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Il Meo Patacca 06-1

Post n°1261 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO SESTO

ARGOMENTO

Doppo che imparò MEO da un intendente,
Come in guerra si pianta uno squadrone,
La mostra in campo fa della su' gente,
E ce stanno a vedetta più perzone.
La nobiltà romana ch'è presente,
Pel viaggio de 'st'essercito pedone
Impromette monete; ancor quà venne
Nuccia, e placato MEO, perdono ottenne.

Già la sera è venuta, e i bottegari
Inserrano le porte, et i mercanti
Già levano le mostre, e i calzolari
Appicciano la lume ai lavoranti;
Se ne vanno a dormì già li fornari,
Per esse a mezza notte vigilanti;
A i cicoriari ormai, par che gli tocchi,
Anna gridanno: cicoria, e mazzocchi.

Bel bello d'ombre pallide s'ammanta
La notte con un fasto minaccioso,
Se gira calched'un, che sona o canta,
Gl'ordina, ch'a piglià vada riposo.
Di volè sola scorrere si vanta,
Guai a quelli, che fanno atto ritroso,
Nell'ubbidir a lei, perchè a 'sti sciocchi
Gli semina i papaveri in tell'occhi.

MEO però poco addormentà si lassa,
E benchè steso in letto, e quasi sviglio,
Una notte gli par, che mai non passa,
Una mattina, ch'è lontana un miglio,
Pensanno al su' squatrone ce se passa;
Ma s'accorge alla fin, che di consiglio
Ha gran bisogno, se de 'ste faccenne,
A dagli chalche indirizzo saria bona,

Mentre col suo penzier dunque raggiona,
Ricordanno si va, che più servizi
Fece una volta ad una tal perzona,
Ch'in guerra havuti havea diverzi offizi
A dagli calche indrizzo saria bona,
Pe' la pratica c'ha dell'essercizi,
Che fanno li soldati, e certamente,
Vuò, che gl'insegni a squatronà la gente.

Co' 'ste quelle cominza a disviarzi
Dal sonno affatto; ma non può vestirzi,
Perchè ancor non è tempo di levarzi,
E sustanza non c'è di radormirzi.
Va spesso alla finestra ad affacciarzi,
Per osserva, se l'aria viè a schiarirzi;
Ma più scura che mai sa mantenerzi,
E lui torna nel letto a intrattenerzi.

Fa questo quello che le Donne fanno
Allor, che tra di loro s'è capata
Nel tempo più a proposito dell'anno,
Per annare alla vigna una giornata.
Senza dormì tutta la notte stanno,
Vorrian vedè, prima dell'hora usata,
Comparì l'alba; smaniano, e non ponno,
L'impacenza scaccià, nè piglià sonno.

Così nell'aspettà, ch'il dì s'appressi
S'inquieta MEO, che spesso dal cuscino
Alza la testa. "Almen veder potessi,
- Dice tra sè, - spuntar l'alba un tantino".
I passari alla fin sopra i cipressi
Sente cantane in un giardin vicino;
E questi con la lor prima armonìa,
Dell'Aurora, che viè, fanno la spia.

Allor con furia zompa giù dal letto,
Rapre d'un finestrino lo sportello,
Si mette non già l'abbito del Ghetto,
Ch'ancor tempo non è da fane el bello.
Ma doppo pranzo si, che sfarzosetto
Comparirà, vestennose con quello;
Un de i sui, per adesso glie n'avanza
Quanto fa 'sto negozio d'importanza.

Scappa da casa, subbito vestito,
Et a quella sollecito s'invia
Dell'amico, e se questo fusse uscito
Gli daria gran fastidio gli daria.
Pe' bona sorte sua, non è partito,
Ma su la porta sta, pe' marcia via,
Per tempo assai, perchè homo è di giudizio,
Lui resce a piglià fresco e a fa' esercizio.

MEO curre, e appena accosto a lui si vede,
Che te glie fa riverenziate a iosa,
E con bel modo a lui licenza chiede,
De potè supplicallo d'una cosa;
Risponne quello allor: "Che vi succede?
È la mia volontà desiderosa
Di farvi ogni piacer; se posso niente
Per voi, ditelo pur liberamente ".

"Signor! Ho un non so che da confidarvi",
- Reprica MEO - "ma il viaggio d'impedirvi
Io non intenno; voglio seguitarvi,
Se mi date licenza de servirvi.
Così potrò bel bello raccontarvi
Quel che m'occorre, e quello c'ho da dirvi".
"Venite - dice lui - vuò compiacervi,
E in compagnia m'è caro assai l'havervi".

Così d'accordo, inzieme a spasso vanno
E MEO PATACCA la famosa storia
Gli va del su' squatrone raccontanno,
E 'l desiderio, c'ha di buscà groria;
Gli va dicenno poi se dove e quanno
S'ha da fa' la comparza, e con qual boria,
Lo prega, che gl'insegni, acciò non erri,
A schierà in campo cinquecento sgherri.

Quel galanthomo ancor gnente sapeva
Di si' bel fatto, e mentre MEO sentiva,
Ci haveva un gusto granne assai ci haveva,
E a un penzier così bello appraudiva,
Perchè a insegnagli già si disponeva,
Come la gente si distribuiva;
Pe' fa 'na mostra, come fatta annava,
Verzo Campo Vaccino lo menava.

Qui arrivati, gli dà lui la misura,
E delle file, e della lor distanza,
E te gl'insegna con architettura,
A mette 'sta su' gente in ordinanza.
MEO c'ha d'un grann'ingegno l'apertura,
Capisce, e tiè di tutto ricordanza,
E mentre già ne sa quanto gli basta,
Già già metter vorrìa le mani in pasta.

Partono da 'sto loco, e van giranno,
Sempre de 'sta comparza discorrenno;
Va PATACCA l'amico interrogarmo
Di quel, che si fa in campo combattenno.
Così lui molte cose va imparanno,
Chalche dubbio di guerra proponenno;
Già gli pare d'havè saper profonno,
E tra' sgherri a nisciuno esser seconno.

MEO, sino a casa 'l Mastro suo guerriero
Con un garbo grannissimo accompagna;
Gli dice: "Io vi sarò servitor vero,
In Roma, e quanno ancor sarò in campagna;
Perchè Nostrisci è d'animo sincero,
Di dir la verità non si sparagna.
V'ho un obrigo sì granne, e di tal sorte,
Che a mente lo terrò sino alla morte".

Mentre sprofonnatissimo l'inchina,
L'amico lo saluta, e in casa resta;
MEO se la sbatte allor, che s'avvicina
Il tempo già dell'onorata festa.
De fa' 'na spampanata assai zerbina
Laut in campo s'è già messo in testa;
Crompa del fettucciame, acciò compito
Sia l'accompagnamento al su' vestito.

D'havè pe' paggio un regazzin fa prova
D'uno spirito granne, che abbitava
A lui vicino, e in te la strada il trova,
Che con altri raponzoli giocava.
Sa c'ha la matre, e questa a venner l'ova
Appunto allora in su la porta stava;
Sol per quel giorno MEO glie lo richiede,
Lei più che volentier, glie lo concede.

PATACCA a casa torna, e se ne viene
Assai lesto con lui quel ciumachella,
E te gli dà da iaccolà ma bene,
E quello insacca e rempe le budella.
MEO però, che 'l penziero in altro tiene,
Si taffia in prescia in prescia una ciammella;
Beve una volta e presto si spedisce,
E li vestiti subbito ammannisce.

Piglia quel del regazzo, e gliel misura,
E alla vista gli pare longarello,
Ch'è piccolo il bamboccio di statura;
Ma trova che gli va giusto a pennello.
Lo fa vestì con tutta attillatura,
E quel bagarozzetto vanarello
Si pavoneggia, e 'l collo torce e stenne,
Pe' vederzi ancor dreto, e ci pretenne.

Di saia verde è il bel giustacorino,
Con trina gialla, e larga un tantinetto,
C'è 'l battifianco, e drento il su' spadino,
E bianco e a tre cantoni il bel fonghetto;
C'è sopra d'oro falzo un cordoncino,
Al collo ha 'na corvatta col merletto;
Ha calzettine di color di rose,
Legaccie gialle, e bianche le fangose".

Ma poi di MEO PATACCA il giustacore
È propio signoresco, et è sforgiato;
La robba è di muer, et il colore
Fa scialo granne fa perch'è incarnato.
Non solo c'è la vista, ma 'l valore
Se d'oro in quantità tutto è trinato;
Lavorate pur d'oro, in modi rari,
Son l'asole, i bottoni, e l'alamari.

Ha una saracca al fianco sverzellante,
E la guardia d'argento ce risplenne,
Un taffettano di color cangiante
Dal collo insopra al petto se distenne,
Sul lato dritto poi cappio galante
Radunato lo lega, et in giù penne
Un merletto pur d'oro e di gran stima,
Che sta attaccato all'una e l'altra cima.

Sul fongo c'ha 'l triangolo alla moda
Ce sta in giro una bianca pennacchiera,
Ha una corvatta innamidata e soda,
Di robba fina assai, gonfia e leggiera,
C'è il merletto di Fiandra, e glie l'annoda
Un cappio di ponzò, ma in tal maniera,
Ch'innanzi al collo, fa vedè sfarzosa,
Di fettuccie assai larghe una gran rosa.

Già prima di vestirzi gl'era stata
Dal barbier ch'in quel dì gli venne in casa,
La su' cioma benissimo arricciata,
Che fava intorno al viso una gran spasa;
Per esser questa tutta incipriata,
Per havè lui di più la barba rasa,
Aggiustato il filetto e ancor le ciglia,
Una comparza fava a maraviglia.

Col bastoncino in man da commannante,
Co' 'sto vestito gentilhominesco,
Con la vita disposta e assai galante,
Non pareva uno sgherro romanesco;
Lo crederebbe un cavaliero errante
Chi 'l natal non sapesse baronesco,
E par ch'al garbo et all'altiera fronte
Habbia fisionomia di un Rodomonte.


Oh quant'è ver, quanto succede spesso,
Che li vestiti zerbineschi fanno
Comparir un, quel che non è in sè stesso,
Che mascherato va con quest'inganno;
Perchè addosso un bell'abbito s'è messo
Chalch'uno di color, ch'in casa stanno
Asciucchi come sugri, fa del Bello,
Del Riccone, e si sa, ch'è un spiantatello.

MEO PATACCA è però degno di scusa,
Che squarcionà pur troppo gli conviene;
E fa alla fine sol quello, che s'usa
Da chi de fa' gran vista obrigo tiene.
Non è già meritevole d'accusa,
Se là in tel Campo comparì vuò bene;
Ch'a fa' di caposquatra la figura
Ce vuò scialo ce vuò, ce vuò lindura.

Ma per essere un giovane prudente,
A piedi non vuò annà così zerbino;
Pe' non farzi ridicolo alla gente,
S'era già accaparrato un carrozzino.
Ci annerà lui col paggio, e da un parente
Se l'è fatto prestà, ch'è vetturino.
Perchè alla porta è già, scegnono abbasso,
C'entrano, e via lo fanno annà de passo.

Serra le bandinelle oculatissimo
PATACCA, perchè visto esser non vuole,
Col paggio intanto, ch'è spiritosissimo,
Via via dicenno va delle parole.
Lui risponne, e gli da dell'Illustrissimo,
Com'oggi facilmente far si suole.
'Sta cosa non la vuò, nè sopportarla
Può MEO che si risente, e così parla:

"Non mi trattà con titoli o regazzo;
Che tu non sai, quello che io so, ch'è un pezzo;
Chi vuò ciò, che non merita è un gran pazzo,
Se fa degno se fa d'ogni disprezzo.
No, che non voglio sbeffe, nè strapazzo,
Ch'a sopporta 'ste cose non so' avvezzo.
Io stesso in tel vedène assai mi stizzo,
Che spacci il cavalier, chi è nato un zizzo".

"Per dir la verità, creduto havrìa, -
Rispose il paggio, - che l'havesse a caro,
Mi perdoni però Vossignoria.
Che 'sto parlà da un mi' fratello imparo;
Serve a un patron, che vuò che glie lo dia,
Benchè il patre sia stato bottegaro;
Lo chiama, lo richiama, e se ne sfiata,
D'havè più volte l'Illustrissimata".

Rompe il discorzo MEO, che dar si sdegna
A si' fatti spropositi più udienza,
E intanto al paggio molte cose insegna:
Gli dice, qual sarà la su' incumbenza;
Poi, di dagli ad intennere s'ingegna,
Quanno, et a chi far deve riverenza,
Allora, che lui messo in positura,
Farà in campo farà la su' figura.

 
 
 
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