà se MEO veniva
Per esser questo quel che gl'importava,
Anzi ch'a posta lì s'intratteneva,
Se già da Nuccia il gergo havuto haveva.

S'accorge alfine e consolata resta,
Ch'alia sfilata MEO viè puntuale:
Tra sè subbito fece una gran festa,
E se ne curze allor verzo le scale:
"Signora Nuccia mia! Stateme lesta,
- Disse, - che vien l'amico". "Manco male! -
Rispose lei. - Parlate adesso voi,
Che come già v'ho detto, io verrò poi".

Fatta, c'ha st'imbasciata calda calda,
A scopà torna, et a gnent'altro abbada
La ciospa, che per essere ghinalda,
Manco rivolta più l'occi alla strada.
Nella faccenna sua, mentre sta salda,
Finge che pe' la testa altro glie vada;
Ma però, entrato MEO, gli fa ben presto
Con braccia alzate, d'allegrezza un gesto.

Così all'orecchio, subbito gli parla:
"Signor PATACCA! Prima, che giù venga
La gnora Nuccia, e habbiate ad ascoltarla,
Contentativi ch'io qui v'intrattenga.
V'ho da dire una cosa, che il lasciarla,
Se importa assai, mi par che non convenga".
MEO glie rispose allora: "Io son contento,
Con libertà parlate, che ve sento".

Lo tira allor da parte, e poi gli dice
Seguitanno a parlargli sotto voce:
"Pietà Signor PATACCA! Haver disdice,
In un petto gentile, un cor feroce.
Troppo deventarà Nuccia infelice,
Se voi sete crudel; pena più atroce
La poverina è di provar capace,
Se voi con lei non ritornate in pace.

Se sapessivo, quanto s'è sbattuta,
Per vostr'amor, quanto s'è tapinata,
Ve ne sarìa compassion venuta,
Faceva cose poi da disperata.
Benchè sia lei 'na giovane saputa,
Quasi fora de gargani era annata.
Se ieri non l'havessivo sentita,
Tutta già for di sè sarebbe uscita.

Per la gran rabbia non trovava loco,
Perchè glie si scioglie, stracciò 'l zinale,
Sentì da un aco puncicarsi un poco,
Mentre cuciva, e mozzicò el ditale.
Drento una pila, che bulliva al foco
La cenere mette scambio del sale;
Buttò cert'acqua in strada, e giù con quella,
Scionìta lassò annà la catinella.

Un'altra poi ne fece assai più brutta,
(Ve la dico, ma solo in confidenza):
Specchiandose si vidde un pò distrutta
Per dolor, che più a lei non date udienza;
Stacca lo specchio, e in terra poi lo butta
Con tutta rabbia e tutta violenza;
Sù ci sputa, e co' i piedi lo calpesta,
Sino ch'affatto sminuzzato resta.

Considerate, se il cervel bulliva;
Ma quel, ch'è peggio poi, strazi faceva
Della perzona sua, lei non dormiva,
E nè manco magnava, nè beveva.
Voi signor MEO, se la volete viva,
Fate che torni, come già soleva,
A starvi in grazia, e se 'l contrario trova,
Allor sì, ch'al suo mal gnente più giova.

Stava fora di sè pel gran dolore,
D'havervi fatta quella schiaranzana,
Allor quando, accecata dal furore,
Un'attione vi fece, da villana.
Io v'assicuro, da donna d'onore,
Che la meschina deventò sì strana,
Perchè la messe in una brutta bega
Con li su' inganni quella vecchia strega.

Calfurnia, voglio dir, (vi parlo schietta).
Con riggiri costei fece la botta;
Lei fu una quaglia, in far di voi vendetta,
E Nuccia fu, nel credeglie, merlotta.
Che contro lei dicessivo, gl'appetta,
Quella sorte d'ingiurie, ch'assai scotta
Alle donne, e più a lei, che ci sta tutta
Su 'ste cose, ciovè ch'è vecchia e brutta.

Ma a fè', glie costò cara 'sta buscia,
Perchè Nuccia la fece da smargiassa;
Scuperta, c'hebbe 'sta forfantaria
In furia entrò, più d'una satanassa.
A trovà se ne va la falsa spia,
La scapiglia, la sgrugna, e la sganassa;
Che la sfiatasse, io cresi di sicuro,
Quando la strinze con la testa al muro".

"Ben glie sta, - disse MEO. - Peggio doveva
Faglie Nuccia, e se più la sciupinava,
Quello che meritò, lei glie faceva,
E me dava più gusto, allor me dava.
Ma però Nuccia accorgese poteva,
Che quella griscia te l'intrappolava;
Quanno 'ste ciarle contro me sentiva
In credè non doveva esser curriva".

Ma di quel ch'è passato, io già mi scordo.
Che più a 'ste cose per sottil non guardo,
Et a un core di femmina balordo,
Perchè geloso, io voglio havè riguardo.
Venga pur Nuccia, e subbito m'accordo,
A farce pace, e non sarò busciardo,
Se ritorno a imprometterglie d'amalla,
Pur che non fiotti allor, c'ho da lassalla".

"Glie basta, - dice Tutia, - e glie n'avanza,
Che gli facciate un poco d'accoglienza,
E circa poi la vostra lontananza,
Glie converrà per forza havè pacienza;
Se glie date in partì qualche speranza,
Glie sarà meno dura la partenza,
E so, che 'sto contento glie darete,
Ch'un figlio d'oro, signor MEO, voi sete.

Ma più non dico, e ve la chiamo in fretta.
Signora Nuccia! presto giù venite,
Che c'è il signor Patacca, che v'aspetta,
Ch'è qua venuto, a disfinì la lite.
Spicciativi, (non sente 'sta fraschetta!).
Si può sapè, se quando la finite?"
"Eccomi", dice lei; nè s'intrattenne,
Ma subbito sollecita giù venne.

In tel mentre, che scegne pe' le scale,
Visto appena PATACCA, lo saluta,
Ma però in modo, e con modestia tale,
Che non pare più già Nuccia sacciuta.
Si tiè le mani poi, sott'al zinale,
Guarda, ma savia, in terra, e irresoluta
Sta senza dir parola in sua difesa,
Su l'ultimo scalino, tesa tesa.

Tutia, in così vedella, si tapina,
E non vorria che tanto gnegna stasse,
A farglie zenni, sempre più s'aina;
Gusto haverìa, che presto si spicciasse.
Sta timiduccia allor la poverina,
Par ch'a parlà non sappia arrisicasse;
Quasi ce prova, ma non glie viè fatta,
E si fa roscia come una scarlatta.

"Animo!" glie fa MEO, che te glie renne
Prima el saluto co' 'no sfarzo granne,
E poi glie dice: "Ecco PATACCA venne
Di vostrodine pronto alle domanne.
D'osservà la parola gli convenne,
Perchè non è un Ciafèo, nè un Tataianne",
Co' i fatti, alle promesse corrisponne,
Massime quanno ha da servì le donne".

Nuccia fa core, e a dir la cosa schietta
Così incominza: "Signor MEO, perdono
Vi chiede una tradita giovenetta,
Ch'errò, per creder troppo, e quella io sono.
Nel dirvi ingiurie, troppo fui scorretta,
Me stessa a ogni gastigo sottopono;
Tutto soffrir prometto, pur ch'io viva,
Benchè lungi da voi, di voi non priva".

"Zitta! Non più, - rispose MEO, - v'ho preso,
E se ben'altro voi non mi dicete,
Ve fo' sapè ve fo', che tutto ho inteso,
Quel che di dirmi in tel penziero havete.
Cognosco, che ve scotta havemme offeso:
Lo so che messa su voi state sete,
E so di più, che del già fatto errore,
Ve ne pentite, e ve ne crepa el core.

Lo so quante a Calfurnia glie ne deste;
So, che la riducessivo assai male,
Havennola acconciata pe' le feste
Con un rifibbio al mancamento uguale.
Orsù, ve dò 'l perdon che mi chiedeste,
E sol perchè, ben sa 'sto fusto, al quale
Con le bone parole il cor si lega,
Punir chi brava, e favorir chi prega.

Tornata sete, e vostra grolia sia,
E vantatevi pur, d'havemme trovo
Così de bona gana, in grazia mia,
E l'amor, che vi tolzi, vi rinovo.
Ma tra noi questo patto fermo stia,
Che quanno inverzo Vienna i passi movo,
Non stiate a dir con i piantusci intanto,
Che io so' un disamorato, e che ve pianto".

"Vero non sia, - risponne lei, - ch'ardisca
Dir cosa, ch'el sentirla vi rincresca,
Né, che per quanto 'sto mio cor patisca,
Una parola dalla bocca m'esca.
Lo vuole ogni raggion, ch'io consentisca,
Ch'andiate ad assalta gente Turchesca,
Acciò, s'al naso vi verrà la mosca,
La bravura di voi, là si conosca ".

"Mi date in tell'umor, - qui MEO ripiglia, -
Così parla, chi è donna di giudizio,
Che quelle cose mai non disconsiglia,
Ch'a lascialle, son poi di pregiudizio.
L'annare a far in guerra un parapiglia,
A mette i Turchi cani in precipizio,
È un'opera da bravo, e non capisce,
Cos'è grolia e valor, chi l'impedisce.

Voi gnora Nuccia mi direte: - È vero,
Ch'annà alla guerra a rifilà quei pioppi,
È un'impresa de garbo, un bel penziero,
Quanno però, là non ci siano intoppi.
Ma sempre c'è un pericolo assai fiero,
Ch'uno ce sballi, o ch'alla men si stroppi,
Io vi risponno, ch'è più bell'attione
Morì bravo, che vivere un poltrone.

Ma non più. Famo pace, io già m'azzitto,
E resto delle scuse sodisfatto;
Sempre ve manterrò quello, ch'ho ditto,
Perchè così da galant'homo io tratto;
Ma però da quì innanzi, arate ritto,
Ch'io più non penzo a quel, c'havete fatto,
Nè date udienza a chiacchiare. E 'l mi' affetto
Sarà sempre per voi lampante e schietto.

Hor dunque a rivedecce. Io me la coglio,
Che di molti negozii ho da sbrigamme,
Ve voglio poi tornà a vedè ve voglio,
Quanno haverò fornito de spicciamme;
Certo, ch'in poco tempo me la sbroglio,
Che tanto saperò rimuscinamme,
Tanto annerò giranno, ch'assai presto,
Spero le cose mie, mettere a sesto".

 
 
 
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