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Il Meo Patacca 06-2

Post n°1265 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Così tra loro chiacchiaranno arrivano,
Et ammanniti molti sgherri trovano,
Che in tel vedè, che da carrozza uscivano,
A fargl'ala in un subbito si movano;
Hor mentre a truppe a truppe altri venivano,
Sempre più l'accoglienze si rinovano;
Così a complì tutti bel bello vengono,
Et a ciarlà con MEO, lì si trattengono.

Sta questo in mezzo, e giusto giusto pare
Un signor, c'habbia attorno el vassallaggio,
Che sia nato al commanno, e gli vie' a stare
Col fongo in man, due passi arreto il paggio.
S'incominzano i sgherri ad affollare,
Et ogn'uno di lor vie a su' vantaggio.
Sottocchio osserva MEO, se lì ridutti,
Li dieci capitani ci so tutti.

Non ne vede manca propio nisciuno;
Però gli par, che troppo mal si spenna
Il tempo in ciarle, perch'è già opportuno,
A dar principio alla sua gran faccenna;
Fa cenno in tal maniera, che ciasch'uno
De i dieci commannanti ben intenna,
Ch'a lui s'accosti, e visto appena il gesto,
Tutti attorno gli vennero assai presto.

Gli dice, che de i sgherri cinquecento,
Ogn'un di loro ne haverà cinquanta;
Ch'è in dieci compagnie lo spartimento,
Come lo scritto, che già fece, canta;
Sotto voce gli dà l'insegnamento,
Come appuntino uno squatron si pianta;
Nel largo li conduce, e lì col dito
A tutti insegna e scompartisce il sito.

I nomi son di tutte 'ste perzone,
Favaccia, Meo, Fanello, Dragoncino,
Checco Sciala, Fa Sciarra, Serpentone,
Sputa Morti, Squarcèo, Cencio e Chiappino.
Nel loco ogn'uno sta del su' squatrone,
E MEO, fratanto, alzanno il bastoncino,
Ordina alli soldati che si movino,
E 'l capitanio suo tutti si trovino.

In dieci truppe son distribuiti,
Dodici file in ogni truppa stanno,
Di fronte, a quattro a quattro scompartiti,
Di quarant'otto el numero poi fanno.
Delli cinquanta, che so' stabbiliti,
Due ne restano, e questi che più sanno
Dell'altri sgherri, e che son più valenti,
Essercitano offizio di sargenti.

Fra uno squatrone e l'altro, un spazio resta,
Dove un altro squatron giusto anneria;
Ogn'un de i capitani sta alla testa
In positura con zerbineria.
Tengono in man la parteggiana, e questa
Conoscer fa la capitaniaria,
Vanno li due sargenti, com'è stile,
Innanzi e arreto, ad aggiustà le file.

Fasciolo, fatto alfier, già venut'era,
E preso in mezzo, innanzi a tutti el posto,
Lesto e sfavante a più potè sbandiera,
Et a lui stanno i tamburrini accosto;
Sonano de concerto, e la bandiera
Che ha 'l cuperchio di carte sopraposto
All'insegne ortolane, e fa' vedène,
Le romanesche, a fè ch'assai sta bene.

PATACCA in tutto el tempo di sua vita,
Gusto non hebbe mai simile a questo,
Sol pe' vede la cosa riuscita
Con ordine aggiustato, e bene, e presto.
Perchè ancor non è l'opera fornita,
Lui pensanno già va, di far il resto.
Ma prima vuò aspetta, sieno arrivati
Quelli Gnori, che già furno invitati.

Spasseggia intanto, e affabbile si degna
Hor con questo, hor con quel dei capitani;
Gli va dicenno, quanto far disegna
All'arrivo de i Nobbili Romani.
La maniera di farlo, ancor gl'insegna,
Perchè al par de i soldati veterani
Vuò, che della milizia l'essercizi,
Faccino i sgherri sui, benchè novizi.

Il caso (a dire il vero) è un pò ridicolo,
Lo stari tutti a sentì, come un oracolo,
Qual fusse un gran guerrier, nè c'è pericolo
Ch'a quel che dice lui, si faccia ostacolo.
Sbocca intanto nel campo da ogni vicolo
Gente a furia a vedè questo spettacolo,
Et io, che lo racconto, più ce specolo,
Su 'sto credito c'ha, più ce strasecolo.

Gente minuta viè, gente mezzana,
E non ne manca della prima riga.
Quella, che tardi arriva, e che è lontana,
Via via d'avvicinarzi s'affatiga.
Di carrozze ce n'è una caravana,
Una coll'altra sempre più s'intriga,
Mentre fra queste 'l popolo s'intruglia,
Si fa chiasso, sconquasso, e si fa buglia.

Chi ha paccheta, chi strepita, chi zompa,
Chi 'l pericolo trova, e chi lo scampa
E chi va a rischio ch'una gamma rompa,
Se non è lesto a maneggià la zampa.
Per osserva 'sta romanesca pompa,
Salir sino su l'arbori s'allampa
La gente birba, e chi su le barozze,
Chi s'arrampica dreto alle carrozze.

Queste ogni tanto s'urtano e s'impicciano,
Cascano quelli, e in mezzo allor si cacciano;
Pe' scappane alle rote si stropicciano
Li vestiti, o l'imbrattano, o li stracciano;
Si fan largo, inzinenta che si spicciano,
Chi gli resiste con urtoni scacciano;
Pe' sì gran stento di sudor già gocciano;
Trovano un altro posto, e allor qui incocciano.

'Ste folle sono un taccolo assai brutto,
Fanno spesso succedere del male,
E più d'uno alle volte s'è ridutto
A marcià via, ferito all'ospidale.
Qui pericolo poi c'è da per tutto,
Se in ogni parte c'è una calca uguale;
Perchè poi cresca lo scompiglio allora,
Più d'un calesse s'inframezza ancora.

Il calesse è una sedia galantina
Co' i su' braccioli, e con la su' spalliera,
Et è cuperta o di vacchetta fina,
O di velluto, o pur d'altra maniera.
Ce s'appoggia assai commoda la schina,
E a starce drento è una Cuccagna mera,
Che la perzona, allor quanno ce sede,
Per più commodità, ci ha 'l sottopiede.

Sopra due stanghe posa, e longhe e piane,
Dalla parte di dreto sostenute
Da due rote, non grandi ma mezzane;
Denanzi in alto pur, son mantenute
Dal cavallo ch'in mezzo a quelle stane,
C'ha 'l sellino aggiustato, son reggiute.
Tra le due rote un seditor poi c'è,
Dove, se vuò, ce pò sedè un lacchè.

Questa in fatti è una sedia leggerissima;
Regge el cavallo chi ce sta seduto,
Gli fa piglia 'na curza velocissima,
Massime quanno è l'animai foiuto;
Ce n'è di questi quantità grannissima,
Uno però fra l'altri n'è venuto,
C'ha procurato di pigliasse el posto,
Dov'è PATACCA, o almen poco discosto.

Era questo un calesse col soffietto,
Ch'è una scuffia di pelle sopraposta.
Si tiè alta e stesa, a forza d'un archetto
Di ferro, che chi è drento alza a sua posta.
Nuccia più con timor, che con diletto
Sedèa con Tutia quì mezza nascosta,
Sol pe' vede se MEO nell'osservarla,
O glie fa 'l grugno, o affabbile glie parla,

Da quel ch'il giorno innanzi inteso haveva
Da Cencio e Marco Pepe assai dolente,
Che MEO fusse in gran collera credeva,
Tanto più che sentì, ch'era innocente.
Farzi vedè voleva e non voleva,
Stava tra 'l sì e tra 'l no; per accidente
Glie passa innanzi lui, s'impallidisce
Allora Nuccia, e tutta si stremisce.

S'incontra MEO nelli su' sguardi, e un atto
Fece quasi di sdegno in tel vedella:
In altra parte si voltò ad un tratto,
Facenno finta di non cognoscèlla;
Alfin lei si fece animo, e de fatto
L'intenzione di lui volze sapella.
Alzatasi un tantin vergognosetta,
Abbassa l'occhi, e fa la bocca stretta.

Poi con voce sommessa, e tremolante,
Gli dice: "Serva di Vossignoria!"
PATACCA allor, benchè di lei sprezzante,
Non volze faglie affatto scortesia.
Alzò 'l fongo, ma poco; del restante
Non glie fece altro, che 'sta cortesia:
Ma gnente più s'intrattenè lì, dove
Nuccia haveva il calesse, e scurze altrove.

Restò attonita questa, e i sguardi tenne,
E languidi, e pietosi in MEO rivolti,
E di fissalli in lui mai non s'astenne,
Speranno che di novo a lei si volti;
Più d'una lagrimuccia alfin gli venne
Su l'occhi, e s'accorge, ch'eran già sciolti
D'amor i lacci, s'alle sue faccenne,
Senza abbadà più a lei, PATACCA attenne.

Tutia per consolà quella scontenta
Meglio che sa, chalche raggion glie porta;
Ma il ciarlà di costei più la tormenta,
Tutto l'affligge, e gnente la conforta.
Di quel che disse a MEO, già par si penta,
Se d'esser troppo curza, già s'è accorta;
Pur incoccia a sta' lì, che vuò fa' prova,
S'a pietà del suo mal quello si mova.

Di gran Signori intanto, e Maiorenghi
Il posto le carrozze hanno già preso,
MEO che più non aspetta alcun che venghi,
A far l'offizio suo, sta tutto inteso;
Però stima che prima gli convenghi
Far riverenza a quelli, perchè offeso
Non resti alcun dei Gnori, e in fagli inchino
Ci ha tal garbo, che pare un ballarino.

Ne fa' dell'accoglienze, e ne riceve,
Ma non per questo, gnente si scompone,
Fa con sodezza, quel che far si deve,
Nè se gli pò da' pecca d'ambizione.
Così bel bello el nostro MEO s'imbève
Di massime onorate, et assai bone,
E chi plebeo noi cognoscette prima,
Homo di chalche nascita lo stima.

Scurre fratanto, e ne rimbomba l'aria,
Un mormorìo d'apprausi, e lui ne sente
Un'allegrezza al cor, non ordinaria,
Et appraudita ancora è la su' gente;
Una sverniata fa straordinaria,
Perch'ogn'uno vestito è nobilmente;
O prestati da amici, o presi al Ghetto,
Son abbiti di vista, e di rispetto.

Scialoso ogn'un di loro era comparzo
Pe' formà di soldati un nobbil terzo,
I giustacori favano gran sfarzo
Guarniti bene assai per ogni verzo;
Fanno el campo parè de fiori sparzo
Le pennacchiere di color diverzo,
Ogni fongo ha la sua: son verdi et anche
Molte più belle so incarnate o bianche.

E di corvatte, e di sfettucciamenti,
Io non ne parlo, che ce n'è una soma;
Tanti sgherri, e con tanti abbigliamenti,
Non so se mai prima vedesse Roma.
Pe' fa' maggiori poi gli scialamenti,
Tutti arriccia si fecero la cioma,
E giusto a foggia d'un armacolletto
Portan la fionna attraversata al petto.

Pendèa dal fianco, e questo era el mancino,
La dorindana a tutti assai galante,
Al dritto poi ce stava uno stortino,
Ch'a taglià sino el ferro era bastante;
In spalla haveva ogn'un lo schizzettino
Con canna e con fucile "luccicante;
Così co' 'st'archibusci assai leggeri,
Favano uno squatron di fucilieri.

Alfin da segno alzanno MEO la mano,
Che quel si faccia, ch'ordinò in segreto;
D'ogni squatra si movono pian piano
Sei file, ma di quelle che so arreto;
Marcia ogn'una a sinistra, a mano a mano,
Della milizia al modo consueto;
La settima e la prima, a distaccarzi
Van per ordine, l'altre ad accostarzi.

Quello spazio, bel bello, a impir' si viene,
Che tra un squatron e l'altro era restato;
S'uniscono le file, e così bene,
Che quel vano, che c'era, è già occupato.
Ecco sei file in giù distese, e piene,
Et ecco lo squatron tutto aggiustato.
Le file poi, più dritte esser non ponno,
Son ottanta di fronte, e sei di fonno.

A commannante alcun MEO non la cede;
Mentr'ha i su' sgherri in ubbidillo attenti,
Dice allora: "Impostate", e così chiede
Che Farmi volti ogn'un verzo le genti.
Moverzi in aria subbito si vede
Selva di cacafochi luccichenti;
Ciasch'un s'imposta, et in dir lui: "Sparate",
Fischiano cinquecento archibusciate.

Si sentì allora un popolar bisbiglio,
Non ne pozzo a bastanza io dar raguaglio,
Fece inarcare a i circostanti il ciglio
Lo sparo fatto a tempo, senza un sbaglio.
Ci fu tra l'invidiosi un gran scompiglio,
E più d'uno di questi magnò l'aglio,
E pe' fagli più crescere il cordoglio,
Risonò 'l prauso sino in Campidoglio.

Mentre c'è chalched'un, che si rammarica,
Miglianta ce ne son, che ce festeggiano,
Perchè hanno vista così bella scarica,
E havella fatta i sgherri assai si preggiano.
Hor mentre ogn'un lo schioppo suo ricarica
Li tamburrini fra di lor gareggiano
In tel batte la cassa, e a mani stese
L'alfier Fasciolo a sbandierà si mese.

 
 
 
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